26/06/2023
Indice:
1. PROJECT FINANCING, L’AGGIUDICATARIO NON PUO’ COSTITUIRE UNA SOCIETA’ DI PROGETTO PARTECIPATA AL 99% DA UN SOGGETTO TERZO (CONS. STATO, SEZ. V, 18 APRILE 2023, N. 3886) a cura di Antonio Iuliano
2. IL CONTROLLO DELLA CORTE DEI CONTI SUL P.N.R.R E LE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE a cura di Elena Valenti
3. UN NUOVA SFIDA PER L’ECONOMIA CIRCOLARE: LA PROPOSTA DI REGOLAMENTO SUGLI IMBALLAGGI a cura di Giulia Moscaroli
4. IMBALLAGGI E CONTRIBUTO AMBIENTALE: UN CHIARIMENTO DALLA CASSAZIONE a cura di Andrea Nardone
5. RAPPORTO TRA CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI E CODICE DEL TERZO SETTORE – LE NOVITÀ INTRODOTTE DAL NUOVO ART. 6 IN AMBITO DI AMMINISTRAZIONE CONDIVISA a cura di Beatrice Tabacco
1. PROJECT FINANCING, L’AGGIUDICATARIO NON PUO’ COSTITUIRE UNA SOCIETA’ DI PROGETTO PARTECIPATA AL 99% DA UN SOGGETTO TERZO (CONS. STATO, SEZ. V, 18 APRILE 2023, N. 3886) a cura di Antonio Iuliano
Lo scorso 18 aprile, con sent. 3886/2023, la Quinta sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata circa la legittimità della cessazione di una concessione, per modifica sostanziale del contratto sotto il profilo soggettivo, a seguito della costituzione di una società di progetto partecipata al 99% da un soggetto terzo.
E’ bene sin da subito precisare come la sentenza ne sostenga la legittimità, ma partiamo dai fatti.
Il 29 dicembre 2017 il Comune di Angri affidava, mediante procedura di Project financing, alla Fenix Consorzio Stabile s.c. a r.l. la concessione del servizio di progettazione, realizzazione e gestione dell’intervento di adeguamento dell’impianto di illuminazione comunale.
Pochi giorni dopo la Fenix comunicava al comune di Angri la costituzione di una società di scopo, la Angri illuminazioni s.r.l., partecipata al 99% dalla Mirca s.r.l., soggetto terzo neppure facente parte del Consorzio; costituzione di cui l’ente comunale prendeva atto per poi agire mesi dopo (30 novembre 2018) annullando in autotutela la precedente presa d’atto e richiedendo il rispetto delle previsioni contrattuali.
Dopo aver richiesto apposito parere all’ANAC, che confermava l’illegittimità della situazione in essere (parere 25211 del 26 marzo 2019), il Comune di Angri, il 5 settembre 2019, adottava una determina dirigenziale di risoluzione del contratto, alla luce, oltre che di una serie di inadempimenti del concessionario, della costituzione di una società di progetto partecipata al 99% da un soggetto terzo e dunque della modifica sostanziale del contratto sotto il profilo soggettivo.
Fenix e Angri Illuminazione proponevano ricorso -respinto- dinanzi al TAR Campania, sez. staccata di Salerno, per poi proporre appello avverso la sentenza resa in primo grado dinanzi al Consiglio di Stato.
Per quanto qui d’interesse, i ricorrenti lamentavano l’assenza di modifiche sostanziali alle condizioni contrattuali -sostenendo di aver immediatamente estromesso la Mirca a seguito dell’annullamento in autotutela della presa d’atto- e dunque l’illegittimità della determina di risoluzione.
Il Consiglio di stato ritiene infondati i motivi addotti dai ricorrenti in quanto è da ritenersi pienamente integrata la fattispecie di cui all’art. 176, co. 1, lett. c) del d. lgs. 50/2016, a nulla rilevando la successiva estromissione della Mirca s.r.l., essendo ormai già perfezionata la fattispecie decadenziale.
La disposizione in questione prevede, infatti, che la concessione possa cessare in caso di modifiche che avrebbero richiesto una nuova procedura di aggiudicazione ai sensi dell’art. 175, co. 8, norma che, a sua volta, recita “Una nuova procedura di aggiudicazione è richiesta per modifiche delle condizioni di una concessione durante il periodo della sua efficacia diverse da quelle previste ai commi 1 e 4”.
Orbene, nel caso di specie si è ben al di fuori dalle ipotesi di cui ai commi 1 e 4, difatti il co. 1 , lett. d), che disciplina le modifiche soggettive della concessione, limita l’ammissibilità della stesse a casi tassativi, riconducibili alla presenza di una clausola di revisione, a fenomeni successori, ovvero all’assunzione, da parte della stazione appaltante, degli obblighi del concessionario nei confronti dei subappaltatori.
Del resto, aggiunge il Consiglio di stato, l’art. 175, co. 7, lett. d) prevede che la modifica di una concessione debba considerarsi sostanziale se un nuovo concessionario sostituisce l’iniziale aggiudicatario nei casi diversi da quelli previsti dal co. 1, lett. d).
La sentenza rileva, inoltre, che se è vero che il concessionario ben poteva costituire una società di progetto, così come previsto da specifiche disposizioni normative, “tale regime non può tuttavia divenire strumento per superare o eludere i presidi posti dalla normativa, anche europea, a tutela della concorrenza e della qualità dei servizi pubblici” (in tal senso v. anche Consiglio di Stato, sez. III, 5294/2017).
Non a caso, l’art. 184, co. 3 del d. lgs. 50/2016 stabilisce che i soci che concorrono a formare i requisiti per la qualificazione sono tenuti a partecipare alla società e a garantire il buon andamento degli obblighi del concessionario sino alla data di emissione del certificato di collaudo dell’opera.
Il consiglio di stato conclude, dunque, che non è possibile ammettere, con una costituzione esternalizzante, la rimodulazione dell’affidamento in favore di soggetti diversi dagli aggiudicatari che hanno prestato i requisiti di qualificazione e che la partecipazione al 99% di un diverso soggetto può ben essere fatta valere quale causa di cessazione della concessione ex art. 176, co. 1, lett. c).
Non banale, anche per le novità recentemente introdotte dal d. lgs. 36/2023 (di cui infra), è la precisazione per cui il possibile ingresso nel capitale sociale della società di progetto da parte di banche e investitori istituzionali ha rilievo ai fini esclusivamente finanziari, escludendo che per tale via possano modificarsi gli aspetti societari e l’esecuzione delle prestazioni.
La pronuncia in oggetto sancisce un importante principio in materia. Va detto che nel caso di specie la partecipazione del soggetto terzo era talmente consistente (99%) da lasciare poco spazio a dubbi circa l’effettiva portata di tale partecipazione (a maggior ragione ove si aggiungano -come in effetti era in questo caso- una serie di elementi indiziari idonei a rappresentare l’effettivo contributo operativo); così non sarebbe stato in caso di quote inferiori.
In casi del genere, in assenza di specifiche disposizioni normative, sarebbe da preferirsi un’interpretazione che ancora una volta guardi alla ratio e alla sostanza delle previsioni normative in materia, e in particolar modo al buon andamento cui fa riferimento l’art. 184 e alla tutela della concorrenza.
Come sappiamo, nel frattempo, è entrato in vigore il nuovo Codice dei contratti pubblici (d. lgs. 36/2023) che ha introdotto novità anche in materia di concessioni e finanza di progetto, in primis da un punto di vista sistematico.
Per ciò che qui interessa, non si parla più di cessazione della concessione bensì soltanto di risoluzione(e recesso) della stessa, tuttavia si può facilmente rilevare come la disciplina relativa alle modifiche contrattuali durante il periodo di efficacia e della cessazione/risoluzione della concessione resti sostanzialmente invariata.
Tutte le disposizioni del d. lgs. 50/2016 precedentemente citate -eccetto l’art. 175, co. 8- sono state trasposte nel nuovo codice, in particolare: l’art. 176, co. 1, lett. c) nell’art. 190, co. 1., lett. a); l’art. 175, co. 1 e 4 nell’art. 189, co. 1 e 2; l’art. 175, co. 7, lett. d) nell’art. 189, co. 4, lett. d); l’art. 184, co. 3 nell’art. 194, co. 3.
La mancata riproposizione della disposizione di cui all’art. 175, co. 8 è da considerarsi irrilevante, la stessa infatti era ridondante, giacché l’art. 175 co. 1 e 4 del d. lgs. 50/2016 prima e l’art. 189 co. 1 e 2 del d. lgs. 36/2023 dopo, prevedendo i casi in cui non è necessaria una nuova procedura di aggiudicazione lasciano chiaramente intendere, a contrario, come negli altri casi sia necessaria.
Meritano di essere segnalate, infine, le novità in materia di partecipazione a operazione di project financing da parte di investitori istituzionali.
L’art. 193 del nuovo Codice dei contratti pubblici prevede che anche questi soggetti possano presentare proposte relative alla realizzazione in concessione di lavori o servizi, ferma restando la necessità, nella successiva gara, qualora ne siano privi, di associarsi o consorziarsi con operatori economici in possesso dei requisiti economici, finanziari, tecnici e professionali previsti dal bando, anche avvalendosi integralmente della capacità di altri soggetti. Possono altresì impegnarsi a subappaltare, anche integralmente, le prestazioni oggetto della concessione a imprese in possesso dei requisiti richiesti dal bando, a condizione che il subappaltatore sia comunicato entro la scadenza del termine per la presentazione delle offerte. Oltre alla portata innovatrice della disposizione in questione, merita di essere evidenziato come, anche in questo caso, l’affidamento dell’esecuzione delle prestazioni oggetto di concessione a soggetti terzi debba avvenire entro il termine di presentazione delle offerte, ciò a conferma della impossibilità di rimodulare, una volta che la gara sia aggiudicata, l’affidamento in favore di soggetti diversi dagli aggiudicatari.
2. IL CONTROLLO DELLA CORTE DEI CONTI SUL P.N.R.R E LE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE a cura di Elena Valenti
Nel complesso ed articolato sistema delle attribuzioni della Corte dei conti deve essere ora annoverata la funzione di controllo assegnata nell’ambito della disciplina della governance del PNRR.
Il legislatore nel dettare la governance del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha fatto riferimento al generale strumento del controllo successivo sulla gestione aggiungendo tuttavia alcune ulteriori disposizioni. Il decreto-legge n. 77 del 2021, infatti, prevede un articolato sistema di controllo, audit, anticorruzione e trasparenza in cui è decisivo il controllo sulla gestione svolto dalla Corte dei conti, incaricata delle valutazioni di economicità, efficienza ed efficacia circa l’acquisizione e l’impiego delle risorse finanziarie provenienti dai fondi del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza. Tale controllo si svolge in cooperazione e coordinamento con la Corte dei conti europea. La Corte dei conti è anche chiamata a riferire al Parlamento con una frequenza almeno semestrale sullo stato di attuazione del PNRR. Lo stesso decreto-legge n. 77 del 2021, peraltro, ha ribadito che gli atti, i contratti ed i provvedimenti di spesa adottati dalle amministrazioni per l’attuazione degli interventi del PNRR sono sottoposti ai controlli ordinari di legalità e ai controlli amministrativo contabili previsti dalla legislazione nazionale applicabile. In estrema sintesi, si può dire che nell’ambito della realizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza saranno sostanzialmente coinvolte tutte le funzioni di controllo della Corte dei conti previste dalla Costituzione, con riguardo sia al controllo preventivo e successivo.
A questi si aggiunge il controllo concomitante. L’obiettivo di tale controllo è quello di intervenire durante l’attuazione di un piano, programma o progetto, esercitando una azione acceleratoria e propulsiva dell’azione amministrativa e assicurando al contempo un corretto impiego delle risorse pubbliche
In data 31 marzo 2022 le sezioni riunite della Corte dei Conti hanno pubblicato la prima Relazione sullo stato di attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza, all’interno della quale si sottolinea che il biennio 2021- 2022 «ha rappresentato un banco di prova interessante per esaminare la capacità del settore delle costruzioni di raggiungere livelli produttivi più elevati, e le dinamiche dei mercati internazionali segnalano come il comparto si approssimi alla saturazione della capacità produttiva, necessitando esso stesso di investimenti e allargamento della base produttiva per tenere il passo degli obiettivi ambiziosi del Piano».
Al fine di raggiungere gli obiettivi previsti dal Piano il legislatore ha previsto diverse semplificazioni tra le quali è utile mettere in evidenza la deroga prevista per i procedimenti di affidamento dei contratti, artt. 1 e 2 del d.l. n. 76/2020, la deroga alle competenze ordinarie previste dalla legge per la gestione di determinati procedimenti fa al fine di una maggior centralizzazione delle decisioni (si pensi alle figure dei comitati istituiti ad hoc), e infine il regime di favore previsto in tema di responsabilità amministrativa per danno erariale. L’elemento acceleratorio è stato rinvenuto, come è largamente noto, sul presupposto che la prospettiva di una responsabilità collegata alla propria condotta, posta in essere in violazione di norme, costituisca un “freno” all’agente nell’operare in applicazione della normativa di favore. Il meccanismo su cui si fonda la tenuta del regime di favore, volto al raggiungimento degli obiettivi previsti dal Piano, è individuato dal legislatore nell’incremento del sistema dei controlli.
Ciò risulta non solo dalle previsioni che introducono nuove fattispecie che legittimano l’avocazione, o controlli di tipo sostitutivo, con i quali si intende ovviare ad una disfunzione del sistema quale l’inerzia dell’agente a cui spetta di provvedere (si pensi alla legittimazione dei commissari ad acta individuati dalla Cabina di regia di cui all’art. 2 del d.l. n. 77/2021) ma, soprattutto, dall’introduzione del controllo concomitante.
Il controllo concomitante si fonda sulla verifica costante “in tempo reale” del raggiungimento degli obiettivi prefissati. Tale forma di controllo risulta essere una novità per l’amministrazione.
La scelta del legislatore risulta dunque volta a rafforzare il controllo della Corte dei conti nella fase attuativa del piano.
In estrema sintesi può essere affermato che il legislatore nazionale ha inteso disegnare le attribuzioni della Corte dei conti in tema di attuazione del PNRR, alla stregua di un trait d’union tra “apparato amministrativo” e Parlamento, onde assicurare il fluido ed aggiornato monitoraggio dell’azione di Governo.
Il controllo concomitante non è esente da rischi. Esso, inserendosi nella fase attuativa del piano, potrebbe rallentare l’esecuzione degli interventi e rappresenterebbe una duplicazione del controllo della Commissione Europea,
I controlli della Corte dei conti devono rimanere ancorati a quanto disciplinato dal decreto-legge sulla governance del PNRR, che prevede una forma di controllo non in corso d’opera, bensì successiva, al fine di evitare una duplicazione e un conseguente rallentamento della fase attuativa.
Il controllo concomitante coincide con una cogestione che va ben al di là delle competenze che la Costituzione per il tramite dell’art. 100 attribuisce alla Corte dei conti.
Tali problemi hanno quindi comportato che il controllo concomitante sia ora oggetto di revisione per il tramite del decreto-legge del 5 giugno 2023 n. 44 rubricato “Potenziamento delle amministrazioni pubbliche” il quale introduce misure volte nel complesso a garantire il rafforzamento delle amministrazioni pubbliche.
Il decreto prevede la cancellazione del «controllo concomitante» della Corte dei conti sugli atti delle pubbliche amministrazioni con l’esclusione dal perimetro dei piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale, di quelli previsti o finanziati dal PNRR e di quelli del Piano nazionale per gli investimenti complementari.
Non è da escludere un possibile ricorso della Corte dei conti alla Consulta per sollevare l’illegittimità costituzionale del provvedimento.
A questo punto, occorre chiedersi se il ruolo delle società partecipate quotate nell’ambito dei processi di attuazione del PNRR si coordini con le funzioni di controllo che l’ordinamento ha conferito alla Corte dei conti in tema di attuazione del PNRR.
Dall’art. 9 del decreto-legge del 31 maggio 2021, n. 77 si desume che le società a partecipazione pubblica riconducibili alla tipologia di “società quotate” alla stregua dell’art. 2, comma 1 del TUSP possono essere coinvolte nella attuazione degli interventi previsti dal piano, in qualità di collaboratori esterni, ai sensi dell’art 9. comma 1.
La norma non è puntuale nel definire le modalità di individuazione dell’«attuatore» esterno se non nel caso in cui sia indicato dallo stesso PNRR, facendo riferimento generico a “le modalità previste dalla normativa nazionale ed europea vigente”.
Tuttavia, una serie di disposizioni contenute nel decreto-legge n.77/2021 rende evidente che il riferimento è nelle linee generali dell’attività amministrativa che rinvengono la loro sede fondamentale nella l. 7 agosto 1990, n. 241 il cui art. 1, co. 1 ter, vincola i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative ad assicurare “il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni”.
Dal che deve anche desumersi che vincoli operativi dei soggetti attuatori terzi nell’ambito del PNRR sono fisiologicamente riconducibili alle generali regole di garanzia desumibili dalla legge nazionale n. 241 del 1990 e dalla normativa europea vigente e non anche da norme del TUSP, non espressamente applicabili alle società quotate.
Le regole generali di tale controllo, tracciate nel medesimo art. 9, ai commi 3, 3 bis, e 4, testualmente dispongono che gli atti, i contratti ed i provvedimenti di spesa adottati dalle amministrazioni per l’attuazione degli interventi del PNRR sono sottoposti ai controlli ordinari di legalità e ai controlli amministrativo-contabili previsti dalla legislazione nazionale applicabile. I controlli di cui al comma 3 sono espletati anche nei casi di cui all’articolo 50, comma 3, ovvero nei casi di esecuzione anticipata di cui all’articolo 32, commi 8 e 13, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50. Le amministrazioni di cui al comma 1 assicurano la completa tracciabilità delle operazioni e la tenuta di un’apposita codificazione contabile per l’utilizzo delle risorse del PNRR secondo le indicazioni fornite dal Ministero dell’economia e delle finanze. Conservano tutti gli atti e la relativa documentazione giustificativa su supporti informatici adeguati e li rendono disponibili per le attività di controllo e di audit.
Sembra chiaro, dunque, che soggetti passivi del controllo della Corte dei conti sono sempre le amministrazioni competenti per l’attuazione del Piano – istituzionalmente o in quanto da questo individuate – e non anche i soggetti terzi eventualmente coinvolti nel processo attuativo, previa apposita convenzione.
Le disposizioni del T.U.S.P e quelle del PNRR operano in ambiti differenti, senza che la tipologia di controllo della Corte interferisca sul regime contemplato dal Testo Unico, per la tipologia delle partecipate quotate.
A tali conclusioni deve pervenirsi, sebbene si registri una qualche tendenza dottrinale a ritenere che il T.U. abbia mantenuto in vigore l’ibrida sopravvivenza, nella esternalizzazione, di una propaggine dell’«amministrazione pubblica» in aperto contrasto con gli obiettivi del Testo unico.
Invero a parte la disposizione dell’art. 1, co. 3, T.U. che chiaramente individua, nella società a partecipazione pubblica, un soggetto giuridico “terzo”, del tutto distinto dal socio pubblico partecipante e a riflessione ulteriore induce l’esame del comma 5 del medesimo art. 1, in correlazione con la tipologia che lo stesso art. 1, co, 4, lett. a) esclude del tutto dall’ambito di applicazione del Testo Unico.
Ciò implica, infatti l’individuazione, nelle “quotate”, di un genus del tutto differente, in cui è proprio la particolare situazione nel mercato a indurre la disciplina di favore contenuta nel Testo Unico (che mal si concilierebbe con la sopravvivenza del controllo della Corte dei conti, oltre la soglia del momento genetico della quotazione o dell’acquisto di partecipazioni in società quotate, che comporti l’acquisto dello status di socio).
Per finire, un ruolo non indifferente (per escludere, in capo alle quotate, la sopravvivenza si disposizioni legislative o statutarie incompatibili con la regolamentazione) deve essere riconosciuto alla disposizione che, nel Testo Unico individua le Amministrazioni pubbliche facendo riferimento alle “amministrazioni indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, i loro consorzi o associazioni per qualsiasi fine istituiti, gli enti pubblici economici e le autorità di sistema portuale”. La norma, infatti, sembra escludere in radice una qualche residuale coincidenza, nelle società a partecipazione pubblica quotate, delle connotazioni pubblicistiche degli organismi dai quali, in ipotesi, hanno tratto origine.
3. UN NUOVA SFIDA PER L’ECONOMIA CIRCOLARE: LA PROPOSTA DI REGOLAMENTO SUGLI IMBALLAGGI a cura di Giulia Moscaroli
Il 30 novembre 2022 la Commissione Europea ha presentato una proposta di Regolamento al fine di aggiornare il quadro legislativo europeo sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio. Attualmente, infatti, la materia è disciplinata dalla direttiva 94/62/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio.
Gli imballaggi sono fondamentali per proteggere i prodotti e facilitarne il trasporto dal luogo di produzione a quello di utilizzo e di consumo. Essi, tuttavia, richiedono grandi quantità di materiali vergini e costituiscono circa il 36% dei rifiuti solidi urbani.
Le sempre maggiori quantità di imballaggi prodotti, unite a una bassa percentuale di riutilizzo e riciclaggio, rappresentano un notevole ostacolo alla transizione verso un’economia circolare a basse emissioni di carbonio.
La proposta oggetto di analisi, pienamente in linea con la legislazione europea in materia di ambiente e di rifiuti (in particolare, con la direttiva 2008/98/CEE relativa ai rifiuti), ha lo scopo di creare condizioni armonizzate per l’immissione sul mercato degli imballaggi. Il mercato degli imballaggi infatti costituisce, per molti aspetti, un unico grande mercato, stante l’elevato livello di scambi tra gli Stati membri.
La legislazione vigente, nonostante le misure concrete adottate, si è rivelata inidonea al raggiungimento dei suoi obiettivi, poiché i diversi approcci nazionali nel recepimento della direttiva 94/62/CE e le misure unilaterali adottate da alcuni Stati membri hanno portato a quadri normativi nazionali disomogenei, riducendo così l’efficacia della politica comunitaria.
Innovativo è quindi lo strumento normativo proposto. Il regolamento, in luogo della direttiva, assicurerà infatti che tutti i ventisette Stati adempiano agli obblighi imposti con gli stessi tempi e le stesse modalità, garantendo la necessaria certezza del diritto e riducendo le distorsioni della concorrenza.
La scelta dello strumento del regolamento è stata, tuttavia, oggetto di critiche da parte di alcuni Stati membri, tra i quali l’Italia. Secondo il parere della Commissione politiche europee del Senato, espresso il 19 aprile 2023, il regolamento lascia poco spazio ai singoli Stati nella definizione dei modelli e degli strumenti da adottare per il raggiungimento degli obiettivi posti. Tale scelta rischia, quindi, di penalizzare il nostro Paese che, sul fronte della gestione degli imballaggi, vanta risultati notevoli, posizionandosi al primo posto fra i grandi Stati europei per riciclo pro-capite dei materiali di imballaggio.
L’obiettivo generale della proposta legislativa è la riduzione dell’impatto ambientale negativo degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, soprattutto attraverso la promozione dell’uso di contenuto riciclato negli imballaggi.
Per quanto concerne le singole disposizioni della proposta, il Regolamento si apre con alcune disposizioni generali (Capo I). Esso trova applicazione per tutti gli imballaggi, indipendentemente dal materiale utilizzato, e per tutti i rifiuti di imballaggio, prescindendo dal contesto in cui sono utilizzati o da cui provengono (art. 2).
Costituiscono «imballaggio» ai fini del Regolamento gli «articoli di qualsiasi materiale destinati a essere utilizzati per contenere e proteggere prodotti e consentirne la manipolazione, la consegna o la presentazione e che possono essere differenziati in formati di imballaggio in base alla funzione cui sono adibiti, al materiale di cui sono composti e alla loro progettazione» (art. 3, n. 1).
Sono poi previste alcune disposizioni in materia di sostenibilità per gli imballaggi (Capo II), le quali prescrivono una restrizione del livello di concentrazione di talune sostanze pericolose presenti negli imballaggi, come il piombo, il cadmio, il mercurio e il cromo esavalente (art. 5).
Il Regolamento impone che tutti gli imballaggi siano riciclabili. In particolare, un imballaggio è considerato riciclabile solo se conforme alle prescrizioni previste dall’art. 6, che richiede che esso sia progettato per essere riciclato, sia oggetto di raccolta differenziata efficace ed efficiente, sia smistato in flussi di rifiuti senza compromettere la riciclabilità di altri flussi e possa essere riciclato su larga scala.
Ai sensi dell’art. 7, gli imballaggi di plastica, a partire al 1° gennaio 2030, dovranno contenere una percentuale minima di contenuto riciclato recuperato da rifiuti di plastica post-consumo. La percentuale inizialmente prevista dovrà comunque aumentare entro il 1° gennaio 2040. Questa disposizione è stata oggetto di analisi nel documento redatto il 12 maggio 2023 dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome, la quale ha richiesto che l’obbligo del contenuto minimo di riciclato per gli imballaggi in plastica sia allargato anche al vetro e ai metalli, specialmente all’alluminio.
Gli imballaggi, in ogni caso, devono essere concepiti, progettati e immessi nel mercato con l’obiettivo di essere riutilizzati o nuovamente riempiti senza subire danni che ne impedirebbero il riutilizzo (art. 10). Tale prescrizione è senz’altro in linea con l’obiettivo di transizione verso un’economia circolare, la quale esige un nuovo approccio di c.d. eco-progettazione, per cui la progettazione dei beni considera i potenziali impatti ambientali degli stessi sin dal momento della produzione. L’economia circolare, quindi, postula una progettazione attenta al c.d. costo ambientale, passando dalla prospettiva di breve periodo a quella di lungo periodo.
Affinché il pubblico possa essere informato delle caratteristiche dei prodotti acquistati, il Capo III prevede diverse disposizioni in materia di etichettatura e marcatura. Le etichettature ambientali, infatti, sono gli strumenti che promuovono più elevati standard di tutela dell’ambiente facendo leva sulla sempre crescente sensibilità dei consumatori verso la questione ambientale. Gli imballaggi devono quindi essere contraddistinti da un’etichetta contente tutte le informazioni sui materiali che li compongono, nonché sulla loro riutilizzabilità (art. 11). L’etichetta apposta deve essere visibile, chiaramente leggibile e indelebile.
Alcune disposizioni (Capo V) sono poi specificamente dedicate al consumo annuale di borse di plastica in materiale leggero, il quale non potrà superare le quaranta unità a persona.
Il Regolamento impone agli Stati membri di nominare un’autorità competente per l’attuazione e l’applicazione degli obblighi in materia di utilizzo e ricarica previsti per i diversi settori e formati di imballaggio (art. 35). Esso prescrive altresì a ciascuno Stato di ridurre progressivamente i rifiuti di imballaggio generati, rispetto ai livelli del 2018, del 5% entro il 2030, del 10% entro il 2035 e del 15% entro il 2040 (art. 38).
Gli Stati dovranno poi istituire un registro al fine di monitorare il rispetto delle prescrizioni previste dal Regolamento da parte dei produttori di imballaggi (art. 39).
L’art. 50 impone agli Stati una rendicontazione periodica alla Commissione, attraverso le comunicazioni, per ogni anno civile, relative al conseguimento degli obiettivi di riciclaggio, agli imballaggi immessi sul mercato e al consumo di borse di plastica in materiale ultraleggero, leggero e pesante.
La proposta è all’esame della Commissione ambiente del Parlamento europeo dal 4 maggio 2023.
Parallelamente alla proposta di Regolamento, la Commissione ha approvato anche la comunicazione Quadro politico dell’UE sulla plastica a base biologica, biodegradabile e compostabile, con l’obiettivo di migliorare la comprensione di questi materiali e di chiarire i possibili benefici reali all’ambiente delle plastiche.
Dai menzionati provvedimenti comunitari emerge la sempre più pressante esigenza di conseguire l’effettiva transizione verso un modello di economia circolare, con un mutamento di paradigma e di metodo rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati. La sfida dell’economia circolare, infatti, attiene alla ricerca di modelli di sviluppo idonei a conservare le risorse naturali, così dando piena attuazione al principio di prevenzione, il quale ispira l’intera normativa in materia ambientale. Gli imballaggi rappresentano senz’altro una delle principali preoccupazioni ambientali, poiché spesso non sono riciclabili o, pur essendo tecnicamente riciclabili, i processi di raccolta e riciclaggio non sono disponibili o efficienti. Solamente attraverso un effettivo riutilizzo e riciclo dei materiali contenuti negli imballaggi si potrà, quindi, ridurre l’utilizzo delle risorse naturali e raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, parte integrante del Green Deal europeo.
4. IMBALLAGGI E CONTRIBUTO AMBIENTALE: UN CHIARIMENTO DALLA CASSAZIONE a cura di Andrea Nardone
Con la recente sentenza n. 12458 del 18 maggio 2023 la Suprema Corte di Cassazione, III Sezione civile, ha reso un importante chiarimento sulla latitudine del concetto di “imballaggio” ai fini dell’applicazione del contributo ambientale CONAI previsto dal c.d. Codice dell’Ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).
Giova all’uopo premettere alcuni cenni sul ruolo del CONAI, ovvero del Consorzio Nazionale Imballaggi. Tale consorzio, che ha personalità giuridica di diritto privato e non presenta fini di lucro, è stato istituito con legge 5 febbraio 1997, n. 22; oggi esso trova disciplina in particolare agli articoli 221 e 224 del Codice dell’Ambiente. Lo scopo statutariamente previsto del CONAI è quello di riunire le imprese produttrici e utilizzatrici di imballaggi, al fine di regolamentare le fasi del ciclo di vita di questi ultimi all’insegna del principio di corresponsabilità.
Ai sensi dell’art. 224, comma 3, lett. h) del Codice dell’Ambiente, il meccanismo di finanziamento del CONAI si fonda sulla ripartizione, tra i diversi produttori e utilizzatori di imballaggi, del corrispettivo per i maggiori oneri dovuti per la raccolta differenziata, per il riciclaggio e per il recupero dei rifiuti di imballaggi, nonché per la gestione stessa del Consorzio. A tal fine il CONAI, con le modalità previste dal suo Statuto (cfr. art. 14), determina e pone a carico dei consorziati un apposito contributo ambientale.
Il CONAI, inoltre, dispone di poteri di vigilanza sulla corretta applicazione del contributo ambientale. È evidente, in effetti, che l’omesso versamento del contributo da parte di un produttore o di un utilizzatore di imballaggi non solo si traduce nella privazione di risorse da destinare alla tutela dell’ambiente, ma garantisce altresì a quella singola impresa un indebito vantaggio competitivo, ledendo di tal guisa la tutela della concorrenza. È proprio nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza che nel 2009 il CONAI ha citato in giudizio una società per ottenere la condanna della medesima al versamento del contributo ambientale in relazione ad alcuni beni da ella prodotti o ceduti, dando avvio al contenzioso terminato ora innanzi alla Corte di Cassazione.
La questione centrale da dirimere per la Corte della Nomofilachia era dunque se, a mente della definizione di cui all’art. 218, comma 1, lett. a) del Codice dell’Ambiente, potessero essere fatti rientrare tra gli «imballaggi», così divenendo presupposto per l’applicazione del contributo, anche taluni grandi contenitori che erano destinati alla raccolta, movimentazione, lavorazione e immagazzinaggio di prodotti ortofrutticoli all’interno del ciclo produttivo agricolo, pur rimanendo tuttavia estranei al circuito commerciale e di vendita del prodotto ortofrutticolo. In altre parole, la Corte di Cassazione era chiamata a stabilire se la nozione di imballaggio dovesse essere intesa avendo riguardo alla destinazione intrinseca del contenitore, e dunque sulla base della «funzione del contenere e proteggere», ovvero se a rilevare fosse piuttosto la funzione del contenuto, e cioè la destinazione della cosa oggetto di imballaggio.
In proposito, l’art. 218, comma 1, lett. a), definisce l’imballaggio come «il prodotto, composto di materiali di qualsiasi natura, adibito a contenere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti, a proteggerle, a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore o all’utilizzatore, ad assicurare la loro presentazione, nonché gli articoli a perdere usati allo stesso scopo».
Proprio sulla base dell’interpretazione di siffatta disposizione anche alla luce dell’art. 3 della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio, di cui la prima costituisce attuazione, nonché alla luce degli esempi illustrativi contenuti nell’Allegato E del Codice dell’Ambiente, il Collegio decidente ha ritenuto di valorizzare, quale discrimine per affermare la natura di «imballaggio» di un contenitore, l’elemento teleologico della destinazione del contenuto alla circolazione nel mercato, «sia questo quello delle materie prime o quello dei prodotti finiti, ovvero quello degli stadi intermedi fra queste due condizioni».
Ne deriva che un contenitore che si trovi «presso l’industriale» può essere definito «imballaggio», con le conseguenze derivanti ai fini dell’applicazione del contributo ambientale, in quanto esso sia destinato al mercato, e cioè in quanto il prodotto contenuto possa essere definito «merce»; per converso, risultano esclusi dalla disciplina in questione i contenitori e le protezioni che assolvano al «mero stoccaggio» di beni. In tale ultima ipotesi, peraltro, mancherebbe altresì l’elemento dell’alterità tra produttore e consumatore o utilizzatore, non realizzandosi alcuna consegna. Pertanto, sulla scorta della definizione di «imballaggio» così intesa, nella fattispecie, riguardante – come detto – contenitori per il trasferimento di prodotti all’interno della medesima filiera agricola, la Cassazione ha rigettato il ricorso del CONAI volto ad ottenere la condanna della società convenuta al versamento del contributo ambientale.
5. RAPPORTO TRA CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI E CODICE DEL TERZO SETTORE – LE NOVITÀ INTRODOTTE DAL NUOVO ART. 6 IN AMBITO DI AMMINISTRAZIONE CONDIVISA a cura di Beatrice Tabacco
Il nuovo codice dei contratti pubblici, decreto legislativo del 31 marzo 2023 n. 36/2023, rappresenta un chiaro passo verso nuove modalità di attuazione dell’azione amministrativa. Nello specifico, l’articolo 6 stabilisce che “In attuazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà orizzontale, la pubblica amministrazione può apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, modelli organizzativi di amministrazione condivisa, privi di rapporti sinallagmatici, fondati sulla condivisione della funzione amministrativa gli enti del Terzo settore di cui al codice del Terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, sempre che gli stessi contribuiscano al perseguimento delle finalità sociali in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente e in base al principio del risultato. Non rientrano nel campo di applicazione del presente codice gli istituti disciplinati dal Titolo VII del codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo n. 117 del 2017”.
L’apertura del nuovo codice verso i rapporti con il Terzo Settore dirama le tensioni applicative preesistenti tra il vecchio Codice dei contratti pubblici (d.lgs 50/2016) e il Codice del Terzo Settore (d.lgs 117/2017). Le interpretazioni tra i due codici sono state oggetto di grande dibattito: in particolare, nel 2018 il Consiglio di Stato ha espresso il parere n. 2052 su richiesta dell’ANAC, riguardo la normativa applicabile ai contratti pubblici alla luce dei nuovi codici. Il CdS ha concluso che, nel rispetto delle norme europee in tema di concorrenza, alle procedure di affidamento dei servizi sociali previste dal Codice del Terzo settore non sono applicabili le disposizioni del Codice dei contratti pubblici quando prive di carattere selettivo – quindi non tese all’affidamento del servizio, come nel caso dell’accreditamento – o quando sono offerte in forma integralmente gratuita – in questo caso è prevedibile un rimborso spese di natura specifica e non forfettaria. Al contrario, la concorrenza deve essere tutelata se il servizio è svolto in forma onerosa, la quale ricorre anche quando il rimborso spese previsto è di tipo forfettario. Un passaggio fondamentale del parare in questione è quello in cui il Consiglio di Stato specifica che, in caso di ricorso a modalità di affidamento escluse dal Codice dei contratti pubblici, l’Amministrazione affidataria deve puntualmente specificare le motivazioni di tale scelta. Questa posizione del CdS mostra, chiaramente, come sia preferito il ricorso al Codice dei contratti pubblici, nel rispetto delle norme europee sulla concorrenza.
L’orientamento interpretativo è stato modificato nel 2020 quando, con la sentenza numero 131, la Corte Costituzionale ha rivalutato il rapporto tra Codice dei contratti pubblici e Codice del Terzo settore alla luce dell’articolo 118, comma 4, della Costituzione. Secondo la Corte Costituzionale, tramite il principio di sussidiarietà orizzontale il legislatore costituzionale ha inteso “superare l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una «autonoma iniziativa dei cittadini»”.[1] La sentenza evidenzia, quindi, che il legislatore attribuisce priorità al Codice del Terzo settore nel rapporto con il Codice dei contratti pubblici. Nei rapporti con gli enti del Terzo settore gli istituti prioritari sono la co-progettazione e l’accreditamento e, nel caso in cui fosse applicato il Codice dei contratti pubblici, la Pubblica amministrazione dovrebbe motivarne le ragioni. Nelle motivazioni della sentenza è esplicitato che l’articolo 55 del Codice del Terzo settore procedimentalizza il principio di sussidiarietà orizzontale, dà attuazione, quindi, al disposto dell’articolo 118, comma 4, della Costituzione.
Le sollecitazioni della Corte Costituzionale sono state accolte dal nuovo Codice, che all’articolo 6 ribadisce come principio di carattere generale la separazione tra disciplina dei contratti pubblici e gli strumenti individuati dal Codice del Terzo settore.
Giusta attenzione deve essere dedicata alla prima parte dell’articolo, dove il riconoscimento dei principi di solidarietà sociale e sussidiarietà orizzontale permettono alle amministrazioni locali di attuare con più facilità modelli organizzativi di amministrazione condivisa per il perseguimento di finalità sociali con gli enti del Terzo Settore.
Il successivo articolo 7 ribadisce l’autonomia organizzativa delle pubbliche amministrazioni. Entrambi gli articoli, quindi, delineano la chiara possibilità per le pubbliche amministrazioni di favorire modelli organizzativi di amministrazione condivisa con gli enti del Terzo settore.
L’utilizzo dell’aggettivo “spiccata (valenza sociale)” potrebbe lasciare margine di discrezionalità agli interpreti, ciò nonostante, l’esplicito richiamo dell’amministrazione condivisa permette di fare riferimento ad uno strumento che negli ultimi anni si è solidificata. I modelli organizzativi dell’amministrazione condivisa devono essere applicati nel rispetto dei principi amministrativi del pari trattamento, della trasparenza e del principio del risultato. L’articolo 6 introduce il principio del risultato, il quale viene disciplinato all’articolo 1 del nuovo codice. Il comma 3 delimita l’applicazione di tale principio ai contratti pubblici, escludendolo quindi dall’ambito dell’amministrazione condivisa. Tuttavia, il comma 4 stabilisce che il principio del risultato è il criterio attraverso cui si esercita il potere discrezionale per l’individuazione della regola da applicare ai casi concreti. In questo senso, il principio del risultato opererebbe nell’ambito dell’esercizio creativo dell’autonomia amministrativa per il perseguimento degli interessi sociali.
[1] Corte Costituzionale, motivazioni sentenza n.131 del 2020