di Martina Raimo
11/03/16
Dal mese di settembre dello scorso è stato molto acceso il dibattito, tra forze politiche e sociali, sindacati e Governo, sulla cosiddetta “Buona Scuola”, il progetto governativo di riforma diventato poi legge dello Stato nel luglio 2015. Denominatore comune per tutte le parti in campo, talvolta con opposte motivazioni, è la scuola come punto di partenza per una vera inversione di rotta nella società italiana che deve ripartire dalla formazione delle nuove generazioni. Eppure, ogni qualvolta si mette mano ad un tentativo di cambiamento, emergono tenaci resistenze e opposizioni che paiono indipendenti da fattori oggettivi e non supportate da analisi tecniche. Atteggiamenti pregiudiziali di questo tipo non offrono alcun contributo concreto al rinnovamento e appaiono scarsamente consapevoli del fatto che l’arduo compito di dover preparare le nuove generazioni ad affrontare un futuro sempre più difficoltoso a livello economico, sociale e valoriale è una questione di corresponsabilità e alto senso civico. “Tutti diciamo: i bambini sono una promessa della vita. Ma mi domando, a volte, se siamo altrettanto seri con il loro futuro.” (Francesco, U.G. 14/10/2015).
La scuola, infatti, è un tema che richiede la cultura della “responsabilità” fondata sull’esigenza di una volontà trasversale, a cui devono essere estranee le contrapposizioni più estreme, tanto meno se derivanti dalla difesa di interessi corporativi di più o meno piccole lobby di potere.
Ancora una volta è chiaramente emerso che il ruolo che alcune delle accennate resistenze, non oggettivamente motivate, hanno giocato nell’ostacolare soluzioni responsabili ed equilibrate.
1. Il vero punto d’innovazione legislativa introdotto dalla Riforma è riscontrabile, dunque, nella scelta di “valutare” la buona scuola. Il concetto di valutazione, nell’immaginario collettivo, è spesso ridotto alla sanzione. Si valuta per mettere in luce l’errore, che fa perdere di credibilità all’istituzione e ai suoi membri. Per questo motivo il mondo della scuola ha sempre rifiutato di affrontare qualunque percorso di valutazione. L’idea che il ruolo e la funzione docente fosse la sola a potersi esprimere in tale esercizio, e che i docenti come i dirigenti – in quanto espressione della élite culturale del Paese – non potessero essere sottoposti a verifiche di alcun tipo, è stata (era ed è) radicata e pluralisticamente motivata. Infatti, per sostenere queste ragioni si sono addotte motivazioni quali: il “valore” della funzione docente; il rischio di svilire un compito sociale di grande importanza e impossibile da “misurare”; l’importanza di far operare i docenti in serenità e così via. Sarebbe importante esaminare ognuna di queste motivazioni, approfondirne i pro e i contro, per comprenderne adeguatamente le ragioni, anche quelle implicite e tacite. Tuttavia, ciò che conta in questa sede è il fatto che la legge di riforma traccia degli obiettivi e fissa dei tempi per raggiungerli o per avvicinarvisi il più possibile. A tale positività della norma si contrappone, in Italia, un certo squilibrio del sistema sociale e una carenza nella “cultura della cooperazione”. Il mondo della scuola è molto variegato sia qualitativamente che quantitativamente, anche all’interno dell’unico Servizio Nazionale di Istruzione. Tutte le scuole, statali e paritarie. offrono un servizio pubblico, con uguali diritti e doveri. Ora, se è chiaro che occorre assumersi la responsabilità di rispettare “pari” doveri, a questi non sempre corrispondono “pari” diritti. Ecco la schizofrenia di fondo: se si ottempera alla norma, si deve anche avere diritto alla tutela dei diritti. Il tema è ampio e complesso; pertanto merita una maggiore, più puntuale attenzione da parte sia del legislatore, sia degli operatori in ambito scolastico, quali sono i gestori delle scuole pubbliche paritarie.
Non c’è Valutazione efficace senza Autonomia
2. Difatti il tema dell’Autonomia è cruciale nell’impianto della legge 107/2015; la sfida si concentra sullo sforzo che tutte le istituzioni devono fare per raggiungere la sostenibilità finanziaria. Secondo questo approccio, si registra un continuo richiamo alla autonomia didattica, pedagogica, di organico, funzionale, organizzativa etc., senza incrementi di spesa… Pur condividendo lo spirito e la lettera di questa “filosofia contabile”, merita osservare che nell’impianto complessivo resta del tutto inespresso e non chiarito il rapporto di “servizio pubblico” che si lega alla “equità” e all’“uguaglianza” di trattamento. Infatti, proprio perché questa norma parte da una “idea di buona scuola” tout court, nella sua articolazione rimane completamente assente ogni discorso funzionale all’esigenza di rimediare all’ingiustizia reiterata che obbliga la famiglia che scelga di iscrivere il proprio figlio ad una scuola paritaria a pagare due volte la tassa sulla scuola (una volta come imposta sul reddito, l’altra come retta).
In definitiva, da un canto il legislatore, approvando una legge sulla “Buona Scuola”, ha inteso affermare il principio che la scuola deve essere riportata al centro della società ed ha colto nel segno di una primaria esigenza sociale, dall’altro ne ha mancato l’obiettivo giuridico. E’ certamente importante e fondamentale riportare al centro il valore dell’educazione e della formazione, ma si può fare ciò nella misura in cui si garantisce equità a tutti, nella scelta che le famiglie desiderano compiere, nella formazione degli allievi, nella valutazione (down & up), nella distribuzione dei fondi, nel riconoscimento del valore culturale, etc.
Il premio Nobel per l’economia Amartya Sen afferma: “la giustizia, in ultima istanza, ha a che fare con la vita vissuta delle persone, non soltanto con la natura delle istituzioni che la circondano”. Per questo una “buona scuola” può esserci se, e soltanto, esprime una “comunità giusta”. Ed è qui che si inserisce a pieno titolo la domanda del cittadino e in particolare del gestore di scuole: “Come mai un diritto fondamentale come la libertà di scelta educativa continua ad essere di fatto negato, perché non garantito?”
Tale diritto che può essere esercitato solo ed esclusivamente in un pluralismo educativo come sancito dalla Costituzione all’art. 33 e all’art. 118, in base ai quali si evince che deve essere definito “pubblico” ciò che è fatto per l’interesse della collettività e che pertanto non implica necessariamente e solo la gestione statale. “Pubbliche” sono, infatti, ad esempio, le Scuole paritarie cattoliche.
Su questa annosa e vexata quaestio, alle ragioni del diritto si potrebbero affiancare le ragioni dell’economia, la cui evidenza potrebbe risultare persuasiva anche per coloro che non intendono le prime: le famiglie che scelgono la scuola pubblica paritaria pagano e le tasse che contribuiscono al funzionamento della scuola pubblica statale (del cui servizio però non usufruiscono) e le rette per contribuire (in minima parte) alla gestione della scuola dove hanno deciso di formare i loro figli, con un evidente vantaggio per le casse statali ai danni (e non a favore!) del cittadino “di serie B”. Si crea pertanto, ancora una volta, una situazione discriminante, che non può sussistere in una vera democrazia. Né, a maggior ragione, è accettabile dalla coscienza del cristiano.
Nell’ottica di un superamento di questa situazione, è condivisibile nel breve periodo la detrazione fiscale di 76 euro (co. 151), che per la prima volta garantisce un diritto tangibile in capo alla famiglia, ma che è cifra del tutto irrisoria a fronte di un risparmio di spesa che per lo stesso allievo nella scuola statale è di ben 8.000 euro annui, solo di spese correnti. L’auspicio è che questo intervento si perfezioni speditamente verso la definizione del costo standard di sostenibilità per allievo, fattore di efficienza e di sostenibilità nel buco nero della pubblica istruzione.
La legge 107/2015 fa presagire che è venuto il momento di uscire dal circolo vizioso che contrappone scuola statale e scuola paritaria. La Buona Scuola è quella dei buoni docenti che educano dei bravi studenti e offre alla famiglia la possibilità di scegliere in un sistema pluralista. Il pluralismo domanda scuole pubbliche statali e paritarie. Se così non fosse non potremmo dire di lavorare per una Buona Scuola, bensì saremo dentro una scuola Unica, negatrice della libertà e asservita al regime. “Se l’educazione familiare ritrova la fierezza del suo protagonismo, molte cose cambieranno in meglio, per i genitori incerti e per i figli delusi. E’ ora che i padri e le madri ritornino dal loro esilio – perché si sono autoesiliati dall’educazione dei figli -, e riassumano pienamente il loro ruolo educativo.” (Francesco, U.G. 20/5/2015)
Non si cessi mai domandare ai nostri governanti la garanzia dei diritti riconosciuti ad oggi solo sulla carta: non c’è responsabilità educativa senza la libertà di scelta educativa che necessità del pluralismo educativo. Fondazione Novae Terrae e da Oidel, ong che vantano uno status consultivo nei confronti dell’Unesco e del Consiglio d’Europa, dal 2013 elaborano (sulla base di un’approfondita indagine compiuta in 136 diversi paesi del mondo), l‘Indice mondiale della libertà educativa e l’Italia si colloca al 47^ posto nel mondo. In nessun caso, raccomanda l’Unesco, gli Stati dovrebbero avere un atteggiamento ostile o di sfiducia verso i propri partner nel cammino verso la libertà educativa: “La diversità culturale non solo esiste ma tende a espandersi: gli Stati devono trovare il modo di forgiare la propria unità nazionale sulla base di queste diversità”.
Ai cittadini e ai gestori delle Scuole Pubbliche (lo Stato, gil Enti locali, le Congregazioni, i privati) la responsabilità, che spetta loro, di favorire il cambiamento. “La responsabilità è il prezzo della grandezza” (Winston Churchill).
(Fonte: Suor Anna Monia Alfieri – Formiche.net – 02/03/2016)