ROBERTO MACCHIA
19 ottobre 2020
I poteri di vigilanza della Consob si estendono alla vendita online di cripto-valute, pena la configurabilità del reato di abusivismo finanziario ex art 166, comma 1, lett. c) Tuf.
È quanto affermato dalla Corte di cassazione penale, Sez. II, sentenza 25 settembre 2020, n. 26807 che ha respinto il riscorso intrapreso nei confronti dell’ordinanza attraverso cui il Tribunale di Milano aveva disposto il sequestro preventivo di 206.442,32 euro ed altri beni a carico di un soggetto indagato – tra altri reati addebitatigli – per aver violato l’art. 166, comma 1, lett. c) del d. lgs. 58/1998, che sanziona chi, senza esserne abilitato, “offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento”.
In particolare, per quanto qui interessa, il ricorrente lamentava il fatto che il Tribunale, nel disporre l’ordinanza di sequestro, non avesse tenuto conto del fatto che ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d. lgs. 58/1990 “gli ‘strumenti di pagamento’ non sono strumenti finanziari”: norma peraltro conforme all’orientamento della Corte di Giustizia dell’UE secondo cui le cripto-valute non hanno “altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento”. Se così interpretata la norma avrebbe certamente escluso il potere di vigilanza della Consob su operatori che offrano valute virtuali al mercato in forma di attività di investimento.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso che il ricorrente aveva addotto sostenendo che le valute virtuali, non rientrando nella definizione di strumenti finanziari fornita dal Tuf, sono esenti dal rispetto della relativa disciplina. Tuttavia, i giudici di legittimità hanno riconosciuto che la doglianza avanzata dal ricorrente dovesse essere bilanciata con quanto indicato nell’ordinanza impugnata, dove si sottolineava che “la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento”, della quale sul sito si fornivano informazioni volte ad attirare i risparmiatori e a metterli nelle condizioni di valutare se aderire o meno all’iniziativa, riportando dati di ingenti guadagni ottenuti da coloro che avevano investito in bitcoin. Tanto premesso dunque, secondo la Corte, la condotta posta in essere dal ricorrente configurava un’attività soggetta agli adempimenti ex artt. 91 ss. Tuf, la cui omissione integra la configurabilità del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) Tuf.
La pronuncia della Suprema Corte assume dunque rilevanza per aver fornito – in assenza di una disciplina specifica dettagliata – indicazioni in merito alla qualificazione dei portali di cambiavalute ai fini del loro inserimento nel novero dei soggetti vigilati dalla Consob, e alla possibile commissione di illeciti per chi opera su tali portali. La Cassazione ha infatti inteso estendere la disciplina dettata per le operazioni di investimento che interessano gli strumenti finanziari anche alle operazioni di criptovalute.
L’interpretazione fornita dai giudici di legittimità deve essere però analizzata alla luce del caso concreto, stante l’eventuale erroneità della ricostruzione giuridica in astratto (ai sensi dell’art. 1 comma 2 Tuf).
Il ricorrente aveva giustamente sottolineato, infatti, come “l’attività di cambiavalute virtuale era stata definita dal d. lgs. 90 del 2017, delineando per i cambiavalute uno stato proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerate prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento;” la definizione fornita dal legislatore rispondeva perfettamente all’orientamento comunitario espresso dalla Corte di Giustizia dell’UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin in valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che “i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento”; di fronte a questi dati risultava dunque eccessivo quanto affermato dal Tribunale – secondo cui i bitcoin costituiscono strumenti finanziari – pur essendo lo stesso consapevole dell’incongruità della ricostruzione giuridica offerta con l’ordinamento comunitario.
In questa prospettiva sarebbe risultato errato il richiamo operato all’art. 166, comma 1, lett. c) Tuf, perché avrebbe appunto comportato l’estensione della disciplina dell’abusivismo finanziario a ad un’attività regolata diversamente.
Secondo la Corte, dunque, assume rilevanza pratica la distinzione tra un portale di scambio di criptovalute e un portale classico di trading che offre, tra le altre operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari, la compravendita di valute virtuali (quali i bitcoin nel caso di specie) finalizzata alla realizzazione di operazioni di investimento.
Nel caso concreto i giudici di legittimità hanno inoltre evidenziato come “la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che ‘chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%’; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 ss. Tuf, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) Tuf”.
La Corte di cassazione ha dunque colto l’occasione per estendere i poteri di vigilanza della Consob alle operazioni di scambio di criptovalute, quando finalizzate a raccogliere il capitale dagli investitori, nell’ottica di rafforzare la tutela degli investitori medesimi nonché di garantire l’efficienza e la trasparenza del mercato (ex. art. 91 Tuf): purché sussistano a carico degli operatori obblighi informativi nei confronti della Commissione deve dunque aversi riguardo non al requisito formale legato alla natura di cambiavalute virtuale (che porterebbe ad escludere il controllo dell’autorità ai sensi della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE), ma al requisito sostanziale dell’esercizio di attività finanziaria.
Nel caso di specie, infatti, il portale di trading non si è posto quale intermediario di valute virtuali, ma ha assunto un ruolo attivo nell’informare e proporre investimenti – particolarmente rischiosi – associati alle criptovalute; attività quest’ultima che, ai sensi della sentenza in commento, presuppone un preventivo controllo da parte della Consob, chiamata a vigilare affinché siano rispettati tutti gli obblighi informativi capaci di porre gli interessati nelle condizioni di comprendere pienamente i rischi dell’operazione finanziaria.
Questa pronuncia si colloca inoltre subito dopo l’intervento attraverso cui la Commissione europea ha varato un “pacchetto per la finanza digitale”, che tra i suoi obiettivi si propone di realizzare una regolamentazione a livello europeo delle cripto-attività, che si basa sulla consapevolezza che “un mercato unico digitale innovativo per i finanziamenti creerà benefici per i cittadini europei e sarà fondamentale per la ripresa economica dell’Europa, offrendo prodotti finanziari migliori per i consumatori e aprendo nuovi canali di finanziamento per le imprese”.Presumibilmente saranno dunque i giudici a colmare le lacune normative e a garantire un’adeguata tutela degli investitori che si avvicineranno a forme d’investimento particolarmente rischiose (quale quelle in cripto-valute) estendendo i poteri dell’autorità di vigilanza dei mercati finanziari; in attesa di un regolamento europeo che si proponga di disciplinare organicamente i poteri delle autorità di vigilanza degli Stati membri e i rapporti tra le stesse anche in questo settore del mondo finanziario.