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LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 4/2023

08/05/2023

Indice:

  1. LE SOCIETÀ PUBBLICHE QUOTATE NELLA CABINA DI REGIA DEL P.N.R.R. di Elena Valenti
  2. IL SINDACATO SULLE VALUTAZIONI DI MERITO NEL PARERE DI COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA di Giulia Moscaroli
  3. IL TAR PUGLIA CHIAMA, LA CORTE DI GIUSTIZIA RISPONDE: LA DIRETTIVA BOLKESTEIN DEVE ESSERE APPLICATA di Andrea Nardone
  4. LA LEGGE DI CONVERSIONE 41/2023 E LE NOVITÀ PER IL TERZO SETTORE – RIFLESSIONI SULLA SOPPRESSIONE DEL TAVOLO PERMANENTE PER IL PARTENARIATO ECONOMICO, SOCIALE E TERRITORIALE di Beatrice Tabacco
  5. LA PRONUNCIA DEL CONSIGLIO DI STATO SUL CASO SYNGENTA-VERISEM: UN ULTERIORE RAFFORZAMENTO DELLE PREROGATIVE STATALI? di Matteo Farnese
  6. IL PIANO ECONOMICO FINANZIARIO NEL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI di Antonio Iuliano
  1. LE SOCIETÀ PUBBLICHE QUOTATE NELLA CABINA DI REGIA DEL P.N.R.R. di Elena Valenti

Come noto, l’Unione Europea ha stanziato circa centonovantuno miliardi di euro per il Piano nazionale di ripesa e resilienza (P.N.R.R.) italiano, grazie alle sovvenzioni e ai prestiti del Dispositivo per la ripresa e resilienza, parte del progetto Next Generation EU.

Istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri, la Cabina di regia è l’organo con poteri di indirizzo politico che coordina e dà impulso all’attuazione dei progetti del P.N.R.R. In particolare, elabora indirizzi e linee guida per l’attuazione degli interventi del piano, anche con riferimento ai rapporti con i diversi enti territoriali, ed effettua la ricognizione periodica sullo stato di attuazione degli interventi, mediante l’attività di monitoraggio.

La Cabina di regia, previa istruttoria della segreteria tecnica, esamina inoltre i vari profili di criticità segnalati dai Ministri competenti per materia, al fine di indicare all’unità per la razionalizzazione eventuali interventi normativi idonei a garantire il rispetto dei tempi di attuazione.

Le riunioni della cabina di regia consentono di fare il punto sullo stato di avanzamento delle riforme e degli investimenti e permettono di individuare in modo tempestivo le possibili criticità e le inefficienze, al fine di intervenire con prontezza e rispettare gli impegni concordati con la Commissione.

La celerità nel raggiungimento degli obiettivi è perseguita anche mediante l’esercizio dei poteri sostitutivi. Nel caso di inerzie nell’esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori, l’art. 12 del decreto-legge del 31 maggio del 2023, n. 77, consente al Consiglio dei ministri, su proposta della Cabina di regia, di individuare l’amministrazione o l’organo cui attribuire l’esecuzione dei progetti. L’amministrazione o l’ente provvedono all’adozione dei relativi atti mediante ordinanza motivata anche in deroga alle disposizioni di legge, ad eccezione delle norme di carattere penale. Tale deroga deve tuttavia essere autorizzata dalla Cabina di regia.

L’entrata in vigore del decreto-legge del 24 febbraio 2023, n.13, successivamente convertito con legge del 24 aprile 2023, n. 41, ha rafforzato il ruolo dell’esecutivo a discapito della Cabina di regia, rendendo necessario l’intervento di quest’ultima soltanto nel caso in cui il Consiglio dei ministri non abbia già autorizzato tale deroga.

Tramite quest’evoluzione normativa, tesa a rendere più efficiente il coordinamento dell’attività di gestione, il legislatore ha inoltre previsto, all’art. 1 della legge del 24 aprile 2023, n. 41, l’istituzione della Segreteria tecnica al fine di vigilare sull’osservanza delle linee guida disposte dalla stessa Cabina di regia.

L’erogazione delle rate del P.N.R.R. è subordinata alla verifica, ad opera della Commissione europea, del raggiungimento dei milestone e dei target fissati per le varie misure. La disciplina della governance del Piano prevede una relazione sullo stato di attuazione da parte della cabina di regia, trasmessa alle Camere con cadenza semestrale, per il tramite del Ministro per i rapporti con il Parlamento.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza presenta obiettivi e scadenze ben definite, da realizzare in tempi certi, richiedendo quindi una struttura di governance idonea a realizzare il coordinamento, l’unitarietà degli indirizzi e la verifica dei risultati.

La governance del Piano risulta essere decentrata nella fase attuativa, poiché i numerosi soggetti attuatori possono appartenere ad ogni livello di governo, ma resta ancorata al carattere unitario dettato sia dal coordinamento della cabina di regia, che agisce come organo politico, sia dalla presenza del controllo fiscale del Servizio centrale.

È dunque fondamentale il coordinamento tra le diverse esigenze contrapposte: da un lato l’esigenza di centralità e coordinamento unitario a livello politico, dall’altro il decentramento a livello attuativo. È lo stesso decreto sulla governance del P.N.R.R, del 31 maggio 2021, n. 77, che indica alle pubbliche amministrazioni statali e locali le società partecipate come soggetti idonei a fornire l’adeguato supporto tecnico e operativo per assicurare l’effettiva e tempestiva realizzazione degli interventi.

Le società a partecipazione pubblica rivestono un duplice ruolo, quello di soggetti attuatori e soggetti che prestano assistenza alle amministrazioni. Quali società partecipate sono coinvolte in queste attività? Innanzitutto, si può fare riferimento alle società in house. Appare utile mettere in evidenza come il D.L. n. 77 del 2021 amplia l’area applicativa dell’in house providing consentendo alle amministrazioni di avvalersi del supporto tecnico delle società in house al fine di sostenere la definizione e l’avvio delle procedure di affidamento ed accelerare l’attuazione degli investimenti pubblici.

Il rischio è quello di una compromissione del requisito del controllo analogo, dal momento che vi è la possibilità per gli enti locali di avvalersi di qualsiasi società. Tuttavia, da una lettura sistematica della norma, si evince che l’art. 10 del D.L. n. 77/2021, nel consentire alle amministrazioni di stipulare apposite convenzioni con le società in house che sono iscritte nell’elenco delle stazioni appaltanti, debba riferirsi soltanto alle società statali. Le società in house locali sono infatti deputate perlopiù all’erogazione dei servizi pubblici e non svolgono attività di assistenza tecnica di supporto all’amministrazione, anche in ragione delle loro peculiari caratteristiche.

Oltre alle società in house, però, anche le società partecipate quotate sono coinvolte tanto nella realizzazione, quanto nell’assistenza alle pubbliche amministrazioni per l’attuazione dei progetti previsti dal P.N.R.R. L’impegno di queste società risponde all’esigenza di raggiungere più rapidamente ed efficacemente gli obiettivi previsti dal piano.

Si pensi, in particolare, alle grandi società a partecipazione pubblica quotate che operano nel settore dell’energia.  Eni, Enel, Terna e Snam rivestono un ruolo fondamentale per includere nel Piano nazionale ripresa e resilienza i progetti del Repower Eu, ossia il piano della Commissione europea per rendere l’Europa indipendente sul piano energetico. Eni, Enel, Terna e Snam, dunque, sono presenti nella Cabina di regia del Piano nazionale ripresa e resilienza, anche perché sono dotate della necessaria expertise tecnica per realizzare un programma di grandi investimenti in tempi brevi, come richiesto dal Repower Eu.

Tuttavia, la presenza delle società a partecipazione pubblica quotate come soggetti attuatori e possibili protagonisti all’interno della Cabina di regia solleva alcuni interrogativi.

L’influenza esercitata dalle società a partecipazione pubblica all’interno della Cabina di regia potrebbe comportare uno svantaggio per le piccole medie imprese e, più in generale, per i privati, già nell’attuazione dei bandi previsti dal P.N.R.R.

Si aprirebbe dunque una corsia preferenziale per le società pubbliche quotate, le quali rispondono, in qualità di società quotate, non soltanto all’interesse collettivo di raggiungere gli obiettivi previsti dal P.N.R.R, ma anche all’interesse degli azionisti.

L’ausilio tecnico può essere fornito anche dalle società a partecipazione pubblica quotate, a condizione che la partecipazione pubblica sia maggioritaria.

Per ottenere l’assistenza tecnica sui progetti del P.N.R.R le amministrazioni centrali e locali seguono le istruzioni fornite dal Ministero dell’economia e finanze, che risulta essere anche il principale azionista delle società stesse.

Se da un lato si potrebbe ravvisare il rischio che le operazioni societarie siano piegate agli interessi statali, a discapito degli azionisti, dall’altro tale rischio risulta essere mitigato dalla presenza dello Stato come azionista di maggioranza, per il tramite del Ministero dell’economia e delle finanze.

L’assistenza tecnica fornita dalle società a partecipazione pubblica, seppur non rientrante nelle attività ordinarie di impresa, non deve indurre a considerare le società partecipate alla stregua di enti pubblici in forma societaria.

Qualificare l’assistenza tecnica come attività amministrativa, si porrebbe in contrasto con la disciplina vigente, in particolare con le norme dello stesso Testo Unico delle società partecipate, che richiama in larga misura la disciplina di diritto comune, fatta eccezione per alcune deroghe.

La sfida sarà quella di trovare il percorso migliore affinché i diritti di azionista dello Stato vengano esercitati nel rispetto dell’autonomia delle società, attraverso indirizzi coerenti con le finalità che giustificano la presenza pubblica e nel rispetto del ruolo degli enti locali, prossimi alle esigenze della collettività. Il Piano di attuazione, integrato e revisionato, sarà prossimamente sottoposto al vaglio della Commissione Europea sull’energia, cui spetta l’ultima parola.

2. IL SINDACATO SULLE VALUTAZIONI DI MERITO NEL PARERE DI COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA di Giulia Moscaroli

La Sezione Quarta del Consiglio di Stato, con sentenza del 21 marzo 2023, n. 2836, si è pronunciata sul ricorso proposto da una società agricola per la riforma della sentenza del TAR Abruzzo, Sez. I, del 19 ottobre 2020, n. 365.

La vicenda prendeva le mosse dalla presentazione al comune di Capestrano, da parte della società agricola, di diversi progetti finalizzati alla realizzazione di una struttura di produzione e trasformazione vitivinicola. Nel 2019, tuttavia, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di L’Aquila e Teramo esprimeva parere definitivo negativo al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, cui seguiva il diniego del Comune al rilascio del permesso di costruire la cantina vitivinicola.

La società impugnava quindi i provvedimenti di diniego dinanzi al TAR Abruzzo, lamentandone in particolare il difetto di motivazione e di istruttoria. Il TAR respingeva, tuttavia, il ricorso.

Avverso la pronuncia del giudice di prime cure, la società agricola proponeva appello di fronte al Consiglio di Stato, denunciando nuovamente la carenza istruttoria insita nel parere negativo espresso dalla Soprintendenza e il difetto di motivazione per illegittima omessa indicazione degli effetti nocivi che la cantina avrebbe prodotto sul paesaggio.

I giudici di Palazzo Spada, nella pronuncia oggetto di analisi, condividono il tradizionale orientamento giurisprudenziale in materia di autorizzazione paesaggistica. Come noto, l’art. 146 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio) stabilisce che sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la Regione, dopo aver acquisito il parere vincolante del Soprintendente. L’esercizio di tale potere può essere delegato, come di prassi avviene, a Province e a Comuni per i rispettivi territori, così dando attuazione al principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118 Cost.

Il parere di compatibilità paesaggistica costituisce pertanto un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito della sequenza di atti preordinata al rilascio del provvedimento di autorizzazione paesaggistica. Le valutazioni in esso espresse mirano infatti all’apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica, destinati a confluire, all’esito del procedimento, nel provvedimento di concessione o di diniego dell’autorizzazione paesaggistica.

Il parere della Soprintendenza, autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ha peraltro valore vincolante e assume quindi una connotazione non soltanto di carattere consultivo, ma tale da possedere un’autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del richiedente, che la rende impugnabile ex se in sede giurisdizionale (cfr. TAR Puglia-Lecce, Sez. I, 3 dicembre 2010, n. 2784).

Secondo consolidata giurisprudenza, la Soprintendenza, nel rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, effettua delle valutazioni di fatti complessi, esercitando una forma di c.d. discrezionalità tecnica, a fronte della quale il giudice, sia pur all’esito di un controllo intrinseco (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 14 maggio 2021, n. 3809), può solo considerare se la decisione amministrativa rientri o meno nella gamma di risposte scientificamente plausibili e convincenti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167).

Pertanto, il giudice, salvo che l’interessato non sia in grado di mettere in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica della decisione amministrativa, dovrà dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente competente in materia.

Le amministrazioni, nell’esercizio dei propri poteri decisionali, si trovano spesso di fronte alla necessità di effettuare un difficile bilanciamento tra i beni ambientali e paesaggistici e i contrastanti interessi di natura perlopiù economica. Infatti, nel nostro ordinamento si può constatare l’assenza, ribadita anche dalla Corte Costituzionale con sentenza del 9 maggio 2013, n. 85, della primazia assoluta di alcuni diritti – c.d. tiranni – rispetto ad altri interessi costituzionalmente garantiti. Da ciò discende la necessità della tutela sistemica dei diversi interessi, i quali si pongono in rapporto di reciproca integrazione.

Il Consiglio di Stato evidenzia, d’altro canto, che la novella dell’art. 9 della Costituzione, ad opera della legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, depone nel senso di una maggiore tutela dei valori ambientali e paesaggistici, in un’ottica di solidarietà intergenerazionale e di sviluppo sostenibile. Di conseguenza, le diverse disposizioni che regolano i procedimenti in materia di ambiente e di paesaggio devono essere interpretate nel senso di conseguire una pregnante protezione di tali valori.

In questo senso si orienta anche la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2136, punti 2.5, 2.6) che ritiene non possa escludersi in radice la possibilità, per la Soprintendenza, di rendere un parere in ordine alla compatibilità di un progetto con la tutela del paesaggio, anche ove sia inutilmente decorso il termine ordinario di quarantacinque giorni stabilito dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Pur sottolineando la natura perentoria di tale termine, si ammette la possibilità per la Soprintendenza di rendere tardivamente il parere nell’ambito della conferenza di servizi indetta dall’amministrazione competente (art. 146, co. 9). Tale parere avrà tuttavia natura non vincolante e dovrà essere autonomamente e motivatamente preso in considerazione dall’amministrazione preposta al rilascio dell’autorizzazione finale. Questa opzione ermeneutica pare senz’altro finalizzata a una tutela effettiva dei beni ambientali, sempre garantendo comunque un equilibrio con l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.

Il Collegio giudicante sottolinea inoltre che la Soprintendenza, nell’ambito nel procedimento in cui analizza la compatibilità paesaggistica, può formulare delle valutazioni di merito, di cui dovrà tener conto l’autorità competente a emanare il provvedimento finale.

Infatti, con l’entrata in vigore il 1° gennaio 2010 del menzionato art. 146, la Soprintendenza esercita non più un sindacato di legittimità ex post (previsto nel regime transitorio fino al 31 dicembre 2009) sull’autorizzazione già rilasciata dalla Regione o dall’ente delegato, ma un potere che consente di effettuare anche delle valutazioni ex ante nel merito. Tale quadro normativo consente, quindi, una penetrante valutazione della Soprintendenza sulla compatibilità degli interventi edilizi con i valori paesaggistici già in sede endoprocedimentale.

Trattandosi di una valutazione che attiene al merito amministrativo, i poteri sindacatori attribuiti al giudice amministrativo sono di mera legittimità, con la conseguenza che il parere di compatibilità paesaggistica può essere censurato solo ove la decisione amministrativa sia incoerente, irragionevole o frutto di errore tecnico.

Pertanto, il Consiglio di Stato ritiene inammissibili le censure mosse dalla società appellante che attengono al merito delle valutazioni ampiamente discrezionali di un’autorità deputata alla tutela del paesaggio. Al contempo, reputa infondate le doglianze relative al difetto di istruttoria e di motivazione. Per i motivi summenzionati il Collegio giudicante respinge l’appello e conferma la pronuncia del TAR Abruzzo. Con la pronuncia analizzata, il Consiglio di Stato ribadisce e ripercorrere la precedente giurisprudenza amministrativa in materia di autorizzazione paesaggistica, in particolare aderendo all’orientamento attento a limitare il sindacato del giudice amministrativo ove vengano in rilievo delle valutazioni che concernono il merito amministrativo. Prevale, infatti, in giurisprudenza la tesi del c.d. controllo non sostituivo, il quale pare l’unico conforme al principio di separazione dei poteri che costituisce la base del nostro ordinamento costituzionale.

3. IL TAR PUGLIA CHIAMA, LA CORTE DI GIUSTIZIA RISPONDE: LA DIRETTIVA BOLKESTEIN DEVE ESSERE APPLICATA di Andrea Nardone

Con la recente decisione resa il 20 aprile 2023 nella causa C-348/22, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione Terza, è tornata a pronunciarsi, dopo quasi sette anni dalla sentenza Promoimpresa-Melis (cause riunite C-458/14 e C-67/15), sulla delicata materia delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo.

La pronuncia trae le mosse dal rinvio pregiudiziale operato ai sensi dell’art. 267 TFUE con l’ordinanza 11 maggio 2022, n. 743 del T.A.R. Puglia. Con quell’ordinanza i giudici pugliesi, condensando in nove quesiti un orientamento ben consolidato presso il loro consesso amministrativo, avevano demandato ai giudici di Lussemburgo il vaglio sulla conformità del quadro normativo italiano dispositivo di proroghe in materia di concessioni balneari con riferimento all’art. 49 TFUE e all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. In più di un’occasione, in effetti, il T.A.R. Puglia si è erto a vero e proprio avamposto rispetto alla prepotente avanzata dei principi di selezione dettati dalla “terribile direttiva”, giungendo finanche ad auspicare una radicale caducazione della Bolkestein in quanto, secondo la prospettazione di quei giudici, essa sarebbe stata adottata in difetto di una base giuridica adeguata.

Anche su questo punto la Corte di Giustizia ha fornito una risposta, ma conviene procedere con ordine. Nella sentenza in esame, infatti, i giudici di Lussemburgo cominciano dall’affermare che la direttiva 2006/123/CE, con gli artt. 9-13, ha proceduto a un’armonizzazione esaustiva concernente i servizi rientranti nel suo campo di applicazione, sicché è l’art. 12, rubricato “Selezione tra diversi candidati”, a dover essere eletto a parametro.

Il primo principio affermato è quello secondo il quale l’articolo 12, parr. 1-2, della direttiva 2006/123/CE deve essere interpretato nel senso che «esso non si applica unicamente alle concessioni di occupazione del demanio marittimo che presentano un interesse transfrontaliero certo». Ne discende, pertanto, che una procedura di selezione deve svolgersi «a prescindere» dalla vocazione transfrontaliera dell’affidamento, e dunque anche quando quest’ultimo presenti un interesse integralmente contenuto all’interno dei confini di un singolo Stato membro; quello delle situazioni meramente interne, peraltro, è un vero e proprio topos nella letteratura del diritto dell’Unione europea, dato l’effetto paradossale, in termini di parità di trattamento, che rischia di derivare dalla tutela in via esclusiva soltanto delle situazioni che abbiano un elemento di transnazionalità. Ad ogni modo, sul punto la Corte di Giustizia non ha aggiunto nulla di nuovo rispetto a quanto già aveva affermato nel 2018 nella sentenza Visser (cause riunite C-360/15 e C-31/16), nella quale si legge che le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123 «devono essere interpretate nel senso che si applicano anche a una situazione i cui elementi rilevanti si collocano tutti all’interno di un solo Stato membro».

Decisamente innovativo, invece, è il secondo principio dichiarato dalla Corte di Giustizia, secondo cui l’art. 12, par. 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che «esso non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione». Tale affermazione rappresenta un’importante precisazione rispetto a quanto espresso al paragrafo 43 della sentenza Promoimpresa-Melis del 2016, in cui l’accertamento del requisito della scarsità era stato demandato al giudice nazionale sulla base del presupposto che il rilascio delle concessioni demaniali avviene su base comunale, e non nazionale.

In realtà, la valutazione della scarsità delle risorse, in quel caso, era stata demandata al giudice nazionale dal momento che ci si trovava già in una fase patologica della procedura di affidamento, essendo stato incardinato un contenzioso. Nella fisiologia delle cose, invero, avrebbe dovuto essere la pubblica amministrazione – nella fattispecie l’ente comunale – ad accertare la natura scarsa o meno delle risorse da concedere.

Con l’affermazione contenuta nella sentenza oggetto della nostra attenzione, invece, si registra un’importante apertura nel senso di ammettere che sia lo Stato, una volta per tutte, ad effettuare la valutazione sulla scarsità delle risorse, mediante la determinazione di criteri «obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati». L’individuazione di siffatti criteri dovrebbe avvenire con i decreti legislativi da adottare in forza della delega contenuta nella Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 (legge 5 agosto 2022, n. 118).

Con il suo terzo enunciato, poi, la Corte di Giustizia ha definitivamente posto una pietra sopra alla censura relativa all’invalidità della direttiva Bolkestein, basata sul fatto che la stessa sarebbe stata adottata in difetto di una base giuridica appropriata. La direttiva 2006/123/CE, infatti, è stata correttamente adottata a maggioranza qualificata, e non all’unanimità, dal momento che gli artt. 47 e 55 TCE in materia di funzionamento del mercato interno rappresentavano la base giuridica conferente, derogando in virtù del criterio di specialità all’art. 94 TCE, relativo al ravvicinamento delle disposizioni degli Stati membri. La Corte di Giustizia, così, ha messoa tacere quell’orientamento secondo cui la direttiva Bolkestein avrebbe recato una surrettizia armonizzazione nel mercato interno, pur qualificandosi, dichiaratamente, come direttiva di liberalizzazione.

Il quarto principio affermato dalla Corte di Giustizia attiene alla natura self-executing della direttiva 2006/123/CE. Secondo i giudici di Lussemburgo, infatti, l’art. 12, parr. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE deve essere interpretato nel senso che «l’obbligo, per gli Stati membri, di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente tra i candidati potenziali, nonché il divieto di rinnovare automaticamente un’autorizzazione rilasciata per una determinata attività sono enunciati in modo incondizionato e sufficientemente preciso da poter essere considerati disposizioni produttive di effetti diretti». Da ciò deriva l’idoneità delle disposizioni euro-unitarie ad essere applicate in vece delle disposizioni nazionali contrastanti, quale sanzione per il mancato adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza del nostro Stato all’Unione europea (c.d. estoppel).

Eppure, non si deve trascurare che una disposizione prescrivente l’obbligo di una procedura di selezione imparziale, nell’ordinamento nazionale, esiste: si tratta dell’art. 16 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di recepimento della direttiva Bolkestein. Non sembra indispensabile, perciò, “passare” a tutti i costi per il tramite dell’applicazione forzosa dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE al fine di affermare la necessità dell’espletamento di una procedura di gara per l’affidamento dei lidi.  

Da ultimo, con il suo quinto principio, la Corte di Giustizia, sulla scia di quanto già deciso nella sentenza Fratelli Costanzo del 1989 (causa C-103/88), ha ribadito ancora una volta che l’obbligo di disapplicare la legislazione interna anticomunitaria incombe non solo in capo all’autorità giudiziaria ma anche, in prima battuta, sulle pubbliche amministrazioni, ivi comprese le autorità comunali.

I giudici di Lussemburgo, invece, hanno rifiutato di pronunciarsi in merito alla questione pregiudiziale – la nona – attinente alla compatibilità dell’art. 12, parr. 1 e 2, della direttiva Bolkestein con l’art. 49 del Codice della navigazione. Tale ultima disposizione riguarda il c.d. effetto devolutivo, al termine del periodo concessorio, delle opere inamovibili realizzate sul demanio, senza che venga corrisposto alcun compenso o rimborso. Si tratta di una previsione di importanza nevralgica per la concorrenzialità del settore, dato che l’automatico incameramento delle opere inamovibili rischia di produrre effetti anti-competitivi, nella misura in cui la prospettiva di perdere tutti gli investimenti effettuati può rendere meno appetibile la partecipazione alle gare.

La questione è stata ritenuta irricevibile, perché non rilevante ai fini della decisione; tuttavia, con ogni probabilità, sull’argomento la Corte di Giustizia sarà chiamata a tornare quando si pronuncerà in merito all’ordinanza 5 settembre 2022, n. 8010, della Sezione VII del Consiglio di Stato. Per tale ragione, chi scrive ha ragione di credere che il lavoro della Corte di Giustizia non possa ancora dirsi terminato.

4. LA LEGGE DI CONVERSIONE 41/2023 E LE NOVITÀ PER IL TERZO SETTORE – RIFLESSIONI SULLA SOPPRESSIONE DEL TAVOLO PERMANENTE PER IL PARTENARIATO ECONOMICO, SOCIALE E TERRITORIALE di Beatrice Tabacco

Il decreto legge n.13/2023 è stato convertito in legge il 21 aprile 2023.

La legge 41/2023 contiene le disposizioni per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e del Piano nazionale degli investimenti complementari al Pnrr (PNC), in aggiunta alle disposizioni per l’attuazione delle politiche di coesione e della politica agricola comune.

Il Senato ha introdotto numerose modifiche e integrazioni al decreto presentato dal Governo, sviluppando una legge composta da 58 articoli che riguardano vari ambiti. In particolare, le disposizioni che interessano il Terzo settore riguardano le politiche per la popolazione anziana, la disabilità e il Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale.

Con la legge 41/2023 viene istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri il Comitato interministeriale per le politiche in favore della popolazione anziana (Cipa), prevedendo l’adozione triennale, con aggiornamenti annuali, del “Piano nazionale per l’invecchiamento attivo, l’inclusione sociale e la prevenzione delle fragilità della popolazione anziana” e del “Piano nazionale per l’assistenza e la cura delle fragilità e della non autosufficiente nella popolazione anziana”. Quest’ultimo Piano sostituisce, per la parte inerente alla popolazione anziana, il Piano per la non autosufficienza – strumento programmatico per l’utilizzo delle risorse del Fondo per le non autosufficienze previsto dall’art. 1, comma 1264, l. 296/2006.

Per quel che riguarda la materia della disabilità, è stata modificata la disciplina in materia di “Carta europea della disabilità in Italia”, con l’ampliamento dell’ambito dei soggetti terzi ai quali l’Inps riconosce il diritto all’accesso, attraverso lo strumento della Carta e su richiesta dell’interessato, a informazioni contenute nei verbali di accertamento dello stato di invalidità o di disabilità, specificando che l’accesso può essere operato anche in via telematica tramite l’utilizzo dello stesso strumento della Carta. La novità si riferisce a tutti i soggetti pubblici e privati erogatori di beni o servizi in favore delle persone con disabilità. Il testo del decreto legge, prima delle modifiche introdotte con la conversione, concerneva esclusivamente le pubbliche amministrazioni, gli enti territoriali e le associazioni di tutela delle persone con disabilità maggiormente rappresentative.

La soppressione del Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale era già stata prevista nel decreto legge 13/2023.

 Il Tavolo era stato istituito con il Dpcm 14 ottobre 2021 presso la Presidenza del Consiglio nell’ambito dell’attuazione del PNRR. Il Tavolo svolgeva una funzione consultiva nelle materie connesse all’attuazione del Piano e poteva segnalare alla Cabina di regia ogni profilo ritenuto rilevante per la realizzazione del Piano stesso. Al Tavolo partecipavano, insieme al Governo e agli enti territoriali, anche le categorie produttive e sociali, le università, le organizzazioni della società civile e della cittadinanza attiva. Alle sedute dedicate al Terzo settore partecipavano specificatamente i rappresentanti degli enti e delle organizzazioni.

Per compensare la soppressione del Tavolo le sue funzioni sono state trasferite alla Cabina di regina istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il trasferimento non riguarda solo le funzioni in quanto alle sedute della Cabina potranno prendere parte i soggetti già partecipanti al Tavolo.

In vista delle future sedute, è stato richiesto un nuovo Dpcm per individuare i soggetti partecipanti per assicurare una maggiore rappresentatività: in particolare, il futuro Dpcm dovrà individuare i futuri rappresentanti degli enti territoriali e delle parti sociali, i rappresentanti delle categorie produttive e sociali, del settore bancario, finanziario e assicurativo, del sistema universitario, della ricerca e della società civile. La maggiore rappresentatività è richiesta per assicurare una piena cooperazione tra tutte le parti coinvolte.

In attesa del nuovo Dpcm, alle sedute della Cabina di regia è stata assicurata la partecipazione dei soggetti facenti parte del soppresso tavolo di partenariato già indicati dal precedente dl n. 77/2021 e individuati con Dpcm del 14 ottobre 2021.

Molto probabilmente la mancanza di uno spazio dedicato per la partecipazione dei rappresentanti del Terzo settore, come era il Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale, potrebbe portare al rischio di un confronto meno assiduo nell’attuazione del PNRR. Detto ciò, questo rischio sembra esser scongiurato tramite la previsione del coinvolgimento dei rappresentanti nelle sedute dedicate della Cabina. La predisposizione di un Dpcm che individui i futuri partecipanti in ottica di una maggiore rappresentatività è un’ulteriore tutela della qualità del confronto e della collaborazione. In attesa che le modifiche prendano sostanza pratica, le premesse sembrano riguardare solo la forma, confermando l’intenzione di continuare il confronto con i rappresentanti del Terzo settore per l’attuazione del PNRR.

5. LA PRONUNCIA DEL CONSIGLIO DI STATO SUL CASO SYNGENTA-VERISEM: UN ULTERIORE RAFFORZAMENTO DELLE PREROGATIVE STATALI? di Matteo Farnese

Nel bilanciamento tra prerogative governative e garanzie delle imprese, derivante dall’applicazione della normativa golden power, un ruolo di primaria importanza è svolto dalla giurisprudenza. Negli ultimi anni, il giudice amministrativo italiano si è più volte espresso sul tema, dimostrando un’attenzione maggiore alle istanze di protezione del Governo rispetto a quelle di garanzia avanzate delle imprese nazionali ed estere. Uno degli esempi più significativi riguarda il caso Syngenta-Verisem, su cui si è recentemente pronunciato il Consiglio di Stato, attraverso la sentenza del 9 gennaio 2023, n. 289. Nella citata pronuncia, il massimo organo della giurisdizione amministrativa offre indicazioni più precise sulle caratteristiche proprie del procedimento di controllo degli investimenti esteri diretti e sull’ampiezza della valutazione compiuta dall’amministrazione nella fase decisoria.

Al fine di comprendere meglio il più recente orientamento della giurisprudenza nella difficile ricerca di un punto di equilibrio tra prerogative pubbliche e garanzie private, occorre ripercorrere le principali tappe dell’operazione in esame.

Il caso prende avvio dall’acquisizione da parte di Syngenta, società controllata indirettamente dal governo cinese, del gruppo Verisem, attivo nel settore delle sementi. Il Governo, con il d.p.c.m. del 21 ottobre 2021, n. 3693, ha deciso di opporsi all’operazione, nonostante le risultanze dell’istruttoria non facessero intendere un pericolo tale da giustificare la misura adottata. Entrambe le società, con ricorsi separati, hanno impugnato la decisone di fronte al TAR, lamentando, tra gli altri, l’insussistenza dei presupposti di attivazione della normativa golden power e l’assenza di una motivazione rafforzata della decisione, in quanto contrastante con le risultanze dell’istruttoria.

Il Tribunale, con le sentenze del 14 aprile 2022 n. 4486 e 4488, ha respinto entrambi ricorsi, affermando, con specifico riguardo ai richiamati motivi di impugnazione, che la decisione dello Stato di esercitare o meno i poteri speciali si connota di «amplissima discrezionalità», in ragione della natura degli interessi tutelati. Inoltre, il TAR ha analizzato il compito del Gruppo di coordinamento, che raccoglie elementi di valutazione tecnica da sottoporre al Consiglio dei ministri, statuendo che quest’ultimo adotta il provvedimento libero da vincoli o, in particolare, da un obbligo di motivazione rafforzata qualora intenda decidere in modo diverso dalla proposta del Gruppo. La società Verisem ha impugnato, quindi, la decisione del TAR.

 Il Consiglio di Stato, attraverso la sentenza n. 289/2023, si è pronunciato sul caso in esame. La citata sentenza presenta molti punti di interesse, ma in questa sede si intende concentrare l’attenzione sul rapporto tra la fase istruttoria e decisoria del procedimento golden power e sulla discrezionalità riservata al Consiglio dei Ministri nell’esercizio dei poteri speciali.

Con riguardo al procedimento di controllo, questo viene considerato bifasico. La prima fase, di carattere puramente istruttorio, è affidata al Gruppo di coordinamento e al Ministero responsabile dell’istruttoria ed è finalizzata all’acquisizione degli elementi fattuali propedeutici all’esercizio dei poteri speciali. La seconda fase, decisoria, è affidata esclusivamente al Consiglio dei Ministri. Quest’ultimo è vincolato solamente dalle risultanze fattuali dell’istruttoria e non anche dalla proposta del Gruppo di coordinamento.

Questa ricostruzione, che completa e specifica quella proposta dal TAR, appare discutibile. Fermo restando che il Consiglio dei Ministri sia libero di adottare la misura più opportuna in relazione all’operazione notificata attraverso le proprie valutazioni, ciò non esclude che nel farlo non debba dar conto della proposta avanzata dal Gruppo di coordinamento, che rappresenta una valutazione preliminare della strategicità dell’operazione.

Con riguardo alla discrezionalità del Consiglio dei Ministri nell’esercizio dei poteri speciali, il Consiglio di Stato sembra riprendere, se non addirittura superare, le osservazioni svolte dal TAR, affermando che la valutazione delle operazioni tiene conto dei fini generali della politica nazionale, con particolare riguardo alla prospettiva economica, sociale ed anche al posizionamento internazionale del Paese (punto 14.1).

Su quest’ultimo aspetto, nel punto 18.5, si afferma che il controllo di un operatore economico nazionale da parte di uno Stato terzo con cui non intercorrono formali e cogenti legami è finalizzato a preservare, in ultima analisi, la sovranità statale, ai sensi dell’art. 1, comma 2, Cost.

Più in generale, il Consiglio di Stato, nel punto 18.4, sembra estendere ulteriormente il criterio della «amplissima discrezionalità» dell’amministrazione, rilevando che «la valutazione di strategicità non costituisce un dato oggettivo, ma la risultante di una ponderazione altamente discrezionale (se non apertamente politica) […]» che dipende «anche (se non soprattutto) dai soggetti coinvolti» oltre che dalla strategicità degli assets della società target.

Le osservazioni del Consiglio di Stato pongono almeno due profili problematici.

Il primo profilo riguarda il richiamato pericolo alla sovranità statale derivante dall’investimento estero diretto. Attraverso tale affermazione, sembrano sovrapporsi i concetti propri del diritto internazionale di imperium, ossia l’ambito entro cui lo Stato esercita la potestà di governo, e dominium, che invece ha una connotazione privatistica. Ebbene, la tutela della sovranità statale, secondo il diritto internazionale, attiene al piano dell’imperium e non del dominium, come invece accade nel caso in esame. Infatti, l’acquisto di proprietà all’interno del territorio nazionale non impedisce allo Stato di esercitare la propria potestà di governo. Appare, quindi, poco chiaro il riferimento alla protezione della sovranità statale (forse sovrapposta al concetto di interesse nazionale) derivante dal controllo degli investimenti esteri diretti.

Il secondo profilo, invece, riguarda la valutazione di strategicità operata dal Consiglio dei Ministri, definita come «apertamente politica» dallo stesso Consiglio di Stato, ponendo problemi sia sulla qualificazione del provvedimento di esercizio dei poteri speciali quale atto di alta amministrazione, sia sull’ampiezza di un’eventuale sindacato giurisdizionale. Lo stesso Consiglio di Stato limita il ruolo del giudice a profili di manifesta illogicità, ossia a «casi macroscopici in cui il Consiglio dei Ministri affermi i fatti smentiti dall’istruttoria o, al contrario, neghi fatti riscontrati nella fase istruttoria». A fronte di quanto detto, affermare che la valutazione di strategicità abbia un contenuto talmente tanto discrezionale da essere considerata come apertamente politica riduce di molto la possibilità per il giudice di rilevare la già complessa ipotesi di manifesta illogicità. In conclusione, la sentenza del Consiglio di Stato conferma e rafforza l’orientamento giurisprudenziale consolidato negli ultimi anni, più attento alle esigenze di protezione dei governi che alle garanzie richieste dalle imprese. L’ulteriore estensione del concetto di «amplissima discrezionalità» e il riferimento a concetti propri di altri campi del diritto, come la tutela della sovranità statale, rappresentano ulteriori tentativi del giudice amministrativo di avvalorare l’operato dei pubblici poteri a protezione delle attività strategiche nazionali. L’orientamento della giurisprudenza nazionale si pone, però, in contrasto con i principi europei e costituzionali che modellano la materia del controllo degli investimenti esteri diretti, come quelli di legalità, certezza del diritto e non discriminazione. È comunque ragionevole ritenere che il rafforzamento delle prerogative governative operato dal Consiglio di Stato sia giustificato dal perdurare delle tensioni internazionali. È, quindi, possibile che il superamento delle crisi odierne possa indurre il giudice amministrativo o, in prospettiva più ampia, il giudice europeo, a dare maggior rilievo alle istanze di garanzia avanzate dalle imprese rispetto alle prerogative di protezione dei pubblici poteri.

6. IL PIANO ECONOMICO FINANZIARIO NEL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI di Antonio Iuliano

Il piano economico-finanziario (PEF) rappresenta uno dei documenti chiave in materia di concessioni, in particolar modo quando finanziate attraverso la finanza di progetto. Tale documento, come si preciserà più avanti, dà forma all’equilibrio raggiunto tra il soggetto pubblico e quello privato nell’allocazione dei rischi. E’ dunque un elemento imprescindibile ai fini della configurazione di un’operazione di partenariato pubblico-privato contrattuale, essendo funzionale a garantire la sussistenza delle due componenti essenziali: il trasferimento del rischio operativo in capo al privato e l’equilibrio economico finanziario.

Ai fini della comprensione del ruolo del PEF, risulta utile il richiamo alla recente sentenza del Consiglio di stato, sez. V, n. 795/2022, ove si specifica che se la concessione si qualifica per il trasferimento del rischio operativo dal concedente al concessionario, il PEF è lo strumento mediante il quale si attua la concreta distribuzione del rischio tra le parti del rapporto, la cui adeguatezza e sostenibilità deve essere valutata dall’amministrazione concedente alla luce delle discipline tecniche ed economiche applicabili e sulla base delle eventuali prescrizioni che la stessa amministrazione ha dettato con la lex specialis della procedura per la selezione del concessionario.

Il nuovo codice dei contratti pubblici (d. lgs. 36/2023) contiene vari riferimenti al PEF, tra i quali si ritiene opportuno segnalare l’art. 182, dove, a proposito delle procedure di aggiudicazione delle concessioni, stabilisce che il bando e i relativi allegati, ivi incluso il PEF, sono definiti in modo da assicurare adeguati livelli di bancabilità; l’art. 185 ove, nello stesso ambito, prevede che, prima di assegnare il punteggio all’offerta economica, la commissione aggiudicatrice verifica l’adeguatezza e la sostenibilità del PEF; l’art. 190 in relazione alla risoluzione e al recesso dalla concessione; l’art. 192 in riferimento alla revisione del contratto di concessione; l’art. 193 a proposito delle procedure di affidamento tramite finanza di progetto.

La varietà di contenuti delle disposizioni richiamate consente di evidenziare la centralità del PEF non soltanto nella fase prodromica alla stipulazione del contratto, ma anche rispetto alle vicende successive, e, dunque, per la vita e l’esecuzione dello stesso.

Va da subito sottolineato come l’art. 193, a differenza delle altre disposizioni menzionate, faccia riferimento al Piano economico-finanziario asseverato e non semplicemente al PEF.

Ciò è in linea con il “vecchio” Codice dei contratti pubblici (d. lgs. 50/2016), il cui art. 183 (sempre a proposito di finanza di progetto) prevedeva che le offerte/proposte dovessero contenere anche un PEF asseverato da un istituto di credito, da società di servizi costituite dall’istituto di credito stesso ed iscritte nell’elenco degli intermediari finanziari oppure da una società di revisione.

Anche il d. lgs. 50/2016 conteneva molteplici riferimenti al PEF, facendo riferimento al PEF asseverato soltanto nelle disposizioni relative al Project financing. Tali disposizioni avevano peraltro il pregio di individuare i soggetti competenti all’asseverazione.

Le premesse potrebbero indurre a concludere che l’asseverazione sia necessaria soltanto ove si tratti di Project financing; tuttavia, le P.A. –sulla scia di quanto previsto dall’ANAC nella Guida alle pubbliche amministrazioni per la redazione di un contratto di concessione per la progettazione, costruzione e gestione di opere pubbliche in Partenariato pubblico privato, approvata con delibera 1116 del 22 dicembre 2020 – sono solite prevedere per tutte le operazioni di PPP l’asseverazione del PEF, come si può agevolmente constatare nella sentenza del Tar Lecce di cui infra.

La stessa guida ANAC non precisa quali siano i soggetti competenti ad asseverare il piano, facendo riferimento all’asseverazione – a tratti dandola per scontata – soltanto quando detta la definizione di Piano economico-finanziario.

Sarebbe stata auspicabile, con l’adozione del Nuovo Codice dei contratti pubblici, la generalizzazione, a livello normativo, dell’asseverazione, estendendola dunque anche ai PEF svincolati da operazioni di Project financing. 

Il PEF, difatti, è un documento che contiene dati e indicazioni la cui comprensione e interpretazione non sono accessibili ai più. In un tale scenario, l’intervento di professionisti dotati di specifiche competenze economiche e finanziarie è da considerarsi imprescindibile.

Il Nuovo codice, inoltre, a differenza del precedente, non contiene alcuna indicazione circa i soggetti cui è demandata l’asseverazione.

In tale contesto è di notevole interesse la sentenza del Tar Lecce  284/2023 del 01/03/2023 con cui si chiarisce che il Piano economico finanziario deve essere sottoscritto non soltanto dal legale rappresentante del concorrente (o dal suo procuratore), ma anche da un dottore commercialista o da un ragioniere abilitato all’esercizio della professione, i soli competenti ad asseverare la corretta allocazione dei rischi, tenuto conto dell’ineliminabile margine di aleatorietà, legato al trasferimento del rischio operativo in capo al privato, che consegue alla stipula del contratto di concessione (che manca invece nell’appalto).

E’ necessario precisare che la sentenza in questione interviene in relazione ad una procedura di gara il cui disciplinare stabiliva, coerentemente con quanto sopra affermato, che l’offerta dovesse essere corredata da un PEF sottoscritto oltre che dal legale rappresentante del concorrente -o dal suo procuratore- anche da un dottore commercialista o da un ragioniere abilitato all’esercizio della professione.

Per le ragioni in precedenza esposte, tuttavia, è da rilevarsi la portata potenzialmente generalizzata delle statuizioni ivi contenute.

Nella sentenza si precisa che il difetto della relativa sottoscrizione da parte dei succitati soggetti implica che il documento non contenga le caratteristiche per essere qualificato come PEF, mancando la fondamentale funzione di quest’ultimo, ossia consentire all’amministrazione di valutare la correttezza del criterio di allocazione dei rischi.

Il difetto di sottoscrizione implica la sostanziale mancanza del PEF, che non possiede dunque le caratteristiche per essere considerato tale.

La naturale conseguenza di tale affermazione è che la sua mancanza non può essere sanata mediante soccorso istruttorio, che per pacifica giurisprudenza consente di sanare qualunque elemento formale dell’offerta ma non di formare documenti nuovi, tale dovendo essere considerato un PEF che, non essendo sottoscritto entro il termine di presentazione delle offerte, implica una nuova valutazione dei rischi, determinando, quindi, la formazione di un documento ex novo oltre la scadenza dei termini, in violazione della par condicio competitorum e della segretezza dell’offerta tecnica.

La sentenza rammenta, inoltre, come il PEF abbia la fondamentale funzione di garantire l’equilibrio economico e finanziario attraverso la corretta allocazione dei rischi, nonché di dimostrare la concreta capacità dell’operatore economico di eseguire correttamente la prestazione per l’intero arco temporale di durata del contratto, così da consentire all’amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione (v. anche Cons. Stato, sez, V, 4760/2013), in altri termini la sostenibilità dell’offerta, a dimostrazione che l’impresa sia in condizione di trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività (v. anche Cons. Stato, sez. V, 653/2010 e Cons. Stato, sez. V, 795/2022)

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