di Alessandro Mura
15/01/16
Dalla seconda metà degli anni Novanta l’attenzione interna e internazionale ai fenomeni corruttivi è cresciuta repentinamente sull’onda dell’intensificarsi dei rapporti tra operatori e, di conseguenza, delle “occasioni di corruzione”.
Negli anni sia l’Unione Europea che, soprattutto, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) si sono impegnate in un pressante incentivo alla produzione normativa statale indirizzato su varie direttrici: penalizzazione di condotte armonizzata tra i vari Paesi membri delle rispettive organizzazioni (secondo il principio di frammentarietà del diritto penale); disposizione di un accurato sistema repressivo di carattere amministrativo che colmasse i vuoti lasciati dalla selezione delle fattispecie di rilevanza criminale; disciplina preventiva per soggetti operanti in aree a rischio corruttivo in ordine alla predisposizione di modelli organizzativi (sul modello dei compliance programs di origine anglosassone), per ridurre al minimo la possibilità di condotte latu sensu illecite.
Il perché di questo interesse internazionale è facilmente comprensibile parafrasando le parole che il dott. Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, ha pronunciato nell’ambito di un Convegno organizzato da ASTRID per la presentazione di un paper sulla nuova disciplina dei contratti pubblici: la legalità non va intesa come un bene fine a sé stesso, ma come ineludibile garanzia di diritti e interessi dei cittadini che lo Stato, e soprattutto la P.A. che quotidianamente con la società si interfaccia, deve tutelare; il bene che più di ogni altro risulta leso dalle dinamiche corruttive è la parità di accesso a beni e servizi e quindi, nell’ottica economica comune a OCSE e UE, la libera concorrenza degli operatori sul mercato. La corruzione va ad intaccare quel fondamentale principio per cui, nelle dinamiche dei rapporti con la P.A., il soggetto che possiede i requisiti richiesti dal bando vince la gara e ottiene la concessione o l’appalto, sostituendovi un meccanismo di clientele e illeciti vantaggi che rende difficile la partecipazione di imprese “integre” alle gare e, di conseguenza, la fruizione di un vantaggio generale per la cittadinanza.
L’attenzione dell’OCSE si è in particolare concentrata sulla corruzione internazionale, oggetto della Convenzione del 1997 “sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni internazionali”: l’ambito applicativo dell’Accordo riguarda quella serie di fenomeni caratterizzati dalla dazione di denaro o altra utilità da parte di un’impresa ad un pubblico ufficiale straniero nell’ambito della conduzione di un international business perché questo agisca in violazione dei suoi doveri, e il corruttore guadagni un vantaggio improprio. È però importante sottolineare che molti Stati, nel dare attuazione alla disciplina prevista dalla Convenzione, abbiano esteso i parametri OCSE anche alle fattispecie di corruzione interna, recependo l’Accordo con norme a portata generale suscettibili di essere applicate ad entrambi i casi.
Senza soffermarci sull’adeguamento del nostro sistema penale alle direttrici di ambito criminale, è da segnalare l’importante ruolo di monitoraggio che l’Organizzazione svolge nei confronti dei Paesi membri sull’attuazione dei principi della Convenzione, realizzato da un Gruppo di Lavori istituito ad hoc che opera un’analisi del sistema statale in quattro fasi progressive secondo il meccanismo del peer-review monitoring system:
Prima Fase: sull’adeguatezza della legislazione statale agli standards della Convenzione;
Seconda Fase: sull’applicazione effettiva della legislazione di attuazione;
Terza Fase: sull’enforcement della Convenzione alla luce anche della Raccomandazione del 2009.
Quarta Fase: in sviluppo, inizio previsto nel 2016.
Il Comitato, per ciascuna di queste fasi, analizza il quadro legislativo statale in materia di corruzione, la sua realizzazione da parte dell’esecutivo, nonché il numero e la rilevanza dei casi di corruzione internazionale sottoposti all’Autorità Giudiziaria nazionale; trasmette, quindi, osservazioni sullo stato di adeguamento e raccomandazioni, classificate come “normali” o “urgenti”, sui provvedimenti da prendere nel futuro prossimo; al Report del Comitato lo Stato può rispondere con dei Follow-Up Reports che hanno lo scopo di aggiornare l’organismo su iniziative prese in attuazione delle raccomandazioni e su eventuali errori o omissioni nella procedura di valutazione. Tutta la documentazione è poi pubblicata sul sito dell’OCSE in ossequio al principio di trasparenza.
Gli ultimi dati disponibili riguardo il nostro Paese sono da riferire al Rapporto di risposta sulla Terza Fase che l’Italia ha inviato nel 2014 in seguito al Report del 2011, nel quale il Comitato evidenziava le principali falle nel sistema preventivo-repressivo italiano: l’uso distorto della fattispecie di concussione, facile via di fuga per il corruttore che si trasformava in sede processuale penale in un “indotto alla concussione”, con propria conseguente impunità; la scarsa entità delle sanzioni amministrative per gli enti, soprattutto in applicazione dell’istituto del “patteggiamento”; la mancanza di una formazione specializzata all’interno dei corpi di polizia, e specialmente nella Guardia di Finanza; l’assenza di un database in cui fossero catalogati i casi di corruzione internazionale giudicati dall’Autorità italiana; last but (abolutely!) not least, la tagliola della prescrizione, che dal 2001 al 2013 ha condotto al proscioglimento per estinzione del reato 72 casi di corruzione internazionale su 133 avviati (tanto che le uniche condanne, dodici, derivano dall’applicazione del patteggiamento).
Il fatto che l’Italia abbia immediatamente risposto a queste pressioni internazionali con una serie di iniziative, prima tra tutte la l. 190 del 2012, intese a rafforzare un quadro lacunoso e ad intervenire proprio sulle aree che il Comitato OCSE ha evidenziato, dà l’idea di come il sistema internazionale di controlli possa essere un efficace strumento per orientare la lotta alla corruzione, internazionale e non, su binari condivisi ed efficaci.
Ciò presuppone, chiaramente, la volontà da parte degli Stati nazionali di uniformarsi a direttive provenienti “dall’alto”, abbandonando un atteggiamento di gelosia e insofferente subordinazione per promuovere, invece, una cultura di valori comuni con la partecipazione alla formazione delle scelte sul piano internazionale.