INDICE
1. La V.I.A. «postuma» in un recente interpello al Ministero per la transizione ecologica di Giulia Moscaroli
2. Tempo scaduto per le «vecchie» concessioni: il caso dei bagni Liggia di Genova di Andrea Nardone
3. Il gruppo di stati contro la corruzione rimanda l’italia. Non si applica, potrebbe fare di più di Eugenio Parisi
4. Il nuovo regolamento dei beni pubblici di Roma di Beatrice Tabacco
5. L’attuazione del PNRR alla prova del caro materiali di Carlo Garau
6. L’ingerenza del governo centrale sulle competenze regionali nella governance del PNRR di Samuele Marcucci
7 .Le tendenze europee sul controllo degli investimenti esteri alla luce della seconda relazione annuale di Matteo Farnese
1. La V.I.A. «postuma» in un recente interpello al Ministero per la transizione ecologica di Giulia Moscaroli
La valutazione d’impatto ambientale – c.d. V.I.A. – è, in generale, una procedura di matrice europea volta a prevenire gli effetti negativi provenienti da una determinata opera sull’ambiente circostante, nonché sulla salute umana. Si tratta, dunque, di un istituto che risponde pienamente alla ratio dei principi di prevenzione e di precauzione, tradizionalmente posti alla base della tutela ambientale, ponendosi in una fase fisiologicamente antecedente la realizzazione dell’opera oggetto di analisi.
Solo con il D. Lgs. 16 giugno 2017, n. 104 viene introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto della c.d. «V.I.A. postuma», il quale si configura come rimedio ad una situazione patologica di assenza della valutazione. Il procedimento è attualmente disciplinato, tra le sanzioni per le violazioni alla disciplina autorizzatoria, dall’art. 29, comma 3, D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (c.d. Cod. ambiente). La disposizione, in particolare, prevede l’assoggettamento a V.I.A. postuma di opere realizzate o in corso di realizzazione, nei casi di annullamento in sede giurisdizionale o in autotutela del provvedimento di V.I.A. o di verifica di assoggettabilità, nonché ove le opere non siano state sottoposte alle procedure di verifica di assoggettabilità o ai provvedimenti unici statali e regionali. In tali ipotesi, l’autorità competente assegna un termine all’interessato, entro il quale avviare un nuovo procedimento; scaduto inutilmente il termine o in caso di provvedimento di V.I.A. con contenuto negativo, l’autorità impone al responsabile, a proprie spese, la demolizione delle opere realizzate e il ripristino dello stato dei luoghi. In caso di inottemperanza, l’amministrazione provvede d’ufficio a spese del responsabile. Inoltre, durante il decorso del termine l’autorità può consentire «la prosecuzione dei lavori o delle attività, a condizione che tale prosecuzione avvenga in termini di sicurezza con riguardo agli eventuali rischi sanitari, ambientali o per il patrimonio culturale».
È proprio quest’ultima disposizione ad essere oggetto dell’interpello del 17 maggio 2022 rivolto dalla Direzione Generale dell’Ambiente della Regione Sardegna al Ministero della Transizione Ecologica – c.d. Mi.T.E. -, al fine di chiarire la corretta applicazione in astratto della norma. In particolare, si chiede al Ministero se sia possibile per l’autorità competente autorizzare la «prosecuzione delle attività o dei lavori» anche ove il giudice, nel caso di specie il Consiglio di Stato, abbia annullato il provvedimento autorizzatorio per mancata previa sottoposizione dell’opera a V.I.A. Inoltre, la Direzione ritiene che non si possa parlare di «prosecuzione delle attività» quando, come nel caso sottostante alla richiesta, nell’impianto non sia ancora stata avviata, in concreto, alcuna attività.
In via generale, la facoltà per le Amministrazioni di aprire un dialogo con il Ministero, al fine di rendere uniforme l’applicazione della normativa statale in materia ambientale, è nata con l’introduzione nel Codice dell’ambiente, ad opera del D.L. 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. Semplificazioni-bis), dell’art. 3-septies, il quale disciplina il c.d. interpello ambientale. La disposizione prevede la possibilità di inoltrare al Ministero della Transizione Ecologica delle istanze di carattere generale, a favore di enti predeterminati dal legislatore, tra i quali figurano proprio le Regioni. A fronte dell’istanza, entro 90 giorni il Ministero deve fornire un’adeguata risposta, che viene resa pubblica tramite il proprio sito istituzionale. Le indicazioni fornite nelle risposte costituiscono dei criteri interpretativi che le pubbliche amministrazioni devono rispettare nell’esercizio delle attività di propria competenza in materia ambientale. Nel caso in cui intervengano delle rettifiche, e quindi il Ministero modifichi la propria posizione, queste avranno un’efficacia limitata ai comportamenti futuri. L’interpello ambientale è, dunque, una forma di consulenza giuridica, in ottica partecipativa, che già era prevista in altri settori, quale il settore tributario e del lavoro.
Sul rilievo mosso dalla Regione, il Ministero risponde in data 29 luglio, specificando che i «lavori o le attività» delle quali può essere autorizzata la prosecuzione sono solamente le attività soggette a V.I.A. ed elencate nell’Allegato III alla Parte II del Codice dell’ambiente per i progetti di competenza delle Regioni e delle Province autonome, non invece l’esercizio temporaneo dell’impianto o lo svolgimento dell’attività produttiva.
Inoltre, la ratio di tale potere consiste nella tutela di un soggetto che abbia avviato la realizzazione di un impianto, riponendo affidamento su provvedimenti amministrativi poi annullati. Di conseguenza, non si pone un problema di tutela del legittimo affidamento nel caso in cui i lavori o l’attività debbano ancora essere avviati.
L’interpretazione fornita dal Mi.T.E. sottolinea la portata derogatoria ed eccezionale dell’istituto della V.I.A. postuma, ponendosi anche sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La Corte nel 2018, infatti, chiamata a pronunciarsi nell’ambito di un rinvio pregiudiziale promosso dal TAR Marche, ha confermato la non contrarietà al diritto dell’Unione di una valutazione effettuata successivamente alla conclusione dell’opera, purché ciò sia effettuato a titolo di regolarizzazione e senza determinare un’elusione della normativa vigente in materia.
La posizione del Ministero, adottando un’interpretazione restrittiva dell’istituto, sembra quindi cogliere in pieno le preoccupazioni di parte della dottrina, che ritiene che la normativa del 2017 possa privare l’istituto della V.I.A. della sua portata preventiva, che si giustifica per la necessità di permettere all’autorità competente di analizzare il prima possibile gli effetti prodotti da un progetto sull’ambiente.
In particolare, quindi, il procedimento, intervenendo ad opera già compiuta, difetta della fase di comparazione tra le molteplici alternative possibili, limitandosi, il più delle volte, a verificare quali modifiche possano essere apportate al progetto originale al fine di ridurre le conseguenze negative. Manca, perciò, la possibilità di prendere in considerazione la c.d. “opzione zero”, ovvero la possibilità di non realizzare l’opera, contrapponendosi alla tutela dell’ambiente la necessità di garantire l’interessato che l’opera, per la quale ha già sostenuto delle spese, non sia oggetto di provvedimento negativo e di conseguente demolizione.
Nonostante queste perplessità, l’istituto presenta dei vantaggi, poiché una valutazione postuma viene eseguita comunque considerando i mutamenti in concreto e permette di apportare le migliorie necessarie all’opera, a differenza della V.I.A. classica, basata su valutazioni astratte.
Al fine di evitare un abuso nel ricorso all’istituto, i giudici amministrativi possono ammettere la valutazione ex post solo in presenza di circostanze eccezionali. Se la V.I.A. postuma dovesse divenire la regola, infatti, l’istituto perderebbe la propria caratteristica essenziale di tutela preventiva dell’ambiente.
2. Tempo scaduto per le «vecchie» concessioni: il caso dei bagni Liggia di Genova
A cura di Andrea Nardone
La Cassazione penale, sezione III, in data 13 aprile 2022 si è pronunciata con la sentenza n. 15676, la quale ha inciso significativamente sulla portata delle sentenze gemelle nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. In particolare, queste ultime pronunce avevano ravvisato un contrasto insanabile tra le proroghe in materia di concessioni demaniali marittime previste dalla normativa interna (da ultimo con legge n. 145/2018 fino al 31 dicembre 2033) e la normativa euro-unitaria, segnatamente l’art. 49 TFUE e l’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein), motivo che aveva spinto i giudici di Palazzo Spada a disporre che le proroghe previste dalla normativa nazionale venissero disapplicate dall’autorità giudiziaria e dalle pubbliche amministrazioni, differendo tuttavia gli effetti di tale disapplicazione al 31 dicembre 2023, e ciò per evitare l’impatto economico di una decadenza immediata e generalizzata delle concessioni in essere e per consentire alle amministrazioni di predisporre le procedure di gara richieste.
Con quelle sentenze, l’Adunanza Plenaria aveva poi precisato che dalla disapplicazione della legge nazionale anticomunitaria non possono derivare «conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem». A ciò, infatti, ostano i principi costituzionali di riserva di legge statale e di irretroattività della legge penale, comuni alle tradizioni costituzionali dei paesi comunitari.
La suddetta affermazione deve tuttavia essere meglio precisata alla luce delle delucidazioni offerte in proposito dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza n. 15676, presa in esame nella presente sede. Tale pronuncia muove, all’esito di un’intricata vicenda, dal ricorso del difensore del concessionario di un lido genovese, i Bagni Liggia. Più in particolare, l’area riguardante questi ultimi era stata sottoposta a sequestro preventivo in relazione alla ipotizzata contravvenzione di occupazione abusiva prevista dall’art. 1161 del codice della navigazione: difatti, a seguito di un controllo della Guardia Costiera nel 2018, la concessione di quel lido risultava scaduta il 31 dicembre 2009, laddove il concessionario, facendo affidamento sulla comunicazione di recepimento di due leggi di proroga lui indirizzata dal comune di Genova, ancora occupava l’area. Il sequestro, a seguito di un’odissea giudiziaria, veniva confermato dalla Corte di Cassazione, che si pronunciava con due sentenze (Cass. penale, Sez. III, 6 marzo 2019, n. 25993 e Cass. penale, Sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 10218): sul punto, pertanto, si formava il c.d. giudicato cautelare, con efficacia preclusiva di ogni istanza di dissequestro. Nondimeno, a seguito di plurime istanze, il difensore del concessionario riusciva ad ottenere un provvedimento di dissequestro da parte del GIP, salvo poi essere tale provvedimento annullato con ordinanza del Tribunale del riesame a seguito dell’appello cautelare proposto dal PM. Il Tribunale del riesame, quindi, con l’ordinanza ripristinava il sequestro preventivo, valorizzando l’efficacia preclusiva endoprocessuale del giudicato cautelare formatosi a seguito delle pronunce della Cassazione.
Tuttavia, secondo il difensore del concessionario, il Tribunale del riesame, nella sua ordinanza, avrebbe trascurato di prendere in considerazione la sentenza n. 18/2021 del Consiglio di Stato, la quale sarebbe stata idonea, nella ricostruzione da lui prospettata, a rappresentare un «fatto sopravvenuto» tale da fare venire meno, ex art. 321 c.p.p., le condizioni di applicabilità del sequestro preventivo. Il difensore ricorreva pertanto per Cassazione avverso l’ordinanza di annullamento del dissequestro con un unico motivo di doglianza, che riguardava la violazione di legge in relazione agli artt. 1161 codice della navigazione, all’art. 49 TFUE e all’art. 12 dir. 123/2006/CE.
La Cassazione rigettava il ricorso, ritenendolo inammissibile. Secondo i giudici di legittimità, la sentenza n. 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria non potrebbe rappresentare quel «fatto sopravvenuto» tale da travolgere il giudicato cautelare, semplicemente perché non tange la concessione in esame e non modifica la posizione del ricorrente. La concessione de qua era infatti scaduta il 31 dicembre 2009, non avendo beneficiato della proroga disposta dal decreto-legge n. 194 del 30 dicembre 2009 (convertito dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25). Era solo sulle concessioni beneficiate da questa legge che si erano poi «innestate» le successive proroghe: dapprima quella fino al 31 dicembre 2020, disposta dal decreto-legge 18 ottobre 2012 n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e poi quella fino al 31 dicembre 2033, disposta dai commi 682 e 683 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2018, n. 145.
La moratoria del 2009, a suo tempo, era stata l’esito di un «compromesso». Il legislatore, per chiudere la procedura di infrazione n. 2008/4908, aveva infatti abrogato il c.d. diritto di insistenza (e cioè l’automatica preferenza attribuita al concessionario uscente in sede di affidamento, prevista dall’art. 37, co. 2 cod. nav.), concedendo a compensazione dei concessionari una proroga fino al 2015 delle concessioni in essere. Tale disciplina aveva un carattere eminentemente «transitorio». La ratio della proroga era duplice: da un lato, il legislatore si prendeva il tempo di conformarsi agli obblighi comunitari attraverso una revisione della legislazione in materia, da realizzarsi sulla base di una intesa da raggiungere in sede di Conferenza Stato-Regioni; dall’altro, con essa si consentiva ai titolari di stabilimenti balneari l’ammortamento degli investimenti effettuati. Proprio in ragione del suo «carattere transitorio», però, la proroga andava a beneficiare soltanto le concessioni «nuove», e cioè quelle sorte dopo la legge 16 marzo 2001, n. 88. Tale non era la concessione dei Bagni Liggia, che risaliva al 1998, ed era pertanto una concessione «vecchia»; né valeva invocare, come aveva fatto il concessionario, che egli aveva ottenuto un rinnovo per sei anni nel 2003, non potendosi equiparare un rinnovo ad una concessione ex novo.
Il ragionamento dei giudici, quindi, ricostruisce l’avvicendarsi delle proroghe al pari di un processo di stratificazione: il che è perfettamente coerente da un punto di vista formale, ma rischia di trascurare la situazione di incertezza imperante in materia quando da tale ricostruzione fa derivare la possibile affermazione della responsabilità penale dei concessionari. Il concessionario, infatti, dal 2009 in poi, avrebbe occupato l’area «arbitrariamente», e cioè senza un valido titolo concessorio. La Cassazione ha ritenuto dunque che ci fossero elementi sufficienti per ritenere sussistente il fumus del reato di cui all’art. 1161 cod. nav. e per confermare il sequestro preventivo.
Quanto all’elemento soggettivo del reato, la Corte di Cassazione ha ricordato, richiamando il proprio orientamento costante sul punto, come lo standard del dovere di informazione in capo a chi svolge professionalmente una determinata attività sia particolarmente elevato, essendo sufficiente, per rispondere dell’illecito di occupazione abusiva, la semplice culpa levis. Tali soggetti devono pertanto premurarsi di compiere ogni accertamento per conoscere la legislazione vigente in materia, non potendo altrimenti appellarsi ad un mero «atteggiamento acquiescente» della pubblica amministrazione nei loro confronti (come il fatto che il comune non avesse intrapreso azioni di recupero del bene concesso). Solo ove l’errore nell’interpretazione della legislazione sia derivato da un fatto positivo riconducibile agli organi amministrativi, che abbia ingenerato negli operatori un erroneo convincimento di liceità del loro comportamento, si potrebbe ritenere fondata quella buona fede che, nelle contravvenzioni, vale come scusante, portando all’esclusione dell’elemento soggettivo. Non essendo questo il caso della comunicazione di recepimento delle proroghe inviata dal comune, i giudici nella fattispecie hanno ritenuto sussistente, quantomeno in termini di fumus, l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 1161 cod. nav.
Nel frattempo, il comune di Genova, in attesa che siano avviate le procedure di gara per la nuova concessione del lido dei Bagni Liggia, per l’estate trascorsa ha promosso un affidamento temporaneo del bene. Tra i requisiti di partecipazione era stato indicato che il beneficiario fosse una associazione senza scopo di lucro: il comune ha infine affidato il lido al circolo ricreativo legato all’ospedale pediatrico Gaslini. L’iniziativa appare lodevole, dal momento che valorizza la dimensione collettivistica del bene demaniale, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, co. 4 Cost., consentendo così il soddisfacimento degli interessi generali della collettività.
3. Il gruppo di stati contro la corruzione rimanda l’Italia. Non si applica, potrebbe fare di più
A cura di Eugenio Parisi
Il Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa ha recentemente pubblicato l’addendum al secondo rapporto di conformità dell’Italia, rispetto alle raccomandazioni rilasciate nel marzo 2021 sulle misure di prevenzione alla corruzione di parlamentari, giudici e pubblici ministeri, approvato a giugno di quest’anno durante la 91sima sessione plenaria.
Quanto riscontrato dalla delegazione del Greco dipinge una totale inadempienza da parte delle autorità italiane. Infatti, delle dieci indicazioni rilasciate nella primavera di un anno fa, non vi è stato completo adempimento neanche di una.
Le raccomandazioni di Palazzo Agorà più interessanti riguardano il codice di condotta e rigide norme sui conflitti d’interesse per i parlamentari; una legislazione sul lobbying e il delicato problema delle porte girevoli tra magistratura e mondo dei partiti.
Per quanto riguarda la prima categoria Strasburgo raccomanda il consolidamento di una serie di misure di integrità attraverso: la formulazione di un codice di condotta all’interno delle due Camere e l’istituzione di un relativo sistema di attuazione. L’adozione di norme chiare e applicabili in ambito di conflitto d’interessi anche attraverso gli istituti di ineleggibilità e incompatibilità.
Partendo dal primo, nel marzo 2021, la Camera aveva fatto presente come il Comitato consultivo sulla condotta dei deputati stava elaborando degli orientamenti e linee guida di comportamento. Ad avviso del Greco, gli sforzi erano lodevoli ma già insufficienti, perché al progetto del Comitato mancava ogni riferimento al regime della responsabilità. Inoltre, Strasburgo criticava aspramente il fatto che il Senato della Repubblica non avesse neanche iniziato i progetti di un codice di condotta per i suoi membri. Dopo un anno, le cose sono leggermente cambiate. In primo luogo, il presidente del Comitato ha proposto una serie di emendamenti, attualmente in attesa di approvazione, ossia basare l’azione di condotta dei deputati sui principi dell’integrità morale, trasparenza, diligenza, l’onestà, responsabilità e l’impegno a salvaguardare la buona reputazione della Camera. Un punto delicato riguarda la trasparenza, perché l’emendamento ha lo scopo di imporre delle rigide disposizioni sull’obbligo di dichiarazione da parte dei deputati rispetto agli interessi finanziari, impieghi paralleli, proprietà di beni o percepimento di finanziamenti e le relative sanzioni per le violazioni del Codice.
Dopo la dura ammonizione del Greco, il Senato ha adottato un codice di condotta, piuttosto completo. Ha infatti imposto una serie di principi e regole di condotta durante il mandato parlamentare dei Senatori. Le disposizioni spaziano dai principi generali di condotta, alla trasparenza, ai conflitti di interesse, al controllo e alle sanzioni irrogabili.
Sempre rispetto al comportamento dei Parlamentari, nel 2021 era stata raccomandata l’adozione di una normativa chiara rispetto ai conflitti di interessi dei membri delle Camere attraverso gli istituti dell’ineleggibilità e l’incompatibilità e l’adozione di un processo di verifica efficace e tempestivo. Anche qui, le autorità italiane avevano comunicato la presenza di un Ddl per la modifica della legge 20 luglio 2004 n. 215. Finora però non si sono visti dei progressi concreti lasciando anche il dubbio che il legislatore abbia deciso di affossare l’emendamento, non avendo più fatto riferimento alla riforma dopo la primavera 2021.
Un ultimo punto rispetto al comportamento da parte di chi siede sugli scranni di Palazzo Montecitorio e Madama, riguarda l’educazione all’anticorruzione. Il Greco raccomanda l’adozione di corsi di formazione specializzata sull’integrità parlamentare. Il Gruppo di Stati contro la corruzione non è nuovo a questo tipo di indicazioni. In effetti, gli ultimi report hanno visto un importante presa di posizione, suggerendo l’importanza di istruire i parlamentari sul comportamento da tenere nel loro ruolo, anche per tenere alto l’onore dell’istituzione dove siedono. Suggerimenti di questo tipo si sono avuti anche per il Belgio, San Marino e Ungheria. Il problema però è che l’Italia non ha mai messo in atto progetti per l’attuazione della raccomandazione, né a livello di legge ordinaria né di regolamento interno alle Camere, lasciando completamente inattuata la richiesta di Strasburgo.
L’altro argomento fortemente sentito riguarda il lobbying. Il fenomeno è stato ormai normato in buona parte dei Paesi dell’Europa occidentale. Il Greco già un anno fa raccomandava il rafforzamento delle norme sulle relazioni tra parlamentari e rappresentanti di interessi o comunque soggetti che cercano di influenzare il processo decisionale del legislatore, sottolineando l’importanza dello sviluppo di metodi di controllo efficaci per garantire l’effettiva applicazione della normativa.
Bisogna però dire che la Camera dei deputati già dal 2017 ha istituito un registro dei lobbisti. Il problema però è che è l’unico mezzo di riconoscimento della categoria e soprattutto c’è stata poca adesione da parte di persone giuridiche che fisiche. Infatti, gli iscritti non arrivano a 350. Inoltre, le autorità italiane hanno segnalato come si stia predisponendo una normativa ad hoc per disciplinare la materia. Il testo consolidato che è attualmente al vaglio della Camera è una sintesi di tre diverse proposte di legge.
Il testo prevede che i rapporti tra politici e lobbysti debbano sempre essere dichiarati e quindi tracciabili, in nome del principio di trasparenza e permettere di sapere sempre chi e come ha portato avanti determinati interessi cercando di influenzare la decisione di chi fa le leggi. Ancora, è prevista l’introduzione di un registro dei rappresentanti di interessi presso l’Agcom che andrà quindi a sopprimere quello attualmente in uso alla Camera dei deputati. Il legislatore ha anche previsto l’istituzione di un Comitato di sorveglianza, soggetto centrale per il controllo della trasparenza dei rapporti dei lobbysti e parlamentari, nonché responsabile della stesura e adozione di un codice di condotta specifico. Inoltre, è in programma la dotazione di poteri sanzionatori atti a contrastare le false dichiarazioni, attraverso ammonizione, censura e sospensione temporanea fino alla cancellazione definitiva del registro ed è prevista una sanzione amministrativa dai 5.000 ai 15.000 euro.
La questione però ha visto solo una tornata di audizioni presso la Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, lasciando di fatto l’onere della conclusione della normativa al nuovo Parlamento. Questo ha determinato un commento negativo del Greco che ha definito la raccomandazione lobbying completamente inattuata.
Concludendo con l’ultimo argomento trattato dal report, il Gruppo di Stati contro la corruzione ha richiesto di affrontare la delicata questione del rapporto tra magistratura e mondo della politica, assai problematico vista l’opportunità non solo per i giudici di far parte del potere legislativo ma soprattutto la possibilità a fine mandato di ritornare a indossare la toga. Tuttavia, l’assemblea di Palazzo Agorà ha preso visione degli sforzi e dell’attuale disegno di legge per evitare le porte girevoli tra procure e mondo dei partiti. In particolare, il Ddl “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, prevede che i magistrati non siano eleggibili al Parlamento europeo, al Senato o alla Camera dei deputati, né alla carica di Presidente di regione, consigliere regionale né presidente delle province autonome di Trento e Bolzano o di consigliere delle stesse se prestano o hanno prestato servizio nei tre anni precedenti in distretti giudiziari o uffici giudiziari, aventi competenza, in tutto o in parte, nella regione della loro circoscrizione elettorale. Inoltre, perché possano essere candidati e ove eletti ricoprire una delle cariche sovra descritte, dovranno essere in aspettativa non retribuita già al momento della candidatura, tenendo tale status lavorativo per tutta la durata del mandato.
Idea del legislatore non è quella di mettere un freno alle porte girevoli ma a riprendere la toga in una regione o collegio elettorale differente da quello dove questi è stata candidato, per i successivi tre anni. In ultimo il progetto di legge introduce restrizioni per quanto riguarda la riassegnazione di magistrati che hanno ricoperto cariche elettive o di governo, al fine di limitare, per quanto possibile, situazioni di potenziale conflitto di interessi.
In questo senso il Greco è soddisfatto perché la norma si sta muovendo nella giusta direzione. Il problema però è che non è ancora stata attuata il che rende complicato avere un’idea dell’effettiva applicazione e dei relativi tempi.
Le conclusioni del Gruppo di Stati contro la corruzione sono piuttosto amare anche se fiduciose. L’Assemblea di Palazzo Agorà non nasconde una certa delusione. Da marzo 2021 le autorità italiane non hanno dimostrato un effettivo impegno nell’implementazione di quanto richiesto nel report, nonostante dei timidi tentativi si siano visti. La strada è da fare è lunga. Il capodelegazione italiano presso il Greco dovrà presentare una relazione sui progressi fatti entro il 30 giugno 2023. Sarà quindi premura del nuovo legislativo ed esecutivo portare a casa dei risultati.
4. Il nuovo regolamento dei beni pubblici di Roma
A cura di Beatrice Tabacco
Il percorso iniziato quasi un anno fa per un nuovo regolamento dei beni pubblici sta volgendo a termine: nel mese di agosto è stata presentata in conferenza stampa la bozza di regolamento preparata dall’assessore Tobia Zevi.
Il lavoro portato avanti dal Comune è stato una puntuale risposta alle numerose sollecitazioni sia del Terzo Settore, sia delle stesse pubbliche amministrazioni romane, a partire dal dipartimento del patrimonio fino ad arrivare ai municipi.
La stessa scelta di presentare la proposta ad agosto è un chiaro segnale della volontà del Comune di modificare lo status quo il prima possibile.
Allo stato attuale, tutte le concessioni degli immobili pubblici sono scadute: i rapporti ancora attivi comportano alcune criticità che vanno a scontrarsi con una situazione già precaria. L’ultimo regolamento dei beni pubblici risale a circa 40 anni fa (Consiglio Comunale n. 5625/1983) e i vari tentativi di aggiornamento realizzati nel 1995 con la delibera 26 e nel 2015 con la delibera 140 hanno solo posto un’interruzione momentanea a rapporti ormai già patologici.
In particolare, la delibera 140 ha trasformato la dinamica tra Comune e assegnatario del bene in un rapporto quasi vendicativo che non si ispira più solo all’interesse pubblico perseguito, ma propone elementi economici insostenibili, tra i quali un esempio lampante è costituito dagli interessi delle more rapportati al canone intero e non a quello riconosciuto.
Tra gli obiettivi del Sindaco Gualtieri e dell’Assessore Zevi vi era la volontà che questo nuovo regolamento potesse essere il frutto di un dialogo tra il Comune (sia da parte della giunta che del Dipartimento Patrimonio) e le realtà territoriali. Il confronto scaturito da questo dialogo, cercato e voluto fin dall’inizio, dovrebbe permettere di realizzare una proposta che sia non solo supportabile dai tecnici della Pubblica amministrazione, ma anche tutelabile da parte di coloro che quelle stesse politiche le dovranno vivere come protagonisti.
I punti cardine del nuovo regolamento vertono sul riconoscimento del valore sociale dei progetti territoriali e sulla rilevanza di questi ultimi nell’ ambito delle politiche sociali attive.
Il regolamento prevede diverse modalità di assegnazione dei beni: partendo infatti dagli ormai noti strumenti presenti, tra cui bando pubblico e patti di collaborazione, si arriva alla possibilità d’istanza di parte per l’attivazione del procedimenti, la quale permette, soprattutto alle amministrazioni decentrate, di poter agire in modo più efficace nella collaborazione con i privati.
Inoltre, all’interno del regolamento sono presenti anche due nuovi istituti: il Comitato tecnico e il Forum. Il primo dovrebbe verificare la coerenza tra l’attività svolta e la concessione rilasciata, mentre il secondo rappresenterebbe un meccanismo di consultazione per programmare il futuro dei beni inutilizzati.
La composizione, le modalità di azione del Comitato tecnico e i criteri con i quali vengono individuati quali procedimenti devono essere applicati ad ogni singolo bene rimangono ancora poco limpidi: la bozza di regolamento segna sicuramente un cambio di visione sull’oggetto dei beni pubblici, ma il passo è per renderlo effettivo è ancora lontano.
5. L’attuazione del PNRR alla prova del caro materiali
A cura di Carlo Garau
Negli ultimi mesi l’aumento del costo dell’energia e l’innalzamento dei prezzi dei materiali di base hanno raggiunto livelli tali per cui si sono rese necessarie e urgenti contromisure volte a mettere in salvo l’esecuzione dei contratti pubblici. Il fenomeno, già in atto nel 2021, è stato fortemente acuito dalle conseguenze sul mercato delle fonti energetiche del conflitto bellico tra Russia e Ucraina.
I rincari, causando un aumento rilevante dei costi per le imprese aggiudicatrici, rischiano di pregiudicare notevolmente l’esecuzione dei progetti. In questa stagione è impossibile non considerare l’impatto che tale fenomeno può avere sull’esecuzione del PNRR, il quale, fondandosi su un approccio performance based, impone il rispetto di scadenze prestabilite al fine di poter beneficiare dei finanziamenti europei. Per questo motivo il legislatore è intervenuto a più riprese col fine di mettere in salvo l’esecuzione dei contratti di appalto, in particolare di lavori, attraverso il ricorso a meccanismi di revisione del prezzo, compensazione e con le varianti in corso d’opera.
Con il decreto-legge 27 gennaio 2022, n.4, all’articolo 29 è stato reso obbligatorio per tutte le stazioni appaltanti prevedere, all’interno dei documenti di gara, le clausole di revisione dei prezzi ex art. 106, co. 1, lett. a) del Codice dei contratti pubblici, facoltative ai sensi dello stesso D.lgs. 50/2016. La misura in questione, tuttavia, è stata prevista in via temporanea da applicarsi a tutte le gare bandite o avviate dal 27 gennaio 2021 fino al 31 dicembre 2023. Inoltre, per i contratti relativi a lavori le variazioni di prezzo dei singoli materiali da costruzione, in aumento o diminuzione, sono valutate dalla stazione appaltante soltanto se tali variazioni risultino superiori al cinque per cento rispetto al prezzo, rilevato nell’anno di presentazione dell’offerta, anche tenendo conto di quanto previsto dal decreto del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili di cui al comma 2, secondo periodo. In tal caso si procede a compensazione, in aumento o in diminuzione, per la percentuale eccedente il cinque per cento e comunque in misura pari all’80 per cento di detta eccedenza. La norma è derogatoria e più favorevole verso le imprese rispetto ai parametri fissati dall’articolo 106 del Codice, il quale prevede che le variazioni debbano essere superiori al 10 per cento e che la misura della compensazione copra solo il cinquanta per cento dell’eccedenza. Per l’attuazione del meccanismo compensativo in questione è prevista l’adozione di un decreto semestrale da parte del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile contenente la determinazione, effettuata sulla base delle elaborazioni ISTAT, delle variazioni percentuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi.
Nella medesima materia ma in un ambito di applicazione soggettivo differente, è intervenuto anche il decreto-legge 17 maggio 2022 n.50, che all’art. 26 si occupa della revisione dei prezzi relativi ad appalti pubblici di lavori aggiudicati sulla base di offerte presentate entro il 31 dicembre 2021. Per tali contratti si prevede che gli “stato avanzamento lavori” (SAL) relativi a lavorazioni contabilizzate o allibrate tra il primo gennaio 2022 e il 31 dicembre 2022 sono adottati, in deroga alle disposizioni contrattuali, applicando i prezziari aggiornati al 31 luglio 2022 o, in mancanza, applicando un incremento del venti per cento dei prezziari aggiornati al 31 dicembre 2021 e in uso. La committente è tenuta a riconoscere tali maggiori importi per il novanta per cento. Per i SAL relativi alle lavorazioni contabilizzate dal primo gennaio fino al 18 maggio, data di entrata in vigore del decreto, che sono già stati adottati e per cui è già stato prodotto un certificato di pagamento, è prevista l’emissione di un certificato straordinario contenente la determinazione dei maggiori oneri spettanti all’appaltatore secondo i criteri sopra riportati. In ogni caso, il pagamento è effettuato tenendo conto delle eventuali compensazioni ottenute dal soggetto appaltatore tramite l’attivazione delle clausole di revisione dei prezzi contenute nei singoli contratti.
Il pagamento degli importi è effettuato con le risorse delle stazioni appaltanti nella misura del 50% delle risorse accantonate per imprevisti nel quadro economico di ogni intervento. Le stesse stazioni possono, inoltre e se necessario, avvalersi di ulteriori somme. Il comma 4 dell’articolo 26 dello stesso decreto prevede infatti la possibilità di attingere da alcuni fondi istituiti dal legislatore. Con specifico riferimento alle opere PNRR, la lett. a) permette di utilizzare le risorse previste ex art. 7, comma 1 del decreto-legge 76/2020 (Fondo per la prosecuzione delle opere pubbliche). Per accedere a tale fondo, le stazioni appaltanti devono rispettare le procedure fissate da un apposito d.P.C.M., adottato il 28 luglio che prevede una procedura ordinaria, per le amministrazioni centrali, e una procedura semplificata per le amministrazioni territoriali.
Il legislatore non è intervenuto solo in materia di revisione dei prezzi. Infatti, in sede di conversione in legge del decreto-legge 36/2022, il legislatore è intervenuto sulle varianti in corso d’opera proprio al fine di mitigare l’impatto, sui singoli appalti, dell’attuale crisi inflazionistica. All’articolo 7, comma 2-ter, pertanto, si riconoscono, come circostanze che possono dar luogo a modifiche o varianti dei contratti di appalto in corso di esecuzione ai sensi dell’articolo 106, comma 1 lett. c) del Codice dei contratti pubblici, gli eventi imprevisti e imprevedibili in grado di alterare in maniera significativa il costo dei materiali necessari alla realizzazione dell’opera. Il legislatore interviene attraverso un’interpretazione autentica della norma esistente, nel tentativo di offrire una possibilità in più agli appaltatori, penalizzati da commesse aggiudicate prima dell’esplosione dei costi e nel frattempo divenute antieconomiche, ma anche alle stazioni appaltanti, che possono utilizzare questo strumento di per sé dotato di una certa flessibilità, al fine di superare situazioni che possano pregiudicare la stessa esecuzione del progetto. Si può, a titolo esemplificativo, procedere con una variante volta a sostituire un materiale con un altro meno costoso, oppure si può ricorrere ad una variante che rimuova un intervento complementare che non sia necessario alla funzionalità dell’opera e che consenta un risparmio da utilizzare a compensazione del costo dei materiali. In questo modo si cerca di favorire sia gli operatori economici, ma anche l’interesse pubblico alla base delle opere in fase di realizzazione, in particolare quelle del PNRR che rappresentano traguardi condizionanti il raggiungimento degli obiettivi ivi stabiliti.
6. L’ingerenza del governo centrale sulle competenze regionali nella governance del PNRR
A cura di Samuele Marcucci
Si possono distinguere due fasi fondamentali nel percorso del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: la prima è quella dell’elaborazione dei progetti ricompresi nelle missioni; la seconda è quella dell’attuazione dei singoli progetti da parte degli organismi individuati a tale scopo.
Nella prima fase, quella dell’elaborazione dei PNNR nazionali, la responsabilità della strutturazione della governance e della programmazione degli interventi è in capo esclusivamente ai governi nazionali. Sono però le stesse istituzioni europee, e lo stesso Regolamento UE 2021/241 che istituisce il Dispositivo per la ripresa e la resilienza, a raccomandare un coinvolgimento di tutti i livelli territoriali nella fase di formulazione oltre che in quella di attuazione dei Piani. Nel “Commission staff working document guidance to member states recovery and resilience plans” è quindi disposto che “Member States should detail the processes and structures set up at national, regional and local levels to ensure complementarity and coordination of the management of various Union sources of funding in line with Article 22 of the Regulation and avoidance of double funding in line with Article 8 of the Regulation”, ossia la necessità che gli Stati Membri consultino le Regioni e gli enti territoriali nella fase di predisposizione del Piano. Nel Regolamento Europeo che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza si afferma che “le autorità regionali e locali possono essere partner importanti nell’attuazione delle riforme e degli investimenti. A tale riguardo, esse dovrebbero essere adeguatamente consultate e coinvolte conformemente al quadro giuridico nazionale”. Nonostante ciò, e nonostante le numerose competenze legislative e programmatorie loro attribuite, le Regioni sono state lasciate al margine di questo processo e relegate al ruolo principalmente di soggetti attuatori.
I rapporti tra lo Stato e le Regioni sono, come è noto, regolati attraverso il sistema delle Conferenze: innanzitutto dalla Conferenza Stato Regioni, deputata all’esercizio della leale collaborazione e che viene integrata in sede di Conferenza Unificata dai governi locali; esiste poi la Conferenza delle Regioni, composta dai presidenti delle Giunte Regionali, che pur essendo un’organizzazione di diritto privato è uno dei luoghi di confronto principali tra il Governo e i governi regionali.
Proprio tramite il Presidente della Conferenza delle Regioni queste ottengono nella prima fase di essere ammesse alle riunioni del Comitato Interministeriale per gli Affari Europei (CIAE) e del suo Comitato Tecnico di Valutazione (CTV) che è stato individuato come l’organo di coordinamento del PNRR a supporto dell’azione del ministro per gli affari europei. Non ottengono però nella prima fase, nonostante le richieste, la possibilità di partecipare alle riunioni della Cabina di regia nazionale per il PNRR, né procedure chiare e univoche per il loro coinvolgimento. Il fatto stesso che i due Governi succedutisi nel periodo di cui si tratta abbiano convocato spesso la Conferenza Unificata, e non la Conferenza Stato Regioni o la Conferenza delle Regioni, per dare le comunicazioni relative al PNRR dà la misura di come il governo centrale abbia equiparato le Regioni agli altri enti locali che non hanno gli stessi rilevanti poteri legislativi e di programmazione.
In seguito, con l’approvazione del decreto legge n.77 del 31 Maggio 2021, le Regioni ottengono la rappresentanza nella Cabina di regia nazionale per l’attuazione del PNRR (art. 2), istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e alla quale partecipano – oltre al Presidente del Consiglio – i Ministri e i Sottosegretari di Stato competenti in base agli argomenti trattati in ciascuna seduta. La Cabina di Regia assume un ruolo preminente nell’attuazione del PNRR ed esercita il potere di indirizzo, di impulso e di coordinamento generale ed è chiamata ad effettuare, altresì, la verifica e il monitoraggio dello stato di avanzamento degli interventi previsti in attuazione del piano e ad evidenziare, laddove presenti, eventuali criticità. Le Regioni partecipano alle sedute della Cabina per il tramite del Presidente di Regione (nel caso in cui siano “esaminate questioni di competenza di una singola Regione o Provincia autonoma”) oppure attraverso il Presidente della Conferenza delle Regioni (nel caso in cui le questioni dovessero concernere più Regioni o Province autonome). Si prevede inoltre la partecipazione delle Regioni al Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale, che ha funzioni consultive nell’attuazione del PNRR, e la rappresentanza del presidente della Conferenza delle Regioni ai comitati interministeriali per la transizione ecologica e digitale, seppur solo quando trattino di questioni di specifico interesse regionale.
Le Regioni hanno quindi, come già evidenziato, un ruolo marginale nella fase di elaborazione del PNRR a dispetto delle notevoli competenze che l’ordinamento gli affida e dei compiti rilevanti che gli spettano nella fase attuativa del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. I meccanismi previsti dal d.l. 77 garantiscono in modo “debole” la partecipazione delle Regioni alla governance in fase di elaborazione dei progetti, poiché gli si riconosce una rappresentanza limitata negli organismi decisionali e con un ruolo esclusivamente consultivo, per dare cioè un “mero parere”.
Passando alla seconda fase, quella dell’attuazione, per dare conto della pervasività dell’intervento centrale sulle competenze regionali si deve evidenziare la disciplina speciale prevista dal d.l. in materia di esercizio dei poteri sostitutivi da parte dello Stato. Infatti, a differenza della previsione della legge generale che prevede l’assegnazione di un termine congruo all’amministrazione regionale inadempiente per compiere gli atti necessari, l’art. 12, comma 1, del d.l. prevede, invece, che, in caso di mancato rispetto degli obblighi e degli impegni relativi all’attuazione del PNRR (che, alla luce del successivo comma 3, si sostanziano nell’inadempimento, il ritardo, l’inerzia e la difformità), il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta della Cabina di regia o del ministro competente, assegna ai soggetti attuatori un termine per provvedere non superiore a 30 giorni. Si prevede inoltre una clausola di superamento del dissenso: in caso di “dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente” che possano provenire sia da un organo statale sia da quello regionale, è previsto che se esso si riferisca all’organo statale, la questione sarà portata all’attenzione del Consiglio dei ministri; nell’ipotesi in cui, invece, esso riguardi l’organo regionale, la questione è sottoposta alla Conferenza permanente, chiamata a “concordare le iniziative da assumere”. Nel caso di stallo, tuttavia, sarà possibile per il Consiglio dei ministri esercitare i necessari poteri sostitutivi.
Alla luce di tutto ciò, esaminata la marginalità imposta alle Regioni nell’elaborazione dei progetti del PNRR, l’uso a scopo meramente consultivo delle Conferenze e l’ampliamento delle ipotesi di utilizzo dei poteri sostitutivi da parte del Governo centrale, pare chiaro che sull’altare della celerità sia stato sacrificata in buona parte la partecipazione delle Regioni che avranno il ruolo, sostanzialmente, di soggetti attuatori al pari di numerosi altri enti statali e non.
7 .Le tendenze europee sul controllo degli investimenti esteri alla luce della seconda relazione annuale
A cura di Matteo Farnese
Con il Regolamento 2019/452 si è introdotto nell’Unione europea un meccanismo di cooperazione nel controllo degli investimenti esteri più rilevanti a livello comunitario. Questo, oltre a dettare criteri comuni da tenere in considerazione durante le operazioni di screening, ha come primario obiettivo quello di stimolare gli Stati Membri sprovvisti di una disciplina di controllo degli investimenti esteri ad adottarne una conforme ai principi europei.
Dopo quasi tre anni dall’entrata in vigore del regolamento siamo entrati in una fase di maturazione e rafforzamento della disciplina. I dati e i contenuti della “Seconda relazione annuale sul controllo degli investimenti esteri in UE”, pubblicata in data 1° settembre 2022 dalla Commissione europea offrono alcuni spunti di riflessione in tal senso.
In particolare, sono interessanti i dati che riguardano la ripresa degli investimenti esteri nell’Unione, l’evoluzione delle legislazioni nazionali, il funzionamento del meccanismo di cooperazione e l’orientamento nei confronti dei diversi partner internazionali.
Con riguardo agli investimenti esteri nell’Unione, si registra un aumento del 52% rispetto al 2020 e dell’11% rispetto al 2019 (periodo pre-covid), per un totale di 117 miliardi di euro di investimenti esteri in entrata. Questa lettura, però, appare meno confortante se si allarga la prospettiva. Infatti, a livello globale, gli investimenti esteri diretti nell’Unione rappresentano solo l’8% del totale, a fronte del 27% riscontrato nel 2019.
Con riguardo allo sviluppo dei meccanismi di screening nei Paesi Membri, si registrano due tendenze principali: in primo luogo, l’avvio di consultazioni in gran parte dei Paesi ancora privi di una regolamentazione in materia, restando inerti solo Bulgaria e Cipro. In secondo luogo, il rafforzamento dei meccanismi di screening verso un allargamento delle ipotesi di operazioni soggette a scrutinio formale, in particolare in Italia, Francia e Germania. Questi dati dimostrano la bontà del regolamento europeo nel perseguire l’obiettivo di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia, rafforzando il controllo degli investimenti esteri nei Paesi maggiormente attrattivi di capitali esteri.
Con riguardo al meccanismo di cooperazione, sono stati 1563 i casi oggetto di comunicazione alla Commissione e agli Stati membri nel 2021, ai sensi dell’art. 5 del regolamento. Di questi, il 29% è stato oggetto di scrutinio formale, in aumento rispetto alla percentuale del 20% riscontrata nella relazione annuale del 2020. Dei casi soggetti a scrutinio formale, il 73% è stato autorizzato senza condizioni, il 23% è stato autorizzato con condizioni, l’1% è stato vietato e il 3% è stato ritirato dalle parti. Confrontando questi dati con la relazione annuale precedente, si può notare un notevole aumento nell’utilizzo di poteri speciali sotto forma di imposizione di condizioni, passato dal 12% del 2020 al summenzionato 23% nel 2021. L’utilizzo del potere di veto, al contrario è sceso dal 2% all’1%.
Questi dati dimostrano una crescente attenzione nei confronti degli investimenti esteri diretti, sia in relazione alla percentuale di casi scrutinati che nell’utilizzo effettivo dei poteri speciali. Il minor utilizzo del potere di veto, in particolare, può essere dovuto ai problemi giuridici che tale potere pone, soprattutto in caso di futura impugnazione del provvedimento. Per tali motivi, è ragionevole supporre che l’aumento nell’utilizzo dei poteri speciali tramite condizioni rappresenti un accettabile compromesso per gli Stati tra l’attrazione di investimenti esteri e la protezione dell’interesse nazionale.
Altri dati interessanti sul meccanismo di cooperazione riguardano la diversificazione di investimenti soggetti a screening in relazione ai Paesi Membri e i tempi dello scrutinio europeo. Con riguardo al primo profilo, viene evidenziato che il 70% delle notifiche proviene da quattro Stati, percentuale che sfiorava l’87% nell’anno precedente, registrando un miglioramento nella diversificazione dello screening ai fini di una migliore tutela del mercato interno. Con riguardo al secondo profilo, si è registrato un miglioramento nei tempi medi di risposta all’interno del meccanismo europeo, pari a 22 giorni civili (31 giorni civili con riferimento al 2020).
Con riguardo all’orientamento nei confronti dei vari partner nazionali, alcuni spunti interessanti si rilevano soprattutto in merito alla Russia, alla Cina e agli Stati Uniti. Infatti, la relazione sembra elaborare i dati passati palesando orientamenti attuali in considerazione delle varie dinamiche geopolitiche. In particolare: la Russia, che aveva visto crescere i suoi investimenti nel 2021, è stata oggetto di particolare attenzione a seguito della guerra in Ucraina e anche nella relazione annuale è rimarcata la necessità di porre particolare attenzione agli investimenti esteri russi; gli investimenti cinesi sono addirittura diminuiti, rimanendo al di sotto delle percentuali del 2020 e confermando la Cina come partner più colpito dall’entrata in vigore della normativa comunitaria. Menzione a parte per gli Stati Uniti, che emergono come Paese partner privilegiato, con cui si è formato un gruppo di lavoro “che ha permesso all’UE di consolidare le basi del proprio sistema di controllo”.
In conclusione, gli orientamenti estremamente positivi nei confronti del meccanismo da parte di istituzioni europee e Stati Membri appaiono, almeno in parte, discutibili. Infatti, mentre i risultati rispetto all’obiettivo di armonizzazione delle legislazioni nazionali, diversificazione del controllo degli investimenti esteri ed efficientamento dei tempi procedimentali sembrano essere positivi, il dato sull’utilizzo dei poteri mostra una particolare attenzione agli investimenti esteri diretti. È ragionevole ritenere che questa attenzione abbia scoraggiato gli investimenti esteri nell’Unione, che rappresentano una percentuale inferiore al 10% a livello globale, mentre solo due anni prima l’UE si confermava come secondo polo attrattivo mondiale con quasi il 30% degli investimenti esteri totali. Tale ricostruzione suscita ancora più preoccupazione alla luce di quanto accaduto (e ancora accade) nel 2022, caratterizzato dal conflitto in Ucraina e dalla crisi energetica europea: fattori che potrebbero disincentivare ulteriormente l’afflusso di capitali esteri nel vecchio continente.