di Marta Maurino
11/12/15
“Analisi dei problemi rapida e mirata,
accompagnata da un elevato grado di elasticità
nella ricerca di soluzioni praticabili”
Nonostante siano potenzialmente infinite le formule impiegabili per descrivere la natura dell’impegno richiesto agli Stati a fronte dell’adesione all’Unione Europea, le poche parole impiegate all’inizio di questa nota, sembrano fornire un’idea del tipo di sforzo che i Paesi devono affrontare per affinare meccanismi di problem finding, problem shaping e di problem solving, tali da garantire il raggiungimento degli obiettivi stabiliti a livello comunitario. Nella maggior parte dei casi, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità con cui perseguire gli obiettivi fissati dall’Unione e, in quest’ottica, al fine di garantire un miglioramento continuo del sistema, risulta strategica la comparazione dei meccanismi di problem shaping e di problem solving approntati all’interno dei vari ordinamenti, rispetto a determinate tematiche. Nel settore dello smaltimento dei rifiuti, ad esempio, il modello nordeuropeo di gestione accentrata, considera lo Stato come unico protagonista nell’organizzazione e nella gestione dell’intera filiera. Tale modello differisce fortemente dallo schema operativo scelto da altri Paesi, tra i quali l’Italia, che forti del passaggio dalla concezione di Stato-gestore a quella di Stato-regolatore, hanno preferito aprire questo specifico settore al Mercato, garantendo il rispetto dei principi di imparzialità, di efficienza e di economicità, attraverso procedure di appalto pubblico.
“Strumenti diversi per raggiungere obiettivi comuni”, sembra insomma essere la formula vincente che permette la concreta evoluzione dell’Unione. Proprio grazie ai meccanismi innescati dal processo di europeizzazione, capita sempre più spesso che strumenti impiegati in Paesi lontani dal nostro per tradizione e cultura giuridica, possano essere adattati e impiegati all’interno del nostro sistema.
Ma è bene tenere presente che un conto è mutuare da altri ordinamenti determinati modelli o strumenti, al fine di garantire il raggiungimento degli obiettivi comuni; ben altro è tentare il raggiungimento degli obiettivi comuni impiegando strumenti, previsti dal legislatore nazionale, in settori per i quali non ne era stato contemplato l’utilizzo, attraverso eventuali deroghe dei presupposti applicativi per gli stessi previsti. Conseguenza di quest’ultima ipotesi, è che si fanno necessari interventi che fungano da argine alla creazione di distorsioni nell’impiego degli strumenti stessi. Questo tipo di distorsione si rinviene anche nel settore della gestione e dello smaltimento dei rifiuti con riferimento, ad esempio, al tentativo di impiego dell’istituto dell’in house providing. Noto anche come “affidamento diretto”, questo istituto rende possibile la c.d. “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione, che acquisisce un bene o un servizio attingendolo dalla propria compagine organizzativa e non ricorrere a “terzi” tramite esternalizzazione e, dunque,
al mercato. In sostanza un ente locale e una persona giuridica, formalmente distinta da quest’ultimo, addivengono alla stipulazione di un contratto (derogando ai criteri generali stabiliti per le gare d’appalto) solo nel caso in cui siano rispettati i crismi sanciti dalla “sentenza Teckal” della GCUE risalente al 1999 (causa C-107/1998). La sentenza evidenzia quali sono i parametri essenziali per l’applicazione del modulo “in house”: che l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e che questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano. A ciò si aggiunga il requisito della partecipazione pubblica totalitaria della società attuatrice. Ecco, dunque, che gli stessi principi (di efficienza e di economicità) in nome dei quali lo Stato aveva sin dall’origine optato per un modello di gestione della filiera dei rifiuti fondato sull’apertura al Mercato, divengono la base su cui si giustifica il ricorso a modelli alternativi (come, appunto, l’in house providing), che permettono sostanzialmente alle Pubbliche Amministrazioni di gestire (e non solo di controllare) parti del servizio.
La realtà dei fatti dimostra che uno dei maggiori problemi relativi all’applicazione dell’istituto dell’in house in materia di gestione rifiuti, riguarda proprio le eventuali “distorsioni” che si verificano in caso di mancato rispetto dei presupposti previsti per l’applicazione dello stesso. In particolare,
tenendo anche conto delle disposizioni della Direttiva 24/2014/UE in materia di Appalti, ci si chiede cosa accade nell’ipotesi in cui la persona giuridica con cui la PA stipula il contratto in house, è partecipata anche da soggetti privati. A fornire soluzione all’interrogativo è il Consiglio di Stato con la recente sentenza 11 settembre 2015, n. 4253. Nel caso di specie il ricorrente lamentava che le nuove regole in materia di in house, contemplate dalla nuova Direttiva Appalti, prevedevano la possibilità di una partecipazione (pur se minoritaria) di privati alla società affidataria. Richiamato il testo della Direttiva 24/2014/UE, il Consiglio di Stato ha sottolineato che non prevedendo obblighi precisi e incondizionati a carico dello Stato e, di conseguenza, non creando, a favore dei cittadini, veri e propri diritti soggettivi tutelabili davanti al giudice nazionale, tale Direttiva non può considerarsi self-executing. Il Giudice Amministrativo facendo, quindi, leva sul requisito della totale partecipazione pubblica, ha ribadito che – in base alle condizioni vigenti, frutto dell’elaborazione della giurisprudenza europea – è illegittimo l’affidamento in house del servizio di gestione rifiuti, se il soggetto giuridico affidatario del servizio è anche partecipato da privati.
Grande è, comunque, la curiosità rispetto a quanto accadrà a partire dal 18 Aprile 2016 (data in cui spirerà il termine per il recepimento della Direttiva Appalti). Una delle più rilevanti novità che apporterà riguarda effettivamente la modifica dell’assetto del rapporto interorganico, contemplando un’eccezione alla regola generale dell’assenza nella persona giuridica controllata di partecipazioni dirette di capitali privati. La Direttiva, infatti, stabilisce che il divieto non vale per le forme di partecipazione di capitali privati che non comportino controllo o potere di veto, nel rispetto delle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati. Nonostante i dubbi legati a quanto potrà accadere a partire dall’entrata in vigore della disciplina in discorso, ciò che risulta chiaro fin da subito è l’impegno con cui, oltre a prevedere nuovi strumenti operativi, si tenta di rendere sempre più elastici gli istituti operanti nei vari ordinamenti, così da adattarli alle cangianti esigenze di un’Europa sempre più unita.