EMMA MUSCO
13/12/2018
Il fenomeno dell’abusivismo edilizio è molto complesso poiché si intreccia con molti aspetti: risparmio economico, introiti mafiosi ed appalti poco trasparenti, corruzioni ed interessi della politica e dell’amministrazione pubblica.
Ad ostacolare il ripristino della legalità concorrono varie cause. Tra queste, l’inerzia, la scarsa vigilanza e le mancate o tardive demolizioni consentono alle strutture abusive di sopravvivere per decenni alla legge e, spesso, alle sentenze. Inerzia e scarna vigilanza derivano dalla mancanza di organici e personale specializzato per effettuare i controlli e notificare le ordinanze comunali, e dall’assenza di un censimento nazionale di tutte le costruzioni abusive.
A frenare l’abbattimento delle costruzioni illegali concorre anche una giustizia lenta: le ordinanze di demolizione emesse dai Comuni, nella maggior parte dei casi, vengono impugnate dai proprietari dell’immobile di fronte al Tar chiedendo contestualmente tutela cautelare e quindi una “sospensiva” dell’efficacia dell’ordinanza. Se il Tar non ritiene sussistenti i presupposti per tale tutela, il Comune ha il potere-dovere di procedere con la demolizione, ma non prosegue perché è rischioso in pendenza di un ricorso: la decisione definitiva o un’eventuale impugnazione di fronte al Consiglio di Stato potrebbero ribaltare la situazione e il Comune si ritroverebbe, a demolizione compiuta, a ripagare i danni. Tutto questo allunga, di anni, i tempi per contrastare l’illegalità.
Altra causa è legata all’assenza di fondi per le demolizioni, e anche nel caso in cui vi è la disponibilità, questi spesso non sono utilizzati. Questo è ciò che accade con il Fondo per la demolizione delle opere abusive, creato dalla Cassa Depositi e Prestiti. I Comuni – unici soggetti abilitati a chiedere finanziamenti – non lo fanno per le lungaggini burocratiche, per non indebitarsi ulteriormente e perché temono un ritorno elettorale negativo.
Un ulteriore dato significativo su questa materia è quello che riguarda le trascrizioni immobiliari. In caso di mancata ottemperanza dell’ordine di demolizione nei termini indicati dalla legge (90 giorni) da parte dell’abusivo, questo ne perde automaticamente la proprietà che viene acquisita al patrimonio immobiliare pubblico, compresa l’area di sedimentazione. Il Comune ne deve poi trascrivere l’avvenuta acquisizione nei registri immobiliari (art. 31, comma 3, DPR 380/2001) e demolire in danno dell’ex proprietario, ossia anticipando le spese che poi dovrà farsi risarcire, o – eccezionalmente – lo destina a usi di comprovata pubblica utilità. La mancata ufficializzazione dell’acquisizione, oltre a essere una grave omissione di atti d’ufficio, comporta anche una responsabilità per danno erariale – su cui vigila la Corte dei Conti – dovuto alla mancata riscossione del canone di occupazione e dei tributi relativi all’immobile abusivo.Molto spesso, infatti, accade che le case restino nella disponibilità degli abusivi che ne godono senza alcun titolo e senza oneri.
Uno degli aspetti di maggior rilevanza nell’analisi del fenomeno abusivistico, è la rischiosità della violazione di norme e disposizioni legate alla sicurezza. Fra queste, diverse norme vietano la costruzione su suoli che non consentono un accettabile grado di sicurezza statica dell’eventuale edificato. È il caso ad esempio di aree soprastanti falde acquifere superficiali, zone franose o a rischio di smottamento, zone a elevato rischio sismico. L’abusivismo che insiste su suoli non idonei alla fabbricazione non consiste pertanto solo in una “scorciatoia procedurale” verso la realizzazione di un immobile, ma comporta anche la creazione di una fonte di grave pericolo.Pericolo che non viene sventato da quelle scelte di governo e di gestione del territorio che hanno portato a sanare abitazioni illegali e interventi su edifici esistenti. Ne è esempio, da ultimo, il “Decreto Genova” approvato lo scorso mese e contenente disposizioni volte a condonare – sulla scia dei tre condoni precedenti – numerose situazioni nelle zone terremotate di Ischia e Centro Italia.
L’ulteriore evidenza di questo rapporto causa- effetto tra abusivismo e calamità ci viene restituito anche dagli ultimi episodi alluvionali che si sono abbattuti su tutto il territorio nazionale gli scorsi mesi provocando ingenti danni e costi anche in termini di vite umane: il più emblematico, il caso di Casteldaccia. Sulla villetta siciliana, in cui hanno perso la vita nove persone a seguito dell’esondazione di un fiume sito a distanza poco sicura dall’abitazione, costruita in zona vietata poiché ad alto rischio idrogeologico, gravava un’ordinanza di demolizione disposta dal Comune nel 2008 e mai eseguita. Contro il provvedimento i proprietari dell’immobile avevano proposto ricorso al Tar senza chiedere fra l’altro, alcuna tutela cautelare. Conseguentemente i giudici amministrativi non hanno emesso alcun provvedimento sospensivo e pertanto il Comune aveva il potere-dovere di portare ad esecuzione l’ordinanza di demolizione (tanto più che la stessa era motivata anche con profili relativi al rischio idrogeologico e fluviale). Il ricorso in questione, peraltro, è stato dichiarato automaticamente “perento” con decreto presidenziale n. 1602/2011, a causa della omessa presentazione dell’istanza di fissazione di udienza da parte degli interessati. Di ciò è stata data notizia, al difensore dei ricorrenti nel novembre del 2011. Detta “perenzione” non è stata comunicata anche al Comune, in quanto parte non costituita in giudizio.
Attorno a quella villetta sorgono fra l’altro decine di abitazioni e manufatti tutte abusive. A ciò si aggiunga che pochi mesi prima della tragedia, la procura regionale della Corte dei Conti aveva citato in giudizio proprio i sindaci contestando un ingente danno erariale dovuto al mancato rispetto delle norme sul contrasto all’abusivismo. Secondo la magistratura, i primi cittadini avrebbero dovuto pretendere una indennità di utilizzo per numerosi immobili occupati abusivamente.
Questa tragedia, insieme a tutte le altre che, ormai con ordinaria frequenza si verificano sul territorio, è emblema di un male cronico e di quelle cause, ragioni, problemi che ruotano attorno al fenomeno dell’abusivismo.
Non mancano però, proposte di miglioramento per rendere efficaci e certe le demolizioni, con il duplice obiettivo del ripristino della legalità violata e dello stimolo alle demolizioni in proprio. Sul tema, sono state avanzate alcune proposte di legge, tra cui quella di Legambiente. Accanto all’attività culturale di informazione e sensibilizzazione, sarebbe opportuno agire dal punto di vista normativo, introducendo delle modifiche specifiche a quanto previsto dal Titolo V del Dpr 380/2001 (Testo Unico in materia di Edilizia che governa tutta la materia) per rendere anzitutto più rapido ed efficace l’istituto delle demolizioni. Ciò che manca non sono le regole in materia di contrasto al fenomeno abusivo, ma una cabina di regia unica e centrale. In tal senso, sarebbe necessario avocare la responsabilità delle procedure di demolizione agli organi dello Stato, nella figura dei prefetti, esonerando da tale onere i responsabili degli uffici tecnici comunali e, in subordine, soggetti che ricoprono cariche elettive, ovvero i sindaci. Sul fenomeno dell’illegalità edilizia in Italia pesa infatti questa particolare “anomalia” del sistema giuridico: il fatto, cioè, che l’applicazione di sentenze che decretino la demolizione di edifici abusivi, o parti di essi, sia l’unico processo esecutivo non affidato al giudice dell’esecuzione ma sia invece di competenza del sindaco del comune spesso legato da rapporti di conoscenza con i destinatari dell’esecuzione. Questo produce effetti sfavorevoli sull’effettiva esecuzione delle sentenze e sull’effetto deterrente della sanzione giuridica: è noto, infatti, come prima illustrato, che la demolizione di edificazioni abusive avviene soltanto per una trascurabile percentuale del totale di quelle disposte.
Secondo tale proposta dunque, le Procure della Repubblica così “salterebbero” il passaggio con i Comuni mandando direttamente all’Ufficio del Prefetto l’elenco degli immobili da demolire. Se il reo dell’illecito non demolisce entro 90 giorni, come previsto dalla legge, l’onere dell’abbattimento passa direttamente al Prefetto, che dispone delle competenze dell’ufficio tecnico del comune per la redazione del progetto di demolizione. Lo Stato anticipa le spese prevedendo uno specifico capitolo di bilancio, un fondo che deve essere rimpinguato dalla riscossione delle spese in danno dell’abusivo a opera dell’Agenzia delle entrate. Questa procedura porta con sé alcuni vantaggi accessori: per esempio, il Comune non potrà giustificare le mancate demolizioni a causa dell’esiguità dei fondi. Deve prevalere la gara d’appalto per l’intervento di abbattimento, anche per sostenere e rilanciare l’attività del settore edile, che viene indetta dalla Prefettura.
Sarebbe, forse, più interessante, sebbene di difficile realizzazione, costituire un’Agenzia centrale ad hoc indipendente a cui demandare competenza, poteri e strumenti per le procedure di demolizione.
Contestualmente, è necessario intervenire sugli altri aspetti critici prima esaminati. Controllo della Corte dei Conti sul danno erariale dovuto alle mancate entrate nelle casse comunali del corrispettivo economico dovuto per l’occupazione da parte degli abusivi di immobili divenuti di proprietà comunale per mancata demolizione. Per evitare che la mancata trascrizione diventi un metodo per tutelarsi dalla responsabilità contabile, il calcolo della mancata riscossione e quindi del danno erariale dovrebbe scattare dall’ordinanza di demolizione inevasa e non dalla trascrizione nei registri immobiliari.
Sull’emersione degli immobili non accatastati sarebbe opportuna una migliore coordinazione con l’Agenzia delle entrate che trasmettendo le informazioni relative – acquisite tramite immagini aeree (d.l. 78/2010) – a Ministeri, Comuni e Prefetti, potrebbe agevolare le attività di verifica della regolarità, non solo fiscale, ma anche edilizia.
Infine, si segnala sul tema la recentissima sentenza n.55028/2018 con cui la Cassazione ha ribadito che la presentazione della domanda di sanatoria in riferimento ad abusi edilizi commessi, se è seguita solo dal silenzio-assenso dell’amministrazione locale, non determina il fatto che il giudice dell’esecuzione sia obbligato a emanare la revoca o la sospensione dell’ordine di demolizione già impartito dal giudice di merito con sentenza definitiva. Quindi la sola presentazione della domanda di sanatoria non è sufficiente per bloccare la demolizione. La Corte sottolinea che, per limitare il sindacato del giudice, occorre che venga rilasciata la concessione o il permesso di costruire “in sanatoria”. In tal caso, il reato edilizio si estingue e il giudice può limitarsi solo alla verifica della conformità delle opere oggetto della sanatoria al titolo abilitativo. In caso contrario, il giudice dell’esecuzione è tenuto a prendere in esame la domanda di sanatoria che è stata presentata con lo scopo di regolarizzare e conservare le opere abusive, sia sotto l’aspetto formale che sostanziale, ed è quindi chiamato a pronunciarsi anche sull’ordine di demolizione emanato dal tribunale con sentenza definitiva, in quanto spetta al giudice medesimo decidere se i manufatti abusivi in oggetto vanno mantenuti o demoliti.