Lab-IP

LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 7/2023

30/10/2023

INDICE:

1. LE PROCEDURE DI NOMINA DEI DIRETTORI DELLE BANCHE CENTRALI: UN’ANALISI COMPARATA a cura di Antonio Venditti

2. L’ACCESSO CIVICO E LE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE: IL CASO RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. a cura di Elena Valenti

3. CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME E CANONE CONCESSORIO: IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE a cura di Andrea Nardone

4. I LIVELLI DELLA PROGETTAZIONE NELLA FINANZA DI PROGETTO: PRIME OSSERVAZIONI SULLA NUOVA DISCIPLINA CODICISTICA A PARTIRE DA UN RECENTE ORIENTAMENTO DELL’ANAC a cura di Antonio Iuliano

5. IL SILENZIO-ASSENSO ORIZZONTALE SI APPLICA ANCHE AL PARERE RESO DALLA SOPRINTENDENZA a cura di Giulia Moscaroli

6. NOVITÀ SULL’ATTUAZIONE DEL PNRR: I GRANDI APPALTI DI INFRASTRUTTURE IDRICHE PRIMARIE a cura di Carlo Fenucciu

7. INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI: LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SULL’AMBITO DI APPLICAZIONE a cura di Gian Marco Ferrarini

8. PRINCIPI PER UNA CORRETTA COMPOSIZIONE DEGLI ORGANI SOCIALI NELLE SOCIETA’ QUOTATE A PARTECIPAZIONE PUBBLICA a cura di Marta Nigrelli

9. L’APERTURA DI UN PROCEDIMENTO ANTI-SOVVENZIONE RELATIVO AI VEICOLI ELETTRICI A BATTERIA a cura di Riccardo Zinnai

10. DICHIARAZIONI NON VERITIERE: PRIME APPLICAZIONI DEI PRINCIPI DEL RISULTATO E DELLA FIDUCIA NEL RINNOVATO CODICE DEGLI APPALTI a cura di Cristiana Traetta

1. LE PROCEDURE DI NOMINA DEI DIRETTORI DELLE BANCHE CENTRALI: UN’ANALISI COMPARATA a cura di Antonio Venditti

Il 10 Luglio 2023, il Presidente della Repubblica italiana ha ufficializzato la nomina del nuovo Governatore della Banca d’Italia, con decorrenza dal prossimo 1° Novembre. L’iter che ha portato alla nomina del neo-Governatore ha avuto ufficialmente inizio lo scorso 23 Giugno, quando la designazione ha ottenuto il parere favorevole dal Consiglio superiore della Banca d’Italia, l’organo cui spetta l’amministrazione generale dell’Istituto. Basandosi su tale parere unanime, il Consiglio dei Ministri ha quindi deliberato la nomina in occasione della riunione del 27 Giungo. La procedura seguita ha rispettato rigorosamente le disposizioni di legge vigenti nell’ordinamento italiano: tale iter è di fatto regolamentato dalla Legge 28 Dicembre 2005, n. 262, che comprende disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, e riaffermato dall’Articolo 18 dello Statuto della Banca. L’Articolo 19, comma 8, della Legge 262/2005 stabilisce che la nomina del Governatore è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca.

Analogamente a quanto avviene in Italia, diversi ordinamenti nazionali cercano di strutturare il processo di nomina dei governatori delle banche centrali, al fine di sostenere l’indipendenza di tali Istituti. Le procedure di nomina sono attentamente progettate in modo da garantire che i membri delle banche centrali siano in grado di agire con indipendenza e professionalità, nell’interesse della stabilità economica del paese.

L’autonomia delle banche centrali è emersa, a partire dagli anni Ottanta, come soluzione ottimale per evitare le conseguenze negative delle pressioni politiche, influenzate da interessi a breve termine, sulla politica monetaria. La separazione di poteri fra governi e autorità monetarie, corollario essenziale dell’indipendenza delle banche centrali, viene quindi riconosciuta pressoché ad ogni latitudine. L’Articolo 1 dello Statuto della Banca d’Italia sancisce che l’istituto opera nell’esercizio delle proprie funzioni e nella gestione delle proprie finanze con autonomia e indipendenza nel rispetto del principio di trasparenza, non potendo né la Banca, né i componenti dei suoi organi, sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici e privati. Allo stesso modo, l’Articolo 12 della legge federale tedesca sulla banca centrale, Bundesbankgesetz (BBankG),stabilisce che la Bundesbank, ampiamente riconosciuta per la solida tradizione di autonomia istituzionale, goda di indipendenza nelle sue azioni e non sia soggetta ad istruzioni provenienti dal Governo federale. Diversamente dall’ordinamento tedesco, in cui la Legge Fondamentale nulla dice in relazione allo status d’indipendenza della Bundesbank, e dall’ordinamento italiano, in cui nella Carta Costituzionale non compare addirittura alcun riferimento all’istituto della Banca d’Italia, nel sistema europeo l’indipendenza della BCE è costituzionalizzata. Istituita il 1° Giugno 1998, la BCE è quella di più recente costituzione tra le grandi banche centrali. La BCE ha una struttura federale, i cui organi decisionali sono il Consiglio direttivo, composto dai governatori delle banche centrali nazionali e dai membri del Comitato, ed il Comitato esecutivo, composto da sei membri, inclusi il Presidente ed il Vice Presidente. In particolare, l’Articolo 130 TFUE afferma chiaramente che né la Banca Centrale Europea, né una banca centrale nazionale, né alcun membro dei loro organi decisionali devono chiedere o accettare istruzioni da istituzioni, organi, uffici o agenzie dell’Unione, da qualsiasi governo di uno Stato membro o da qualsiasi altro organismo. Come in Europa continentale, la separazione di poteri fra governi e autorità monetarie si verifica anche nel mondo anglosassone. Fondata nel 1694, la Bank of England è, dopo la Riksbank svedese, la banca centrale di più risalente costituzione. Nonostante la sua longeva storia, l’ordinamento inglese non riconosceva originariamente alla Bank of England un elevato grado di indipendenza. L’autonomia dell’Istituto risale infatti solo all’adozione del Bank of England Act del 1998, che ha (in parte) eliminato il potere del Tesoro di influenzare la politica monetaria. Anche la Federal Reserve si distingue per un notevole livello di autonomia: al fine di consentire una gestione libera della politica monetaria, infatti, l’ordinamento degli Stati Uniti ne riconosce l’indipendenza dagli interessi a breve termine del potere esecutivo.

L’autonomia delle banche centrali può essere limitata o aumentata in base alle norme sulla nomina del personale: tali norme riflettono i limiti dell’influenza del governo sulla composizione e la durata del mandato dei membri delle banche centrali, garantendo al contempo che le investiture siano basate su competenza e merito.

In tutti gli ordinamenti considerati le regole sulla nomina degli alti funzionari delle banche centrali vedono il coinvolgimento determinate del potere esecutivo. In Germania, gli organi direttivi della Bundesbank sono il Consiglio, composto dai Presidenti delle banche centrali dei Lander e dai membri della Direzione. Quest’ultima, a sua volta, è composta da otto membri. Analogamente alla disciplina italiana, l’Articolo 7 (3) BBankG prevede che i membri della Direzione della Bundesbank, tra cui il Presidente ed il Vice Presidente, siano designati dal Governo federale e nominati ufficialmente dal Presidente della Repubblica federale. Inoltre, la norma specifica che prima della designazione da parte del Governo, quest’ultimo debba consultare il Consiglio della Bundesbank. Anche in Inghilterra la nomina degli alti funzionari della Bank of England prevede la partecipazione decisiva del potere esecutivo, il quale tuttavia si concretizza nelle mani del Cancelliere dello Scacchiere, a capo del Tesoro. Di fatto, il Governatoreè nominato ufficialmente dal Sovrano su raccomandazione del Cancelliere. Sebbene oggi la Bank of England sia un Istituto autonomo, il ruolo significativo che il Tesoro continua a svolgere nelle procedura di nomina dei suoi membri può considerarsi una limitazioni alla sua indipendenza. Il Consiglio di amministrazione della Bank of England è composto dal Governatore, dai Vice Governatori, da quattro membri esecutivi e da nove membri non esecutivi. Il Comitato di politica monetaria, invece, è composto dal Governatore, dai Vice Governatori e da sei membri, quattro dei quali nominati dal Cancelliere dello Scacchiere e due dal Governatore. Negli Stati Uniti d’America, il potere esecutivo si concentra tutto nelle mani del Presidente, che assume dunque un ruolo centrale nella nomina dei membri del Consiglio dei Governatori del FED. Istituito nel 1913, il Federal Reserve System ha una struttura federale basata su dodici banche statali. Nella raccolta delle leggi federali degli Stati Uniti U.S.C. è compreso il Titolo 12, che regolamenta il ruolo delle banche ed il sistema bancario. Nello specifico, al capitolo 3 è contenuta la disciplina sul FED. Composto da sette membri, compreso il Presidente dell’Istituto, l’organo deliberativo della Federal Reserve è il Consiglio dei Governatori. Ai sensi del 12 U.S.C. § 241, il Presidente degli Stati Uniti nomina i sette membri del Consiglio dei Governatori. Inoltre, conformemente al Banking Act del 1935, il Presidente degli Stati Uniti designa, tra i membri del Consiglio dei Governatori, il Presidente del FED.

Le procedure di nomina dei membri delle banche centrali richiedono spesso il coinvolgimento di più rami del governo. L’idea di fondo è che il potere esecutivo, oltre a seguire procedure specifiche, sia tenuto a consultare altre istituzioni prima di procedere alle nomine, contribuendo così a ridurre ulteriormente le interferenze politiche dirette. Di conseguenza, la procedura per la nomina del Presidente della BCE, dettagliatamente enunciata dall’Articolo 283 TFUE, prevede che il Presidente, il Vice Presidente e gli altri membri del Comitato esecutivo sono nominati dal Consiglio europeo che delibera a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE. Analogamente al sistema europeo, negli Stati Uniti, ai sensi del 12 U.S.C. § 241, il Presidente nomina i sette membri del Consiglio dei Governatori, sotto e con il consiglio ed il consenso del Senato. Inoltre, conformemente al Banking Act del 1935, il Presidente degli Stati Uniti designa, tra i membri del Consiglio dei Governatori, il Presidente del FED, sempre sotto e con il consiglio ed il consenso del Senato. In particolare, la Senate Committee on Banking è la commissione responsabile alla verifica sulle nomine dei Presidenti dell’Istituto. Tranne che per i primi anni di funzionamento del FED, il potere di conferma del Senato non è mai stato attivato.

Solitamente, le norme sul processo di nomina dei direttori delle banche centrali forniscono mandati lunghi al fine di proteggere i nominati dalle interferenze e dai cambiamenti politici a breve termine. In Italia, in conformità al comma 7 dell’Articolo 19, Legge 262/2005, il Governatore dura in carica sei anni, con la possibilità di un solo rinnovo del mandato. Diversamente, nell’ordinamento tedesco il Presidente della Bundesbank ha un mandato di otto anni non rinnovabile. Allo stesso modo, in Europa, l’Articolo 283 TFUE prevedere il termine dell’ufficio di otto anni non rinnovabile del Presidente della BCE, affermando inoltre che solo i cittadini degli Stati membri possano essere parte del Comitato esecutivo. Nell’ordinamento statunitense, il mandato dei membri del Consiglio dei Governatori del FED dura quattordici anni. Tali membri possono essere, a norma del 12 U.S.C. § 242, rimossi prima della scadenza dal Presidente degli Stati Uniti “per causa”. Sebbene non vengano specificate le ragioni per la rimozione, teoricamente si lascia spazio a considerazioni politiche. Nonostante ciò, nessun membro del Consiglio è ad oggi mai stato rimosso dalla carica. Oltre a prevedere mandati lunghi, talvolta le norme sul processo di nomina forniscono anche mandati sfalsati al fine di proteggere ulteriormente i nominati dalle influenze politiche. Conseguentemente, negli Stati Uniti il mandato dei membri del Consiglio dei Governatori dura quattordici anni, con scadenze scalate in modo da permettere la nomina di nuovo membro ogni due anni, riducendo quindi il numero di nomine che un Presidente può effettuare.

Infine, tutte le procedure di selezione degli alti funzionari delle banche centrali favoriscono anche l’obiettivo di selezionare candidati qualificati. Nell’Unione Europea, in particolare, tale fine di nominare una figura di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario o bancario viene costituzionalizzato all’Art. 130 TFUE Sebbene le diverse norme sulla nomina del capo della banca centrale mutino leggermente da Stato a Stato, esse condividono tute l’impegno comune verso l’indipendenza operativa, la competenza e la responsabilità del Governatore dell’Istituto.

2. L’ACCESSO CIVICO E LE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE: IL CASO RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. a cura di Elena Valenti

Il Consiglio di Stato, con sentenza del 7 luglio 2023, n. 656, si è pronunciato circa l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato alle società a partecipazione pubblica quotate.

La vicenda prende le mosse dal provvedimento di diniego all’accesso civico generalizzato accesso civico proposto dal responsabile dei lavoratori del Gruppo Ferrovie dello Stato da parte del Gruppo Europeo di interesse economico relativamente a molteplici documenti afferenti al progetto per lo sviluppo della nuova linea Trieste Divàca, di cui G.E.I.E è il soggetto coordinatore della progettazione e della gestione del progetto.

Tale soggetto coordinatore è controllato da Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., società a partecipazione pubblica con funzioni di promozione dell’infrastruttura italiana, a sua volta partecipata interamente dal Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane.

A sostegno del diniego di accesso il Gruppo Europeo ha ritenuto che Rete Ferroviaria Italiana, effettiva titolare della documentazione, dovesse considerarsi esclusa dall’ambito di applicazione del D. Lgs. 14 Marzo 2013, n. 33 secondo quanto disposto dall’art. 2 bis.

Tale disposizione, nell’estendere la disciplina dettata per le pubbliche amministrazioni anche alle società a controllo pubblico, avrebbe escluso le società quotate, come definite dall’art. 2, comma 1, d. l. 19 agosto 2016, n. 175, nonché le società da esse partecipate, salvo che queste ultime siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche.

Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. non rientra nell’ambito di applicazione dell’accesso civico generalizzato in quanto ha emesso strumenti finanziari diversi dalle azioni alla data del 31 dicembre 2015 e pertanto rientrerebbe nella definizione di società a partecipazione pubblica quotata.

Inoltre, devono escludersi dal regime di trasparenza anche le società direttamente controllate da società quotate, ovvero R.F.I, controllata da Ferrovie dello Stato Italiane S.p.A. che ha emesso strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentari.

Con sentenza n. 418 del 2022 il Tar per il Friuli-Venezia Giulia, sezione prima, ha dichiarato irricevibile per difetto di notificazione il ricorso promosso avverso il diniego di accesso.

Tale sentenza è oggetto di appello innanzi al Consiglio di Stato da parte del ricorrente per eccesso di potere, violazione di legge e ulteriori motivi di gravame.

Questi ultimi riguardano essenzialmente tre profili: l’attività di pubblico interesse svolta dal Gruppo europeo di interesse economico, la presenza del controllo diretto da parte di un’amministrazione pubblica e la titolarità degli strumenti finanziari in capo a Rete Ferroviaria Italiana S.p.A.

Secondo il ricorrente, essendo G.E.I.E. titolare del progetto transfrontaliero, a tale soggetto giuridico si dovrebbe applicare il comma 3 del D. Lgs. 33/2013, che prevede l’applicazione dell’accesso civico generalizzato, in quanto compatibile, limitatamente ai dati di pubblico interesse, alle società a partecipazione pubblica, nonché alle associazioni e fondazioni di diritto privato.

Per quanto attiene alle censure circa gli strumenti finanziari emessi alla data del 31 dicembre 2015, tali strumenti sarebbero di titolarità di Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. e, nelle more del giudizio, si sarebbero estinti nel mercato di borsa.

Secondo i giudici di Palazzo Spada, il Gruppo Europeo di interesse economico non è qualificabile come una società.

Inoltre, Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. è una società controllata da una società quotata (F.S.I. S.p.A.) e deve, pertanto, ritenersi esclusa dall’ambito di applicazione dell’accesso civico.

In particolare, non assume alcun rilievo il fatto che Ferrovie dello Stato S.p.A. è partecipata dal Ministero delle Finanze, poiché il legislatore ricomprende nell’esclusione le società partecipate da società quotate controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche, quando tale controllo è operato per il tramite di società quotate.

La ratio della disposizione, come nel caso in esame, è escludere che un controllo indiretto della pubblica amministrazione possa condurre all’applicazione della disciplina sull’accesso civico.

Inoltre, il legislatore ha inteso considerare, introducendo la cesura temporale del 31 dicembre 2015, la data di emissione degli stock obbligazionari, e non la loro effettiva permanenza nel mercato di borsa.

Con riferimento al comma 3 dell’art.2 bis D. Lgs. 33/2013, tale sentenza ha consentito al Consiglio di Stato di ribadire come l’interpretazione estensiva dell’ambito soggettivo di applicazione dell’accesso civico limitatamente alle attività di pubblico interesse, fornita dall’Autorità Nazionale anticorruzione, con delibera n. 1134 del 20 novembre 2017, è stata ritenuta, seppur coerente con il dato testuale, contraria alla ratio e alle finalità perseguite dal legislatore.

Sollevando tali rilievi critici, i giudici di Palazzo Spada hanno sostenuto la tesi dell’integrale esclusione, per le società partecipate quotate, dell’accesso civico generalizzato.

 L’esclusione non significa che non sussista un interesse pubblico alla prevenzione della corruzione e alla promozione della trasparenza, al contrario, tale interesse è perseguito dal particolare regime giuridico cui le società a partecipazione pubblica sono sottoposte, in particolar modo in tema di diffusione delle informazioni, a tutela degli investitori e della concorrenzialità del mercato in senso lato.

Appare utile mettere in evidenza come l’esclusione delle società quotate risponda all’esigenza di tutela della competitività sul mercato delle società a partecipazione quotate, che verrebbe compromessa dalla divulgazione del flusso informativo, con evidente svantaggio rispetto alle società concorrenti.

Il flusso informativo ha una rilevanza fondamentale nell’elaborazione della strategia di impresa e nelle operazioni societarie.

L’esclusione dell’accesso civico per le società a partecipazione pubblica quotate consente di evitare possibili effetti distorsivi della concorrenza, nonché comportamenti collusivi tra operatori del mercato.

L’istituto dell’accesso civico, secondo consolidata giurisprudenza, non è utilizzabile in modo disfunzionale rispetto alle finalità che persegue e non deve essere trasformato in un possibile intralcio al principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Risulta dunque opportuno ribadire, con riferimento alle società a partecipazione pubblica quotate, che l’applicabilità dell’accesso civico va valutata caso per caso, nel rispetto dei delicati equilibri di mercato che connotano le società a partecipazione pubbliche quotate.

3. CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME E CANONE CONCESSORIO: IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE a cura di Andrea Nardone

Con sentenza 14 giugno 2023, n. 5829, il Consiglio di Stato, sez. VII, si è pronunciato a proposito del riparto di giurisdizione in materia di concessioni demaniali marittime.

La vicenda traeva le mosse dall’impugnazione, ad opera di una società concessionaria di un’area del demanio marittimo, degli atti tramite i quali il Comune di Ugento, nel leccese, aveva intimato il pagamento del canone demaniale, nonché della connessa imposta regionale aggiuntiva, per l’anno 2021. La società, difatti, contestava la debenza delle relative somme, così come quantificate dal Comune, affermando invece che, nella fattispecie, sarebbero stati ricorrenti i presupposti per l’applicazione di un canone di mero riconoscimento.

Impregiudicata ogni considerazione sul merito della vicenda, l’attenzione del T.A.R. Puglia prima, e del Consiglio di Stato poi, si è focalizzata – per ora – unicamente sui profili attinenti alla giurisdizione. Giova premettere che il criterio discretivo per individuare, nel caso che ci occupa, quale sia il giudice munito di giurisdizione deve essere rinvenuto nella disposizione di cui all’art. 133, comma 1, lett. b) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.d. Codice del processo amministrativo), a mente del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque  pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche». In linea di massima, dunque, rimangono estranee alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi un contenuto patrimoniale; ciò, peraltro, non è sufficiente ad escludere che simili controversie, in alcuni casi, possano comunque ricadere nella giurisdizione generale di legittimità del medesimo giudice amministrativo.

Nel corso del giudizio, in primo grado il T.A.R. Puglia si era dichiarato sfornito di giurisdizione, ritenendo che la controversia dovesse essere devoluta al giudice ordinario, riguardando il quantum del canone da corrispondere, e non già la spendita di qualche potere autoritativo o discrezionale da parte dell’Amministrazione.

Al contrario il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha accolto l’appello proposto dalla società concessionaria, affermando la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, e per l’effetto rinviando il giudizio al T.A.R. Puglia per la sua prosecuzione. I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno ricostruito come «dagli atti di causa emerge con chiarezza che l’oggetto del contendere non è costituito dalla mera determinazione del quantum degli oneri concessori dovuti, quanto piuttosto dalla necessità di definire la natura giuridica del rapporto concessorio, da cui poi discende, quale conseguenza, l’imputazione degli oneri e la loro misura, secondo le vigenti disposizioni normative».

In altre parole, da una corretta individuazione della causa petendi risulta che, ad essere controversa, è innanzitutto l’interpretazione della tipologia di concessione. Quello che la società, con il suo atto di impugnazione, ha contestato all’Amministrazione è un cattivo esercizio– e non già una radicale carenza – del suo potere di determinarsi in ordine alla «meritevolezza» della concessione demaniale. Ove tale qualità fosse riscontrata, essa costituirebbe il presupposto per l’applicazione, alla concessione de qua, di un canone di riconoscimento ben più esiguo di quello preteso dal Comune. Infatti, l’art. 39, comma 2 del Regio Decreto 30 marzo 1942, n. 327 (c.d. Codice della navigazione) afferma che «Nelle concessioni a enti pubblici o privati, per fini di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, sono fissati canoni di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni».

In definitiva, la censura attorea attiene al modo in cui la Pubblica Amministrazione avrebbe adoperato le proprie valutazioni tecnico-discrezionali: vi sarebbe, dunque, a tutti gli effetti quella spendita di un pubblico potere che, sola, giustifica l’enucleazione della fattispecie tra le ipotesi di materie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Come difatti ha chiarito la Corte Costituzionale nella sua sentenza 6 luglio 2004, n. 204, le materie assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sono contrassegnate «della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo». L’eventualità che, in un secondo momento, da siffatta operazione di qualificazione della concessione possano discendere, more geometrico, conseguenze in tema di determinazione del canone assurge, pertanto, a mero effetto collaterale, e non costituisce, se non mediatamente, l’oggetto del contendere. Le eventuali conseguenze sulla quantificazione del canone, dunque, rappresentano un aspetto subordinato e condizionato dalla corretta qualificazione del rapporto concessorio, in quanto tali inidonee – a differenza di quanto affermato dal T.A.R. Puglia – a fondare la giurisdizione del giudice ordinario.

4. I LIVELLI DELLA PROGETTAZIONE NELLA FINANZA DI PROGETTO: PRIME OSSERVAZIONI SULLA NUOVA DISCIPLINA CODICISTICA A PARTIRE DA UN RECENTE ORIENTAMENTO DELL’ANAC a cura di Antonio Iuliano

L’ANAC, con atto dirigenziale del 5 settembre 2023, ha chiarito che in una procedura di finanza di progetto a iniziativa privata non è possibile richiedere -in sede di offerta- la presentazione di un livello progettuale più avanzato rispetto a quello di fattibilità tecnica ed economica. È opportuno evidenziare sin da subito come in materia di documentazione da allegare alle proposte -e alle successive offerte- di finanza di progetto, la disciplina del d. lgs. 36/2023 sia sostanzialmente identica a quella del d. lgs. 50/2016, su cui si basa la pronuncia ANAC che, dunque, può considerarsi valida anche in relazione al nuovo Codice, sebbene con alcune precisazioni.

Ai fini di una più agevole comprensione, l’esposizione muoverà dalla disciplina del vecchio Codice, per poi scendere nei dettagli della pronuncia dell’ANAC e, infine, analizzare come la stessa si declini in relazione alla nuova disciplina codicistica.

Il d. lgs. 50/2016 prevedeva due possibili procedure di Finanza di progetto: una a iniziativa privata e una a iniziativa pubblica. Quest’ultima non è più presente nel d. lgs. 36/2023, essendo, di fatto, come specificato dal Consiglio di Stato all’interno della relazione che ha accompagnato lo schema di nuovo Codice, una duplicazione rispetto alla scelta della pubblica amministrazione di indire una gara pubblica per l’affidamento di una concessione.

Per quanto concerne la finanza di progetto a iniziativa privata, ai fini della presentazione di una proposta da parte di un operatore economico, l’art. 183, co. 15 del d. lgs. 50/2016–analogamente a quanto oggi previsto dal d. lgs. 36/2023- richiedeva agli operatori economici di corredare la stessa di un progetto di fattibilità, di una bozza di convenzione, di un piano economico-finanziario asseverato e della specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione. Pervenuta la proposta all’ente concedente, lo stesso aveva 3 mesi -nel nuovo codice il termine è di 90 giorni- per valutarne la fattibilità, invitando se necessario il promotore ad apportare le modifiche necessarie all’approvazione del progetto di fattibilità, pena il rigetto della proposta. Normalmente, poi, (ma comunque a discrezione dell’ente concedente) il progetto di fattibilità è posto a base di gara.  I concorrenti -promotore compreso- onde partecipare alla gara, dovevano e devono presentare un’offerta contenente il PEF asseverato, la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione e le varianti migliorative al progetto di fattibilità posto a base di gara. Esauriti i termini per la presentazione delle offerte, l’ente concedente le esamina, redige una graduatoria e nomina il soggetto aggiudicatario, ponendo poi – e solo in questo momento- in approvazione i livelli progettuali successivi elaborati dall’aggiudicatario. Anche in questo caso la disciplina del nuovo Codice sostanzialmente ricalca quella del Vecchio.

In caso di Finanza di progetto a iniziativa pubblica, invece, il d. lgs. 50/2016 prevedeva che fosse l’ente concedente a predisporre un progetto di fattibilità tecnica ed economica, posto poi a base di gara. Le successive offerte dovevano contenere -come previsto anche per quella a iniziativa privata- una bozza di convenzione, un PEF asseverato, la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione e -ed ecco la differenza rispetto a quella a iniziativa privata- un progetto definitivo. Anche qui la P.A. poteva richiedere all’aggiudicatario di apportare modifiche al progetto definitivo ai fini dell’approvazione, pena la mancata stipulazione della concessione e lo scorrimento della graduatoria.

La differenza, dunque, per ciò che qui interessa, stava nella presentazione -in luogo del progetto di fattibilità- di un progetto definitivo, essendo lo stesso cosa ben diversa rispetto alle varianti migliorative del progetto di fattibilità, richieste invece agli offerenti nelle procedure a iniziativa privata.

L’art. 23 del d. lgs. 50/2016 prevedeva, difatti, in materia di lavori pubblici, tre diversi livelli progettuali (progetto di fattibilità tecnica ed economica, progetto definitivo e progetto esecutivo).  All’interno del Nuovo Codice, invece, i livelli progettuali sono passati da 3 a 2. Nell’art. 41 del d. lgs. 36/2023, scompare il progetto definitivo, rimanendo soltanto quello di fattibilità tecnico-economica e quello esecutivo, andando quest’ultimo ad assorbire il primo. Per la definizione dei contenuti dei piani, la disposizione rimanda, poi, all’allegato I.7, destinato -secondo una tecnica ricorrente all’interno del Codice- ad essere sostituito da un regolamento del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Ma qual è la differenza tra i vari livelli progettuali?

Il progetto di fattibilità tecnica ed economica, tra le varie, ha la funzione di individuare, tra più soluzioni, quella che presenta il miglior rapporto tra costi e benefici per la collettività, in relazione alle specifiche esigenze da soddisfare e prestazioni da fornire. Il progetto di fattibilità tecnica ed economica, ove necessario, deve poi consentire -come precisato dalla disciplina codicistica- l’avvio delle procedure espropriative.

Il progetto definitivo invece aveva il compito di individuare compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti dalla stazione appaltante e dal progetto di fattibilità; doveva contenere, altresì, tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni e approvazioni, nonché la quantificazione definitiva del limite di spesa per la realizzazione e del relativo cronoprogramma.

Ultimo livello progettuale era, ed è, il progetto esecutivo, il quale deve determinare in dettaglio i lavori da realizzare, il relativo costo previsto e il cronoprogramma, dovendo sviluppare un livello di definizione tale che ogni elemento sia identificato:

– secondo il d. lgs. 50/2016 in: forma, tipologia, qualità, dimensione e prezzo;

– secondo il d. lgs. 36/2023 in: funzione, requisiti, qualità e prezzo.

Trattasi, dunque, di livelli progettuali la cui predisposizione -come si può facilmente rilevare – richiede un impegno in termini di tempo, risorse e competenze certamente differente.

È questo il contesto normativo all’interno del quale si inserisce l’atto dirigenziale ANAC del 5 settembre, scaturente da un procedimento di vigilanza a carico di un ente concedente che, nell’ambito di una procedura di finanza di progetto a iniziativa privata, aveva richiesto ai concorrenti, in sede di offerta, di allegare un progetto definitivo. L’ente concedente, cui ANAC aveva chiesto chiarimenti, sosteneva la legittimità della richiesta sulla scorta del rinvio operato dall’art. 183, co. 15 del d. lgs. 50/2016 al comma 5 del medesimo articolo, secondo cui: “oltre a quanto previsto dell’articolo 95, l’esame delle proposte è esteso agli aspetti relativi alla qualità del progetto definitivo presentato, al valore economico e finanziario del piano e al contenuto della bozza di convenzione”.

L’ANAC ha evidenziato come la ricostruzione della stazione appaltante si fondasse su un’erronea ricostruzione sistematica, essendo l’art. 183, co. 15 chiaro nel prescrivere: 

– che la proposta del privato dovesse avere ad oggetto un progetto di fattibilità;

– che detto progetto dovesse essere posto a base della gara per l’affidamento dei lavori;

– che il bando di gara potesse prevedere solo la possibilità per l’Amministrazione di richiedere al promotore e agli altri concorrenti la presentazione di eventuali varianti migliorative al progetto;

– che l’offerta dei concorrenti dovesse avere un contenuto specifico e limitato alla presentazione di una bozza di convenzione, di un piano economico-finanziario asseverato, della specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione nonché di eventuali varianti al progetto di fattibilità.

Ne discende, ad avviso dell’ANAC, la preclusione in capo all’ente concedente di richiedere ai concorrenti la presentazione di un’offerta che contenga un livello progettuale più avanzato rispetto a quello di fattibilità tecnica ed economica, quale il progetto definitivo.

Quanto alla validità in relazione al nuovo Codice, all’interno dello stesso, come accennato, non è più presente una procedura di finanza di progetto a iniziativa pubblica, scomparendo, dunque, qualsiasi richiamo a detta disciplina. Da ciò deriva sicuramente maggiore chiarezza sistematica. Per quanto riguarda, invece, la procedura a iniziativa privata, anche qui -come sopra riportato- in relazione alla documentazione che deve accompagnare la proposta -prima- e l’offerta -poi- non si rilevano novità.  Ciò, alla luce delle -invece- significative novità in materia di livelli progettuali sopra riportate, significa che quanto affermato dall’ANAC, nel caso di specie in relazione al progetto definitivo, ma -come specificato dalla stessa pronuncia- in riferimento a qualsiasi livello successivo di progettazione, è ora da riferirsi all’impossibilità di richiedere in sede di offerta tecnica la presentazione di un progetto esecutivo.

5. IL SILENZIO-ASSENSO ORIZZONTALE SI APPLICA ANCHE AL PARERE RESO DALLA SOPRINTENDENZA a cura di Giulia Moscaroli

Con sentenza del 2 ottobre 2023, n. 8610, la Sezione IV del Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto dal Ministero della Cultura per la riforma della sentenza del TAR Salerno, 4 novembre 2022, n. 2946.

La vicenda prende le mosse dall’istanza del proprietario di un terreno sito nel comune di Ascea finalizzata a ottenere il rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di una residenza turistico-alberghiera. Trattandosi di zona assoggettata a tutela paesaggistica il proprietario formulava altresì domanda di autorizzazione paesaggistica.

Il comune di Ascea indiceva, il 27 marzo 2019, una conferenza di servizi decisoria in forma semplificata e con modalità asincrona, ai sensi dell’art. 14-bis legge 7 agosto 1990, n. 241, al fine di acquisire tutti gli atti di assenso necessari, ivi compreso il parere della Soprintendenza. Le amministrazioni coinvolte avrebbero dovuto esprimere la propria posizione entro il 1° agosto 2019. Il parere contrario della Soprintendenza, tuttavia, veniva espresso solo in data 10 febbraio 2020. Ciononostante, il comune procedente statuiva che “il dissenso espresso non fosse superabile senza apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza così come rappresentato dal parere contrario della Soprintendenza”.

Avverso tale decisione il proprietario adiva il TAR Salerno, che accoglieva il ricorso e annullava la determina negativa di conclusione della conferenza di servizi, ritenendo che la Soprintendenza non avesse rispettato il termine legalmente previsto – fissato in novanta giorni ove siano coinvolte amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente e del paesaggio – per l’adozione del richiesto parere. L’inutile decorso di tale termine aveva, di conseguenza, generato la formazione del silenzio-assenso c.d. orizzontale (art. 17­-bis legge n. 241/1990) sull’istanza di autorizzazione paesaggistica, determinando l’inefficacia del parere negativo espresso tardivamente.

La decisione del Giudice di prime cure viene, quindi, impugnata dal Ministero della Cultura, il quale ritiene che il menzionato art. 17-bis si applichi soltanto ai rapporti orizzontali tra amministrazioni e non anche al procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. Quest’ultimo, difatti, si caratterizza come un procedimento mono-strutturato, in cui prevale la volontà di una singola pubblica amministrazione; con la conseguenza che il comune dovrebbe comunque tenere conto del parere tardivo della Soprintendenza ai fini della determinazione in ordine al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

Appare opportuno ricostruire, preliminarmente, la disciplina del silenzio-assenso orizzontale, così definito poiché si inserisce nei rapporti orizzontali tra le pubbliche amministrazioni coinvolte in un procedimento decisorio, come una forma di accordo implicito tra le stesse. L’istituto prende le mosse a livello comunitario dalla Direttiva Bolkestein 2006/123/CE, che fa riferimento al principio di tacita autorizzazione. A livello nazionale, invece, trova fondamento costituzionale nei principi di buon andamento e di trasparenza delle amministrazioni, di cui all’art. 97 Cost. Difatti, il meccanismo in questione incide sui tempi del procedimento, favorendone una tempestiva conclusione e assicurando una più efficace cura dell’interesse pubblico, nel tentativo di realizzare l’obiettivo di semplificazione dell’azione amministrativa.

A fronte del ricorso, il Consiglio di Stato, pur ricordando un indirizzo giurisprudenziale alla stregua del quale il silenzio-assenso orizzontale non sarebbe applicabile al parere reso dalla Soprintendenza in sede di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ritiene di dover aderire all’orientamento di segno contrario. Quest’ultimo muove dalla premessa per cui tutti i pareri vincolanti partecipano alla formazione dell’autorizzazione paesaggistica, che rappresenta un provvedimento pluri-strutturato.

A sostegno di questa impostazione depone soprattutto il dato letterale dell’art. 17-bis, co. 3, legge n. 241/1990, a norma del quale le amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili – tra i quali il paesaggio – beneficiano di un termine superiore, pari a novanta giorni, rispetto alle altre amministrazioni. Scaduto tale termine, tuttavia, sono sottoposte alla regola generale del silenzio-assenso. Il Collegio, sul punto, ricorda che il testo della legge, specialmente quando formulato mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria, rappresentando il punto fermo da cui il giudice deve muoversi nell’attività ermeneutica. La formulazione dell’art. 17-bis non pare generare alcuna lacuna che giustifichi l’applicazione di principi costituzionali da parte del giudice. Pertanto, occorre attenersi al dato letterale, che costituisce il primo criterio da seguire nell’interpretazione delle disposizioni legislative anche ai sensi dell’art. 12 disp. prel. c.c., che richiede all’interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio dalle parole secondo la connessione di esse.

Al contempo, tale lettura sembra anche essere l’unica in linea con l’intenzione del legislatore che, attraverso l’istituto di semplificazione di cui all’art. 17-bis, ha cercato di individuare un delicato punto di equilibrio tra la tutela degli interessi sensibili e la, parimenti avvertita, esigenza di garantire una risposta – positiva o negativa – entro termini ragionevoli all’operatore economico, che, diversamente, rimarrebbe esposto al rischio dell’omissione burocratica. La protezione del valore paesaggistico attribuisce, quindi, all’autorità tutoria non solo diritti, ma anche doveri e responsabilità. In tale composito quadro, la competenza della Soprintendenza resta garantita sia pure nei termini stringenti entro i quali deve esercitare la propria funzione.

 Il Collegio considera, quindi, applicabile il silenzio-assenso orizzontale al parere della Soprintendenza, atteso che esso è «espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico». A diversa soluzione sarebbero pervenuti i giudici ove avessero riconosciuto a tale parere natura consultiva (artt. 16 e 17 legge n. 241/1990), con conseguente applicazione del silenzio devolutivo.

Per le summenzionate ragioni, il Consiglio di Stato respinge l’appello e conferma la sentenza del TAR.

L’indirizzo espresso nella pronuncia oggetto di esame, confermato anche dal parere del Consiglio di Stato del 13 luglio 2016, n. 1640, deve ritenersi condivisibile e preferibile alla luce dell’evoluzione registratasi nei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino. In passato, infatti, si riteneva che la violazione del termine a provvedere non estinguesse il potere dell’amministrazione, stante la inesauribilità di quest’ultimo. L’affermarsi, viceversa, di una concezione del rapporto amministrativo in termini di dialogo tra cittadini e amministrazione ha indotto a ritenere che tale potere si consumi con l’inutile decorso del termine previsto a favore dell’autorità competente, al fine di garantire che l’azione amministrativa sia celere, stabile e certa.   Pare comunque opportuno rammentare che non si tratta di un orientamento pacifico. Basti considerare che la medesima Sezione IV del Consiglio di Stato, in una precedente pronuncia del 21 marzo 2023, n. 2836, si era espressa nel senso dell’inapplicabilità del meccanismo in questione all’autorizzazione paesaggistica, sulla scorta del rilievo che si tratterebbe di un procedimento mono-strutturato.

6. NOVITÀ SULL’ATTUAZIONE DEL PNRR: I GRANDI APPALTI DI INFRASTRUTTURE IDRICHE PRIMARIE a cura di Carlo Fenucciu

Vi sono novità incoraggianti circa l’attuazione degli obiettivi del PNRR relativi alle infrastrutture idriche primarie: lo scorso 28 settembre sono stati affidati i lavori per le opere di derivazione della diga di Campolattaro (soggetto attuatore Regione Campania) e il 17 ottobre si è chiusa l’ultima conferenza di servizi per la messa in sicurezza e l’ammodernamento del sistema idrico del Peschiera (soggetto attuatore Acea Ato 2).

Questi investimenti rientrano nella missione 2, componente 4 del Piano di Ripresa e Resilienza presentato dall’Italia e approvato dal Consiglio dell’Unione Europea, in cui si promette di aggiudicare gli appalti relativi ad “Infrastrutture idriche primarie per la sicurezza dell’approvvigionamento idrico” (Investimento 4.1) entro il terzo trimestre del 2023, e terminare i relativi lavori entro il primo trimestre del 2026 (Investimento 4.2). All’interno di questa sezione del PNRR le soprammenzionate opere rivestono speciale rilievo, in quanto assorbono 350 milioni dei due miliardi di euro stanziati per infrastrutture idriche, secondo la ripartizione dei fondi effettuata dal D.M. 517/2021 del MIMS.

L’appalto per la diga di Campolattaro è un intervento strategico, in quanto l’invaso costituisce uno dei principali impianti idrici del Mezzogiorno per l’approvvigionamento sia potabile che irriguo e consentirà l’autonomia idrica della Regione Campania. Lo scorso 28 settembre la Giunta Regionale della Campania ha approvato, con Decreto Dirigenziale n. 725, la proposta di aggiudicazione del RUP per l’appalto misto di lavori e servizi per “l’utilizzo idropotabile delle acque dell’invaso di Campolattaro e potenziamento dell’alimentazione potabile per l’area beneventana”.  Il bando di gara prevedeva la conclusione di un Accordo Quadro per l’affidamento congiunto della progettazione esecutiva e della realizzazione dell’opera. L’affidamento è intervenuto appena due giorni prima della scadenza del termine fissato nel PNRR. Questa tempestività Rende possibile anche il rispetto del termine previsto per la fine dei lavori, cioè il 31 marzo 2026 (investimento 4.2).

Diversa è la situazione della messa in sicurezza ed ammodernamento del sistema idrico del Peschiera (Lazio), che consentirà di effettuare la manutenzione dell’ottuagenario acquedotto che rifornisce la Città Metropolitana di Roma. L’opera è divisa in quattro sotto progetti, ognuno dei quali riguarda un tratto dell’acquedotto ed è oggetto di un’autonoma conferenza di servizi. Il 17 ottobre si è conclusa la quarta conferenza di servizi, ed è stato approvato il progetto di fattibilità tecnica ed economica afferente al quarto tratto; a breve interverrà la determinazione conclusiva motivata del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e potrà essere bandita la gara.

L’appalto per la Diga di Campolattaro e gli appalti per l’acquedotto del Peschiera sono accomunati sotto diversi profili. Entrambi sono stati commissariati ai sensi dell’art. 4, co. 1 del decreto-legge 32/2019 (cd. Sblocca Cantieri), in quanto interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità, ai sensi dell’art. 4, co.1.

 Inoltre, riveste speciale rilievo il loro inserimento tra le dieci opere di preminente interesse nazionale indicate dall’allegato IV del decreto-legge 77/2021, testo con il quale è stato istituito un quadro normativo funzionale al raggiungimento degli obiettivi fissati dal PNRR. Ciò comporta l’applicazione dei procedimenti semplificati per la progettazione ed approvazione delle dieci opere indicate all’allegato IV (artt. 44-46) e delle regole speciali previste agli artt. 47 ss. per tutti i contratti pubblici relativi ad opere finanziate con fondi provenienti dal PNRR.

La disciplina è caratterizzata da una spiccata finalità acceleratoria. Il procedimento autorizzatorio viene compresso; si prevede l’approvazione in conferenza dei servizi di un Progetto di Fattibilità Tecnica ed Economica molto dettagliato (in conformità alle linee guida del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici), con un parere preventivo e successivo del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (il procedimento è indicato all’articolo 44 del decreto-legge 77/2021). In seguito, è consentito l’affidamento congiunto della progettazione esecutiva e della realizzazione dell’opera sulla base del PFTE, omettendosi il livello progettuale intermedio (ai sensi dell’articolo 44, comma 5, del decreto-legge 77/2021, letto in combinato con il paragrafo 3.2 delle linee guida CSLLPP). Entrambe le stazioni appaltanti si sono orientate in tal senso. Possono essere raccolti i primi dati circa l’applicazione dello speciale iter previsto per le grandi opere di cui all’allegato IV del decreto-legge 77/2021. La conferenza di servizi indetta per l’invaso di Campolattaro ha avuto durata di un anno; le conferenze per i tratti di acquedotto del Peschiera hanno avuto durata media di un anno e due mesi, nonostante il coinvolgimento di un numero decisamente maggiore di enti territoriali. In conclusione, può affermarsi che lo speciale procedimento previsto dal decreto-legge 77/2021 ha prodotto risultati incoraggianti: la Regione Campania è riuscita ad addivenire all’aggiudicazione entro il 30 settembre 2023, in conformità con il PNRR. Acea, invece, pur sforando il termine, ha chiuso la conferenza di servizi in tempi ragionevoli, avvalendosi del procedimento speciale.

7. INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI: LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SULL’AMBITO DI APPLICAZIONE a cura di Gian Marco Ferrarini

Il 13 Luglio scorso la Corte di giustizia dell’Unione europea si è espressa con un’importante sentenza (causa C-106/22) relativamente ad una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione dell’articolo 65, paragrafo 1, lettera b), TFUE, nella parte in cui autorizza gli Stati membri ad adottare misure restrittive dei movimenti di capitali giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.[1]

Nello specifico, la questione sollevata dal giudice del rinvio concerne la compatibilità con il diritto comunitario della normativa nazionale ungherese istitutiva di un meccanismo di controllo sugli investimenti esteri.

La vicenda trae origine dalla decisione da parte della Xella Magyarorszag (“Xella”), una società di diritto ungherese facente parte di un gruppo di società la cui società capogruppo ha sede alle Bermuda, di acquisire il 100% delle quote della società target, la Janes ès Tàrsa (“Janes”), altra società di diritto ungherese la cui principale attività consiste nell’estrazione mineraria di talune materie prime di base. Proprio per la tipologia di attività svolta, la Janes è stata ritenuta dal governo ungherese “società strategica”.

L’acquisizione in oggetto è stata correttamente notificata al Ministro dell’Inovazione e della Tecnologia ungherese, il quale ha tuttavia deciso di vietarla sostenendo che qualora la Xella, qualificata come “investitore estero”, divenisse proprietaria della società target, ciò determinerebbe “un rischio a più lungo termine per la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime nel settore edile”, in particolare a livello locale. Resa edotta di ciò, la Xella ha prontamente contestato tale decisione, ritenendola integrante una “restrizione dissimulata alla libera circolazione dei capitali”.

Pronunciandosi sul caso, la Corte di giustizia ha ritenuto che l’acquisizione di cui trattasi non rientra nell’ambito di applicazione del regolamento (UE) 2019/542. Questo perché tale normativa rinvia agli “investimenti esteri nell’Unione”, e attraverso una interpretazione restrittiva dei punti 1, 2, 7 dell’articolo 2 del suddetto regolamento, la Corte afferma che debbano considerarsi investimenti diretti esteri solo ed esclusivamente quelli effettuati nell’Unione da imprese costituite o comunque organizzate conformemente alla legislazione di un paese terzo. Pertanto, nonostante l’assetto proprietario transfrontaliero, l’applicabilità del regolamento è stata categoricamente esclusa.

Tale lettura è di fondamentale importanza poiché non solo restringe notevolmente il campo di applicazione del regolamento, ma anche perché qualifica come europee quelle società costituite da soggetti non europei. Infatti,  la Corte osserva che la presenza di una società extraeuropea all’interno della catena di controllo non costituisce elemento rilevante ai fini del riconoscimento dello status di società dell’Unione, che invece si fonda sul luogo della sede sociale e sull’ordinamento giuridico di appartenenza della società acquirente.

Al contrario, la normativa nazionale ungherese, ai sensi dell’’articolo 8:2 del Codice civile, si applica non solo all’ipotesi di investimenti diretti effettuati da una società di un paese terzo ma anche, come nel caso di specie, a quegli investimenti compiuti da società registrate in Ungheria o in un altro Stato membro nelle quali una società registrata in un paese terzo detiene una influenza maggioritaria. Di conseguenza, nulla esclude che possa trovare invece applicazione il meccanismo di controllo degli investimenti esteri previsto dalla normativa nazionale, collocandosi anche questo fuori dall’ambito di applicazione del regolamento comunitario.

Inoltre, sebbene il giudice del rinvio abbia chiesto di verificare la compatibilità della normativa nazionale ungherese alla luce dell’articolo 65 TFUE, in tema di libertà di circolazione dei capitali, la Corte ha rilevato che debba trovare applicazione un’altra libertà fondamentale, ossia quella di stabilimento. Questo perché secondo una costante giurisprudenza ricade nell’ambito di interesse delle norme in materia di libertà di stabilimento quella normativa nazionale destinata ad applicarsi alle partecipazioni che consentano alla società acquirente di esercitare un’influenza sulla gestione e sul controllo della società acquisita.

Ne consegue che la questione pregiudiziale deve essere esaminata solo prendendo in considerazione le disposizioni del Trattato TFUE in materia di libertà di stabilimento.

A tale riguardo, l’articolo 52, paragrafo 1, TFUE prevede che alla libertà di stabilimento possa derogarsi solo per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Tuttavia, la Corte specifica che l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza possono essere invocati solamente in caso di minaccia effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività. Pertanto, tali motivi sono da interpretare restrittivamente. Tantomeno potrebbero invocarsi per ostacolare una delle libertà fondamentali dell’Unione, motivi di natura puramente economica connessi alla promozione dell’ economia nazionale o al buon funzionamento di quest’ultima. In generale, la Corte osserva che l’esercizio del potere di veto possa considerarsi legittimo ogniqualvolta questo trovi fondamento nell’esigenza di sicurezza dell’approvvigionamento o della fornitura di determinati prodotti e servizi, come ad esempio nel caso del petrolio, delle telecomunicazioni e dell’energia. Ciononostante, secondo la Corte, l’obiettivo della sicurezza dell’approvvigionamento di alcune materie prime di base, come la sabbia, la ghiaia e l’argilla, in particolare a livello locale, non può in alcun modo essere di ostacolo alla libera circolazione dei capitali, questo perché nel caso di specie è assente quella minaccia grave ed effettiva ad uno degli interessi fondamentali della collettività che avrebbe giustificato la deroga. Infatti, la Corte precisa che prima dell’operazione la Xella acquistava già circa il 90% della produzione delle materie prime della società target, e che il restante 10% era acquistato da imprese locali. Inoltre, tenuto conto del valore relativamente basso di tali materie prime di base rispetto alle loro spese di trasporto, non sembra ipotizzabile un rischio di esportazione di una parte rilevante della produzione anziché la vendita di dette materie prime di base sul mercato locale.


[1] G.Napolitano, La Corte di Giustizia boccia il Golden power ungherese. Lezioni per noi, Il Foglio, 10 Luglio 2023.

8. PRINCIPI PER UNA CORRETTA COMPOSIZIONE DEGLI ORGANI SOCIALI NELLE SOCIETA’ QUOTATE A PARTECIPAZIONE PUBBLICA a cura di Marta Nigrelli

A2A S.p.A. è una società multiservizi italiana, quotata alla Borsa di Milano, attiva nello sviluppo di prodotti e servizi per l’efficienza energetica.

La società è stata costituita mediante fusione per incorporazione nel 2008, in un contesto di progressiva apertura alla concorrenza delle imprese multiservizi.

La società è partecipata dal Comune di Brescia e dal Comune di Milano, entrambe titolari del 25% del capitale sociale (con esplicito divieto, inserito nello statuto sociale, per i soci diversi dai predetti comuni, di detenere partecipazioni superiori al 5%).

In data 11 ottobre 2023, il Consiglio di amministrazione di A2A ha deliberato in ordine al riassetto della governance societaria, provvedendo alla nomina del Consigliere non esecutivo, del Presidente e dei Comitati endo-consiliari.

In particolare, la scelta del Presidente è avvenuta tenendo conto della potenziale inconferibilità dell’incarico a R.T., soggetto individuato, che era stato assessore al Bilancio del Comune di  Milano da giugno 2016 a ottobre 2021.

Tuttavia, essendo trascorso il periodo di raffreddamento di due anni (cd. biennio bianco), la nomina è potuta avvenire nel rispetto dell’art. 7, co 2., del d.lgs. 39/2013.

Il d.lgs. n. 39/2013 disciplina l’inconferibilità degli incarichi di amministratore di enti di diritto pubblico o di enti di diritto privato in controllo pubblico a determinate figure politiche.

L’art. 7, comma 2, lett. d), d.lgs. n. 39/2013 stabilisce che non possono essere conferiti tali incarichi a coloro che nei due anni precedenti sono stati componenti di giunte o consigli di enti territoriali con determinate caratteristiche, in particolare un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, nella stessa regione dell’amministrazione locale che conferisce l’incarico.

L’art. 1, comma 2, lett. l), d.lgs. n. 39/2013 definisce gli incarichi di amministratore di enti pubblici o di enti privati in controllo pubblico come quelli di Presidente con deleghe gestionali dirette, amministratore delegato e assimilabili, o di altro organo di indirizzo delle attività dell’ente, comunque denominato, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico.

Lo stesso soggetto destinato ad assumere l’incarico è tenuto a presentare un’apposita dichiarazione di inesistenza di cause di inconferibilità.

La presentazione della dichiarazione, da ripetersi da parte del soggetto incaricato ogni anno, è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico e consente, nel rispetto dei principi di trasparenza, di prevenire l’attivazione dei poteri di rilevazione riservati al RPCT.

L’istituto dell’inconferibilità mira a garantire sia l’esercizio imparziale di una specifica funzione sia la percezione di tale imparzialità da parte dei cittadini, a prescindere dal fatto che l’attività venga svolta individualmente o all’interno di un organo collegiale.

Affinché sia assicurata l’imparzialità (reale e percepita) dell’azione amministrativa, è necessario istituire limiti all’accesso ad incarichi pubblici di natura gestionale o amministrativa, che richiedono invece una necessaria neutralità. Questi limiti sono applicati a individui che si trovano in situazioni che potrebbero generare dubbi ragionevoli sulla loro imparzialità personale, o che potrebbero impedire l’esercizio della funzione amministrativa a individui politicamente schierati. Inoltre, questa normativa promuove e garantisce il principio meritocratico nella selezione dei vertici amministrativi e, di conseguenza, il buon funzionamento dell’amministrazione pubblica.

Sul punto, in una recente pronuncia, il Tar Lazio (sentenza n. 13621/2023), facendo rinvio a quanto in precedenza espresso dal Consiglio di Stato (sentenza n. 126/2018) ha ribadito che, indipendentemente dalla denominazione dell’incarico presso l’ente di destinazione, sono da considerarsi inconferibili – in quanto violerebbero il “periodo di raffreddamento” – tutti gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico che comportino, in concreto e considerando l’effettiva organizzazione dell’ente privato in controllo pubblico, l’assunzione di funzioni amministrativo-gestionali. Queste, nel contesto delle amministrazioni pubbliche, devono essere distinte dalla funzione di indirizzo politico e devono essere svolte in modo indipendente ed obiettivo.

Fondamentale nella ricerca di eventuali ipotesi di inconferibilità è la valutazione circa la sussistenza del duplice requisito funzionale (art. 1, d.lgs. 39/2013) e di governance (art. 2359 c.c.).

La A2a s.p.a. nella scelta del Presidente, ha tenuto conto non solo delle indicazioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, ma anche della disciplina prevista per le nomine degli organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico delineata dal d.lgs. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), il cui art. 11, comma 8, prevede l’incompatibilità con i suddetti incarichi per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti.

Le ipotesi di inconferibilità figurano, dunque, come condizioni ostative al conferimento di determinati incarichi, riconducibili essenzialmente al pregresso svolgimento di cariche politiche o incarichi di vertice, comunque superabile mediante il decorso di un periodo di “raffreddamento” di uno o due anni, a seconda dei casi. Obiettivo del legislatore è quello di evitare che, proprio in ragione della carica ricoperta e del lasso temporale in cui è assunta, l’interessato possa prevedere o ambire ad una situazione di favore attraverso l’attribuzione di un nuovo incarico di carattere amministrativo o gestionale, rivolgendo quindi l’esercizio della pubblica funzione a vantaggio proprio e non della pubblica amministrazione. Il periodo di raffreddamento è fondamentale, in tal senso, per superare quella condizione di coinvolgimento (derivante dall’eventuale coesistenza di incarichi strettamente connessi in termini politico-economici) che altererebbe da un lato il corretto perseguimento dell’interesse generale cui aspira l’azione amministrativa e dall’altro l’efficiente realizzazione dell’oggetto sociale cui è improntato l’ente privato.

9. L’APERTURA DI UN PROCEDIMENTO ANTI-SOVVENZIONE RELATIVO AI VEICOLI ELETTRICI A BATTERIA a cura di Riccardo Zinnai

In data 4 ottobre 2023 la Commissione europea ha notificato l’avviso di apertura d’ufficio di un procedimento anti-sovvenzioni relativo ai veicoli elettrici a batteri nuovi provenienti dalla Cina, ai sensi del regolamento (UE) 2016/1037 relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di sovvenzioni provenienti da paesi non membri dell’Unione europea. Tale regolamento prevede la possibilità di imporre un dazio compensativo, il quale si configura come misura antisovvenzione, qualora ci si trovi in presenza di beni importati che sono oggetto di una sovvenzione specifica. Occorre però che da tali sovvenzioni derivi un pregiudizio grave per l’industria dell’Unione e che l’imposizione del dazio risulti comunque nell’interesse dell’Unione. L’inchiesta antisovvenzioni può essere aperta a seguito di una denuncia da parte di soggetti interessati, tra i quali sono da annoverarsi principalmente i produttori dell’Unione del prodotto di cui si tratta, ma può anche essere attivata d’ufficio dalla Commissione come in questo caso.

L’oggetto dell’inchiesta riguarda in modo specifico i veicoli elettrici a batteria nuovi, destinati principalmente a trasportare un massimo di nove persone facendo uso di uno o più motori elettrici.

L’inchiesta prenderà in esame un periodo di un anno che va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2023. Relativamente a tale periodo, l’inchiesta dovrà quindi accertare se: 1) il prodotto sia effettivamente oggetto di sovvenzioni, 2) se da tali sovvenzioni deriva un pregiudizio per l’Unione. In caso di risposta positiva ad entrambe le domande, la Commissione dovrà anche domandarsi se l’adozione di contromisure sia nell’interesse dell’Unione.

Nello svolgimento delle indagini, la Commissione potrà anche fare ricorso al campionamento statistico. A tal proposito, i soggetti interessati possono seguire la procedura indicata nell’avviso di avvio del procedimento e fornire le informazioni richieste dalla Commissione. Per incentivare i produttori esportatori a collaborare, la Commissione prevede che nel caso di produttori esportatori che hanno manifestato la disponibilità a far parte del campione, senza essere poi selezionati, il dazio compensativo a loro applicabile non possa superare la media ponderata dell’importo delle sovvenzioni stabilito per coloro che invece hanno fatto parte del campione in analisi. Resta tuttavia ferma la possibilità di richiedere la fissazione di un dazio compensativo individuale, purché il numero di richieste ricevute dalla Commissione non renda eccessivamente gravosa l’operazione. Nel corso del procedimento, verranno ascoltati i produttori esportatori, gli importatori indipendenti e i produttori dell’Unione. L’ascolto di questi ultimi in particolare servirà per verificare se vi sia un pregiudizio per l’industria dell’Unione.

La durata totale dell’inchiesta sarà di norma di dodici mesi e comunque dovrà essere conclusa entro tredici mesi dalla data di pubblicazione dell’avviso di avvio del procedimento.

L’Unione ritiene infatti che le importazioni di tali veicoli siano oggetto di sovvenzioni da parte della Repubblica popolare cinese e quindi che ci sia un pregiudizio per l’industria dell’Unione relativamente ad un settore di importanza strategica. La Commissione teme infatti che le importazioni a basso costo, rese possibili dalle sovvenzioni estere, possa far sì che vengano conquistate ampie quote di mercato, a discapito delle industrie e degli investimenti europei.

In questo procedimento il concetto di sovvenzione sembrerebbe intendersi in senso ampio. Infatti, le pratiche scrutinate dalla Commissione riguardano sì trasferimenti diretti di fondi ma anche a vantaggi tributari e nella fornitura di beni o servizi da parte dell’amministrazione ad un prezzo inferiore a quello di mercato. Tra i vantaggi di tipo tributario si elencano: esenzioni o sgravi dall’imposta sul reddito, esenzioni dall’imposta sui dividendi, sgravi sulle imposte relative alle importazioni e alle esportazioni, ma anche vantaggi tributari connessi all’imposta sul valore aggiunto. Sono inclusi anche i vantaggi che possono essere concessi da banche di proprietà dello Stato, quali prestiti o assicurazioni a condizioni agevolate. La Commissione è persuasa si tratti di sovvenzioni in quanto concesse o dal governo cinese o da amministrazioni regionali o enti – anche privati – che hanno agito su ordine del governo. Inoltre, tali sovvenzioni sono limitate ad alcuni settori. Poiché gli aiuti riguardano diversi aspetti del processo produttivo, il sostegno complessivo al settore economico risulta costante. Poiché la Repubblica Popolare Cinese possiede la capacità di aumentare la produzione di veicoli elettrici e l’Unione europea sarebbe in grado di assorbire l’aumento dell’offerta, è probabile che in futuro non remoto vi sarà un aumento delle importazioni sovvenzionate. In particolare, tale ipotesi è corroborata dall’osservazione che la maggiore produzione cinese non parrebbe essere suscettibile di essere assorbita da mercati diversi da quello dell’Unione. Inoltre, i prezzi ribassati dei prodotti cinesi impediscono alle industrie dell’Unione di aumentare i prezzi, anche quando ciò sarebbe fisiologico e anzi favorirebbe maggiori investimenti necessari per arrivare alla piena elettrificazione. Infatti, per far sì che gli investimenti europei siano sostenibili occorre che i volumi di vendita delle industrie europee aumentino significativamente.

Nella procedura la Commissione tende a ricercare la collaborazione delle parti interessate. Infatti, dall’omessa collaborazione possono derivare conseguenze maggiormente negative rispetto a quelle che potrebbero esserci in caso di partecipazione.

In particolare, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che il settore dei veicoli elettrici rappresenta un potenziale enorme per la competitività dell’Europa anche in relazione all’industria verde. Ha affermato che la Commissione intende intervenire in caso ci siano distorsioni di mercato ed esempi di concorrenza sleale che possono frustrare gli sforzi dei produttori europei. Tuttavia, l’Unione intende agire nel rispetto sia delle proprie regole che di quelle internazionali.

All’apertura di tale procedimento non è mancata la reazione del governo della Repubblica popolare cinese. Il Ministro del Commercio si è espresso in questi termini: “[l’indagine] è un puro atto protezionistico che sconvolgerà e distorcerà gravemente l’industria automobilistica globale e la catena di fornitura, compresa l’UE, e avrà un impatto negativo sulle relazioni economiche e commerciali Cina-UE.

Infatti, l’apertura della procedura di infrazione, nello stesso anno in cui è entrato in vigore il Foreign Subsidies Regulation, è stata considerata come correlata alla nuova politica dell’Unione europea di promuovere a livello globale la propria posizione di contrarietà alle sovvenzioni statali, anche all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Già nel 2017 Jean-Claude Junker dichiarò: “Non siamo ingenui liberi commercianti. L’Europa deve sempre difendere i propri interessi strategici.” In questi ultimi anni, la politica commerciale dell’Unione si è andata caratterizzando per una sempre maggiore assertività, tanto da essere soprannominata “autonomia strategica aperta”. Inoltre, la Cina non è più considerata solo come un partner ma anche un un “rivale sistemico”. L’Unione ha preso consapevolezza che la propria normativa interna sugli aiuti di Stato, quale il loro generale divieto contenuto nell’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), può diventare problematica in un contesto nel quale gli Stati terzi continuano a sovvenzionare le imprese. Pertanto, l’obiettivo dell’Unione è quello di mantenere il carattere di apertura del mercato unico ma allo stesso tempo proteggere le proprie imprese da pratiche distorsive di Stati terzi.

Notiamo tuttavia che il procedimento anti-sovvenzione in esame è stata aperto sulla base del preesistente regolamento (UE) 2016/1037, il quale è specificamente relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di sovvenzioni. Questo regolamento si inserisce all’interno della normativa relativa all’Organizzazione Mondiale del Commercio. A questo proposito, possiamo sicuramente richiamare l’Accordo sulle sovvenzioni e sulle misure compensative, il quale consente l’adozione di dazi compensativi come risposta a sovvenzioni specifiche. Queste misure possono risultare utili in casi come questo in quanto abbiamo dei beni che vengono importati nell’Unione europea. Tuttavia, questa normativa non riesce a coprire tutte le situazioni in cui vi possono esse distorsioni del mercato interno. In particolare, come recita il considerando 5 del regolamento 2022/2560, le misure compensative non risultano applicabili quando le sovvenzioni riguardano servizi o flussi finanziari o si presentano nella forma di investimenti sovvenzionati.             In conclusione, la procedura anti-sovvenzioni relativa ai veicoli elettrici a batteria si basa sì sul regolamento del 2016 che era maggiormente in linea con le norme dell’OMC ma si inserisce comunque nella nuova politica commerciale dell’Unione che ha portato all’approvazione del Foreign Subsidies Regulation. Resterà da vedere quali saranno le reazioni degli Stati terzi con la consapevolezza che potrebbero sorgere nuovi contrasti commerciali.

10. DICHIARAZIONI NON VERITIERE: PRIME APPLICAZIONI DEI PRINCIPI DEL RISULTATO E DELLA FIDUCIA NEL RINNOVATO CODICE DEGLI APPALTI a cura di Cristiana Traetta

Con sentenza depositata lo scorso 28 settembre n.2171 il TAR Lombardia ha rigettato un ricorso avverso un provvedimento di aggiudicazione di un appalto di forniture risalente al gennaio 2022. L’appalto aveva ad oggetto l’approvvigionamento di computers per il quale era stata indetta una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando.

La società classificata al secondo posto sosteneva che la scelta per l’aggiudicazione in favore della società vincitrice fosse dipesa da una falsa dichiarazione presentata dalla stessa tra le c.d. documentazioni giustificative, ossia quelle utilizzate dalle s.a. in sede di verifica di congruità delle offerte.            In particolare la ricorrente chiede l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione perché secondo questa adottato in violazione dell’art. 80 lett. f-bis) del d. lgs. 50/2016, il quale impone l’esclusione dell’operatore economico che presenti dichiarazioni o documentazioni non veritiere; in secondo luogo, lamenta l’asserita violazione dell’art. 97 del codice, per non avere la s.a. effettuato alcuna verifica di congruità o calcolo di soglia di anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria. Entrambi i motivi di gravame sono rigettati dal Tribunale.

Partendo dalla doglianza circa la mancata attività di verifica occorre fare delle premesse. L’art. 5 del Disciplinare di Gara redatto dalla s.a. classifica alcuni dei documenti che vanno presentati nell’offerta come necessari a pena di esclusione ed altri come opzionali in quanto, alla luce dell’art. 5 comma 8 dello stesso disciplinare, meramente eventuale è la fase che ne richiederebbe l’utilizzo. Ci si riferisce in particolare alla verifica della congruità delle offerte, subprocedimento volto a valutare l’anomalia delle stesse. È dato riscontrare che quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso (art. 95 comma 4 d. lgs. 50/2016) come nella vicenda in esame, si pone con maggiore evidenza la problematica circa l’attendibilità e la serietà dell’offerta.

Il giudice, tuttavia, rigetta tale obiezione in quanto non era configurabile in capo all’aggiudicatrice un obbligo di procedere alla verifica. Si rileva infatti che l’Amministrazione ha discrezionalmente fissato quale condizione affinché la stazione appaltante proceda all’attività di verifica di congruità, l’ammissione di offerte per un numero pari o superiori a 5. Posto che nel caso in esame le offerte ammesse erano 3, nessun obbligo è stato violato. Anche la rimostranza circa il mancato espletamento di una verifica facoltativa viene rigettata. Non è dato riscontrare secondo il giudice elementi specifici dai quali desumere l’erroneità della mancata verifica. Il TAR infatti ricorda che “secondo pacifico indirizzo giurisprudenziale condiviso dalla Sezione, la scelta di procedere ad una verifica anche facoltativa di anomalia costituisce manifestazione di discrezionalità dell’Amministrazione, censurabile davanti al giudice amministrativo soltanto in caso di evidenti errori o di palese illogicità” (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, Sezione VII, sentenza n. 9280/2022 e TAR Lombardia, Milano, Sezione IV, sentenza n. 650/2018). Sempre secondo il Tribunale neppure potrebbe sostenersi che a fronte della presentazione volontaria di documenti facoltativi sorga un obbligo della s.a. di procedere alla verifica in ogni caso; infatti tale adempimento obbedisce soltanto ad esigenze di speditezza dell’azione amministrativa nei casi di effettivo ricorso all’attività e la soluzione prospettata dalla ricorrente si porrebbe in contrasto con le esigenze di efficienza, efficacia e tempestività della condotta dell’Amministrazione in materia di contratti pubblici.

Per quanto attiene al motivo di gravame fondato sulla pretesa falsità del documento su cui si sarebbe basata la decisione di aggiudicazione, come riportato sopra, la documentazione in questione rientra fra quelle classificate dal Disciplinare quale meramente facoltativa, ma nonostante questo la società aveva deciso di presentarla. Essa consiste nella dichiarazione del rappresentante della società vincitrice con la quale giustificava lo sconto praticato. In particolare l’aggiudicataria avrebbe potuto praticare uno sconto del 26,60% alla s.a. sulla base di quello a lei applicato da altra società partner (28%). La ricorrente sostiene che le due società non siano partners e che quindi la società aggiudicataria non potrebbe nella realtà applicare il prezzo indicato. 

Il giudice ribadisce l’eventualità dello svolgimento della fase di verifica, la quale non essendosi esplicata ha comportato che il documento presunto falso non fosse proprio preso in considerazione dalla s.a. e non ha potuto in alcun modo influire sulla decisione, che è stata effettuata tenendo in considerazione soltanto il prezzo più basso proposto. Afferma dunque il TAR “Laddove un documento, peraltro meramente facoltativo, non ha inciso in nessun modo sulla determinazione finale di affidamento della stazione appaltante, l’ipotetica falsità del medesimo non può certo determinare l’illegittimità dell’aggiudicazione.” Viene così ritenuta legittima l’aggiudicazione dando prevalenza al risultato comunque raggiunto, che non risulta, agli occhi del giudicante, in alcun modo compromesso vista la regolare esecuzione della procedura. A sostegno della decisione poi aggiunge che essa pare pienamente rispettosa dei principi fondamentali della contrattualistica pubblica previsti dal vigente D.lgs. n. 36/2023, ancorché la gara di cui è causa sia regolata dal D.lgs. n. 50/2016; in particolare si tratta dei principi del risultato e della fiducia di cui agli articoli 1 e 2 del nuovo codice dei contratti pubblici.

I principi introdotti in apertura del nuovo codice impongono un nuovo modo di atteggiarsi tanto delle stazioni appaltanti nelle diverse fasi in cui sono scandite le procedure di evidenza pubblica, quanto del giudice amministrativo in sede di contenzioso. La loro codificazione, infatti, secondo quanto riportato nella Relazione del Consiglio di Stato al Codice, risponde alla volontà di favorire una più ampia autonomia e discrezionalità delle stazioni appaltanti in un settore in cui spesso la normativa dettagliata e rigida ha generato ritardi ed inefficienze, vincolando eccessivamente il loro modus operandi. Dal lato del giudice invece, questi si porrebbero quali canoni ai quali rivolgersi in tutte quelle ipotesi di incertezze interpretative ai fini della migliore decisione per il caso concreto. Egli viene dotato così di “attrezzi del mestiere” grazie ai quali adattarsi alle specificità della realtà contingente, di cui la legge per natura non può tener conto.  Concludendo il TAR adotta una soluzione sulla base di una ricostruzione logico-giuridica coerente con la nuova disciplina dei contratti pubblici, della quale emerge il rinnovato spirito. Su questa scia sembra pronunciarsi nel senso di una quasi irrilevanza della eventuale falsità della documentazione facoltativa a fronte di un risultato che sarebbe stato comunque quello conseguito. Non si sceglie più di sacrificare la migliore soluzione, i tempi, per l’irrinunciabile e assoluta salvaguardia della correttezza procedurale nei suoi minimi dettagli. Conformemente al dettato dell’art. 4 dello stesso codice che eleva i principi del risultato e della fiducia di cui agli artt. 1 e 2 quali criteri interpretativi ed applicativi di tutta la normativa, il giudice si lascia guidare dalle esigenze di efficacia, efficienza e tempestività dell’azione amministrativa. Valorizza quello spazio di libera valutazione che dovrebbe consentire ai funzionari di realizzare l’obiettivo nel miglior interesse per la collettività e senza dispendio di eccessivo tempo. Infatti, alla luce del secondo comma dell’art. 2, “il principio della fiducia favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato”.

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