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L’OBBLIGO DI BONIFICA NELLE SOCIETÀ: IL CASO DELLA FUSIONE E DEL FALLIMENTO

Piergiorgio Vaccarini

22/02/2021

In materia di inquinamento ambientale, secondo quanto disposto dal principio «chi inquina paga» il soggetto che infligge un danno all’ambiente ne è sempre responsabile ed è tenuto ad intraprendere tutte le azioni necessarie a riparare quanto cagionato, sostenendone chiaramente i rispettivi costi.

Fermo restando ciò, l’individuazione del responsabile di un danno ambientale non sempre rappresenta un punto di arrivo nella tutela del bene giuridico leso in quanto spesso, dopo l’attribuzione di un evento al suo autore, possono verificarsi una serie di vicende giuridiche in grado di mutare la soggettività del responsabile della contaminazione: il riferimento è alla morte per le persone fisiche, e ai casi delle operazioni straordinarie e del fallimento per le persone giuridiche. Si parla di fenomeni che, nel momento in cui si verificano, pongono l’interrogativo circa la sorte degli obblighi ambientali facenti capo al responsabile dell’inquinamento.

Per quanto riguarda il primo gruppo di soggetti, la giurisprudenza è abbastanza univoca nel ricomprendere l’obbligo di bonifica tra le posizioni soggettive passive del de cuius e, per questo, ne riconosce la piena trasmissibilità agli eredi.

La questione risulta invece più spinosa nel caso delle persone giuridiche visto che la loro «vita» può essere interessata da diversi fenomeni, chiaramente diversi dalla morte, che sono perfettamente in grado di mutarne il profilo soggettivo, compromettendo anche l’attribuzione dell’obbligo di bonifica.

L’argomento in questione è stato affrontato dal Consiglio di Stato in Adunanza plenaria, con due diverse pronunce: la sentenza n.10 del 10 Ottobre 2019 e la recentissima sentenza n. 3 del 26 Gennaio 2021.

Nella prima pronuncia il Giudice Amministrativo ha esaminato l’obbligo di bonifica nel contesto di una fusione per incorporazione di una società; nel caso di specie la controversia traeva origine da un giudizio di impugnazione promosso da parte di una società, contro un provvedimento con il quale la Provincia di Asti le ordinava, in qualità di successore delle società autrici dell’inquinamento, la bonifica di uno stabilimento industriale le cui falde acquifere risultavano, già da molto tempo, contaminate da cromo e cloruro. 

La ricorrente, tanto nel ricorso promosso in primo grado dinanzi al Tar Piemonte, quanto in appello dinanzi al Consiglio di Stato, sosteneva di non essere tenuta a procedere ad alcuna bonifica dal momento che non si riteneva in nessun modo responsabile di quanto addebitatole. Ciò almeno per due ragioni: in primo luogo la ricorrente affermava che  l’inquinamento, all’epoca in cui avvenne non rappresentava una condotta avente disvalore giuridico dal momento che l’obbligo di bonifica fu introdotto per la prima volta con il decreto legislativo n.22 del 1997; in secondo luogo evidenziava che la contaminazione del suolo sarebbe avvenuta nel periodo ricompreso tra il 1975, anno in cui lo stabilimento veniva gestito da una società poi estintasi nel 1991 per incorporazione, al  2007, anno in cui l’ appellante veniva a sua volta incorporata dalla società autrice della contaminazione del sito.

Il giudice di primo grado respinse entrambi i motivi del ricorso, ma contro questa pronuncia la società propose appello; dopodiché la Sez. IV del Consiglio di Stato rimise la causa all’Adunanza plenaria nell’intento di risolvere il conflitto giurisprudenziale presente sul punto. Il collegio investito della questione osservò, relativamente al primo motivo di ricorso, che anche prima dell’introduzione dell’obbligo di bonifica l’inquinamento ambientale era comunque considerato, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, come un illecito civile ai sensi dell’art. 2043 del Codice Civile. Riguardo il secondo motivo, invece, il giudice, esaminata la vicenda alla luce del regime giuridico vigente all’epoca dei fatti, ossia quello antecedente alla riforma del diritto societario avvenuta con d.lgs. n.6 del 2003, affermò la piena trasmissibilità dell’obbligo di bonifica nei casi di operazioni straordinarie, come appunto quelle di fusione ed incorporazione tra due o più società.

Il giudice sottolineò che l’obbligo in questione si trasferisce al momento della fusione visto che, l’art. 2504 bis cc, tanto nella sua formulazione antecedente la riforma quanto in quella successiva, dispone la piena trasferibilità, nei confronti di tutte le partecipanti alla fusione, di ogni obbligo facente prima capo alla società estinta. In aggiunta il collegio osserva come quanto disposto dalla norma appena citata si applichi anche nel caso in cui l’accertamento dell’illecito ambientale sia successivo all’operazione straordinaria di fusione.

Il Consiglio di Stato sul punto decide la controversia ed enuncia il seguente principio di diritto: «la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento».

A questo punto, esaminato quanto disposto dal giudice in relazione alla trasmissibilità dell’obbligo di bonifica nel caso di operazioni straordinarie, occorre analizzare quanto stabilito dallo stesso collegio nel caso di fallimento di una società.

Il secondo giudizio analizzato in questa nota, infatti, ha origine dall’impugnazione proposta da parte della curatrice di un fallimento avverso un’ordinanza con la quale il Comune di V. le intimava di presentare un programma di smaltimento e di procedere alla rimozione dei rifiuti presenti nel bene immobile appreso al fallimento.

Il giudice di prima istanza, con sentenza n. 744/2019, accoglieva il ricorso proposto e procedeva all’annullamento dell’ordinanza impugnata. Tuttavia, avverso questa pronuncia, il Comune proponeva appello lamentandone l’erroneità e continuando a sostenere l’assoggettabilità del Curatore fallimentare agli obblighi di bonifica. 

Sul punto la sez. IV del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5454/2020, rimette nuovamente la questione all’Adunanza plenaria al fine di risolvere il dubbio interpretativo in relazione alla sussistenza di un obbligo di bonifica in capo alla curatela fallimentare. 

Nel caso di specie il collegio giudicante chiarisce, sin dal principio, che il fallimento non rappresenta per le società un’ipotesi di fenomeno successorio in quanto, nel momento in cui viene dichiarato, l’ente economico in questione «conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio» per quanto comunque la facoltà di gestione e disposizione dello stesso, venga trasferita al curatore. 

In virtù di ciò, osserva il giudice, l’organo del fallimento non si sostituisce mai alla società fallita nella responsabilità per la contaminazione di un sito e non acquisisce mai la qualifica di detentore dei rifiuti dal momento che la sua detenzione risulta sempre e comunque limitata al solo bene immobile nel quale questi insistono. 

Posto ciò, il curatore può sempre essere destinatario di misure amministrative che ordinano la bonifica del sito inquinato o, come in questo caso, la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti. Sul punto il giudice osserva che la disponibilità materiale del bene inquinato, unita ad un titolo giuridico che autorizza l’amministrazione del patrimonio nel quale l’immobile è ricompreso, sono sufficienti a rendere il curatore un legittimato passivo degli obblighi ambientali in questione.

Secondo il giudice, infatti, la posizione dell’organo del fallimento non è affatto paragonabile a quella del proprietario incolpevole dei rifiuti o comunque di un soggetto terzo ed estraneo al fenomeno di contaminazione e, pertanto, questo non può mai invocare a sua tutela la «esimente interna» prevista dall’art. 192 comma 3 del d.lgs. 152/2006. Il curatore quindi non può mai esonerarsi dall’obbligo di rimuovere i rifiuti ed all’avvio di questi a trattamenti appositi di smaltimento e/o recupero.

A dire il vero, il curatore non potrebbe nemmeno avvalersi della facoltà, che l’art. 42 comma 3 della Legge fallimentare gli riconosce, di «rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi». Secondo il collegio infatti, la facoltà in questione non troverebbe applicazione nel caso di specie dal momento che questa, attenendo maggiormente al puro profilo delle scelte che il curatore è legittimato a compiere nella gestione della procedura fallimentare, non può incidere in alcun modo sui profili amministrativi inerenti all’obbligo di bonifica. In aggiunta a tutto ciò, il giudice evidenzia come il comma 3 riguardi soltanto quei beni entrati nel patrimonio del debitore dopo la dichiarazione di fallimento e non anche quelli che al tempo già facevano parte di questo.

Il collegio, per avvalorare ulteriormente la propria posizione in merito, fa riferimento anche al fattore legato alla distribuzione dei costi di smaltimento. Sul punto osserva che l’abbandono dei rifiuti, in quanto fenomeno di inquinamento, va considerato come un’esternalità negativa di produzione, e in quanto tale i suoi costi, che normalmente gravano sull’imprenditore, nel caso di fallimento gravano sulla massa dei creditori; osserva inoltre che, se così non fosse, non sarebbe rispettata la ratio del principio europeo del «chi inquina paga».

In conclusione, quindi, alla luce di quanto osservato in entrambe le pronunce, si può evidenziare come il Consiglio di Stato si dimostri particolarmente interessato alla tutela del bene ambiente e come, nel perseguire il suo intento, riveli una straordinaria agilità nell’individuazione puntuale dei soggetti sui quali grava l’obbligo di bonifica. Un atteggiamento che probabilmente mira ad impedire che le situazioni di incertezza si traducano in occasioni di impunità degli autori di un determinato danno ambientale.

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