20/02/2023
Indice:
1. IL DIBATTITO PUBBLICO IN ITALIA E IL SUO FUTURO di Beatrice Tabacco
2. CONCESSIONI BALNEARI: LA CASSAZIONE NON CONCEDE PROROGHE di Andrea Nardone
3. IL SINDACATO GIURISDIZIONALE SULLA DISCREZIONALITÀ TECNICA: LE AUTORIZZAZIONI PAESAGGISTICHE di Giulia Moscaroli
4. I PIANI TERRITORIALI DI ASSISTENZA TECNICA E IL PIANO DELLA REGIONE LAZIO. di Samuele Marcucci
5. I PATTI PARASOCIALI NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE: IL CASO A2A di Elena Valenti
6. IL COORDINAMENTO DELLE DISCIPLINE GOLDEN POWER E ANTITRUST: IL CASO VIG/AEGON di Matteo Farnese
7. DETERMINAZIONE DELLE AREE IDONEE E QUESTIONI DI COMPETENZA. UNA PRONUNCIA DEL TAR SICILIA di Carlo Garau
1. IL DIBATTITO PUBBLICO IN ITALIA E IL SUO FUTURO di Beatrice Tabacco
Il dibattito pubblico rappresenta lo strumento individuato dal legislatore per anticipare i possibili conflitti che accompagnano la realizzazione di grandi opere. Questo processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico su opere di interesse nazionale si svolge nella fase iniziale della progettazione, nel momento in cui le alternative sono ancora aperte e la decisione – se e come realizzare una determinata opera -, deve essere ancora presa.
Il dibattito pubblico garantisce ai cittadini il diritto ad un’informazione corretta, completa e accessibile, e il diritto di prendere parte alle decisioni su progetti che li riguardano.
Lo strumento del dibattito pubblico è stato per la prima volta regolato in Italia nel 2016, con la riforma degli Appalti. I decreti attuativi sono stati però realizzati solo nel 2018, mentre la Commissione Nazionale Dibattito Pubblico è stata costituita nel 2020. L’emergenza sanitaria da Covid–19 ha rallentato i primi tentativi di dibattito pubblico e nel 2020, con il Decreto Legge n. 76, l’utilizzo di questo strumento è diventato facoltativo. La successiva evoluzione giunge con il PNRR del Governo Draghi, che nelle specifiche per l’attuazione del Piano si occupa del Dibattito Pubblico: ne viene incentivata l’applicazione e, nonostante i tempi di svolgimento siano stati ridotti, vengono abbassate le soglie dimensionali ed economiche per le quali è obbligatorio applicare il dibattito pubblico. Quest’ultimo passaggio avviene nel maggio 2021; al giorno d’oggi sono segnalati sul sito della Commissione Nazionale 17 Dibattiti Pubblici, dei quali nove sono già stati conclusi e otto sono ancora in corso.
Nell’elaborazione del modello del dibattito pubblico italiano è stato preso come esempio quello francese, più datato – nasce già nel 1995 –, e con una più ampia applicazione. Il nostro modello, a differenza dell’istituto francese, che prevede una Commissione Speciale incaricata di coordinare un singolo dibattito relativo ad uno specifico progetto, affida il coordinamento ad un solo soggetto. Dal momento che il coordinatore nostrano viene scelto attraverso una gara pubblica, il modello italiano si inserisce in una dinamica di mercato che potrebbe portare ad una riduzione delle risorse utilizzabili. Proprio una minore disponibilità di risorse, dovuta ai meccanismi di mercato, potrebbe pregiudicare la sua indipendenza e autonomia.
Nonostante anche i tempi e il budget a disposizione siano diversi, il fine rimane lo stesso: informare in maniera trasparente la cittadinanza sull’opportunità dell’opera, discuterne le implicazioni, raccogliere preoccupazioni e critiche, migliorare il progetto e arricchirlo grazie al contributo degli abitanti. Il nuovo Codice dei Contratti Pubblici si inserisce all’interno di questa cornice a seguito di un anno di sperimentazioni. Secondo questo schema, il Dibattito Pubblico si aprirebbe con la pubblicazione, da parte della stazione appaltante sul proprio sito internet, del progetto. A questo punto, i soggetti che ritengono possa derivare loro un pregiudizio dall’intervento hanno 60 giorni per presentare le loro osservazioni, trascorso il quale, il coordinatore del Dibattito Pubblico si accinge a vagliare le osservazioni raccolte, redigendo una loro “sintetica descrizione” e indicando quelle “meritevoli” di considerazione. Pubblicata la relazione, il Dibattito Pubblico si ritiene concluso. La Commissione Nazionale Dibattito Pubblico, la rendicontazione degli esiti da parte del coordinatore e l’obbligo di risposta da parte di chi propone l’opera non sono a questo punto più necessari. La partecipazione viene limitata solo ai soggetti formalmente organizzati che ricaverebbero un danno dalla realizzazione dell’opera. Il processo diventa dunque esclusivamente digitale, scevro da qualsiasi forma di confronto e scambio.
2. CONCESSIONI BALNEARI: LA CASSAZIONE NON CONCEDE PROROGHE di Andrea Nardone
Con sentenza 10 gennaio 2023, n. 404, la Terza Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva disposto il dissequestro del ristorante Pois Pub, sito su un’area del demanio marittimo nel teramano. Quell’area, in un primo momento, era stata infatti sottoposta a sequestro preventivo per l’ipotizzata realizzazione di alcuni reati edilizi, nonché in considerazione della contravvenzione di occupazione abusiva di cui all’art. 1161 cod. nav.: a ciò si era pervenuto a seguito di taluni sopralluoghi dell’Ufficio Demanio Marittimo della Giunta Regionale abruzzese, il quale aveva riscontrato alcune criticità nella concessione. In particolare, la metratura della porzione di demanio marittimo occupata era risultata superiore a quella effettivamente concessa; inoltre, sul bene erano state realizzate delle innovazioni non autorizzate.
Per effetto di ulteriori accertamenti della Guardia Costiera, era poi emerso in un secondo momento che la società concessionaria del bene demaniale non aveva corrisposto i canoni concessori a partire dal 2009, per un ammontare che superava i 363 000 euro, né tantomeno erano state liquidate le relative imposte regionali, per quasi 42 000 euro. La società, ad ogni modo, aveva continuato ad occupare l’area, pur risultando la concessione in oggetto scaduta al 31 dicembre 2007. Per tali ragioni, il Tribunale di Teramo aveva ritenuto sussistenti gli elementi per l’applicazione della misura cautelare del sequestro preventivo.
In sede di riesame, nondimeno, la società concessionaria aveva ottenuto l’annullamento del decreto dispositivo della misura, avendo il Tribunale di seconda istanza ritenuto insussistenti tanto il fumus boni juris quanto il periculum in mora. Il nucleo principale delle argomentazioni difensive, accolte dal Tribunale del riesame, si appuntava sul fatto che la concessione, anziché essere scaduta, doveva intendersi automaticamente rinnovata a favore della medesima società: la concretizzazione di tale rinnovo rappresentava, in ordine cronologico, il presupposto per poter beneficiare delle proroghe successive. Infatti, solo in quanto fosse stata previamente rinnovata la concessione, il titolo avrebbe potuto allora beneficiare, in fila, di tutte le proroghe successive disposte dal legislatore, a partire da quella dell’art. 1, comma 18, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in legge 26 febbraio 2010, n. 25.
I presupposti della pronuncia del Tribunale del riesame, tuttavia, erano ritenuti fallaci dal Procuratore della Repubblica di Teramo, che ricorreva avverso il provvedimento di dissequestro. La concessione in oggetto, infatti, secondo il Procuratore, era scaduta al 31 dicembre 2007, né la medesima poteva intendersi tacitamente rinnovata. L’argomentazione dell’accusa, in particolare, evidenziava come, nonostante l’esistenza di una clausola di rinnovo automatico, la fattispecie non potesse dirsi perfezionata, ostando a ciò la mancata corresponsione del canone a partire dal 2009. L’inadempimento, pertanto, avrebbe comportato la decadenza della società dal beneficio della concessione, con conseguente onere di sgomberare l’area e di riconsegnare il bene.
Il ricorso viene ritenuto fondato dalla Suprema Corte. I giudici arrivano a tale conclusione dopo aver operato una ricostruzione dogmatica della differenza tra proroga e rinnovo della concessione: solo la prima, correttamente, implica la continuazione di un rapporto concessorio senza soluzione di continuità, essendo la seconda, invece, del tutto simile al rilascio ex novo di un ulteriore provvedimento. Pertanto, affinché possa realizzarsi il rinnovo di una concessione, occorrono tutti gli elementi della relativa fattispecie, a partire dalla regolarità della corresponsione del canone.
Tale regolarità era mancata nella concessione in esame, impedendo che si perfezionasse la fattispecie del rinnovo. Il titolo, perciò, era definitivamente scaduto al 31 dicembre 2007; esso, di conseguenza, non risultava più “esistente” nel 2009, e cioè allorché il legislatore ha disposto la prima di una serie di moratorie con l’art. 1, comma 18, del suddetto d.l. n. 194/2009. La società che gestiva il Pois Pub, in quel momento,doveva ritenersi già decaduta dal provvedimento, e dunque non aveva potuto beneficiare della moratoria; né la decadenza necessitava di un espresso procedimento amministrativo della Regione Abruzzo che la dichiarasse, «in quanto tale istituto caducatorio presuppone inevitabilmente la sussistenza di un rapporto giuridico valido ed efficace e non, come in questo caso, una situazione già scaduta e, quindi, definitivamente esaurita».
Di conseguenza, neppure le proroghe seguenti avrebbero potuto innestarsi sulla concessione del Pois Pub, essendo le successive previsioni legislative rette da una logica di concatenazione (sul punto, cfr. pure il caso dei Bagni Liggia di Genova in Cass. Pen., Sez. III, sentenza 13 aprile 2022, n. 15676). Nel caso del Pois Pub, dunque, la catena era “spezzata” già prima delle proroghe previste dal legislatore, mancando, a monte, un anello.
In quest’ottica – chiarisce la Cassazione – neppure vale invocare la nuova proroga disposta dall’art. 3 della legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021), che ha prolungato la durata delle concessioni in essere al momento della sua entrata in vigore fino al 31 dicembre 2023, escludendo altresì per le stesse la configurabilità della contravvenzione di occupazione abusiva ex art. 1161 cod. nav. Tale disposizione, infatti, non trova applicazione per le concessioni – come quella in esame – che non fossero in essere al 27 agosto 2022, data di entrata in vigore della legge.
La sentenza della Cassazione in commento in questa sede, dunque, non si discosta dalla giurisprudenza consolidata in materia, inquadrando il fenomeno delle proroghe nel contesto delle libertà di matrice euro-unitaria. Il susseguirsi di una sequela tanto lunga di moratorie, a ben vedere, appare in contrasto con la logica del diritto dell’Unione, che si informa ai principi di trasparenza, imparzialità e pubblicità nel rilascio delle «autorizzazioni» (art. 12, direttiva Bolkestein); né sembra più possibile, dopo circa quattordici anni dalla prima proroga di cui all’art. 1, comma 18 del d.l. n. 194/2009, ancora giustificare un tale regime in nome della sua eminente «transitorietà» (Corte costituzionale, sent. 18 luglio 2011, n. 213).
Quanto sopra fa riflettere su quale possa essere la sorte di eventuali nuove proroghe che il legislatore dovesse disporre d’ora in poi. Nel momento in cui si scrive, infatti, sono in discussione al Senato alcuni emendamenti al decreto-legge 29 dicembre 2022, n. 198,recante «Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi» (c.d. Milleproroghe), tesi, tra l’altro, a disporre un nuovo differimento delle gare per il rinnovo delle concessioni balneari fino al 31 dicembre 2024.
Il destino di una simile disposizione, qualora dovesse essere approvata, non sembra poter essere diverso dalla sua disapplicazione. Sul punto vale la pena di richiamare il dictum dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nelle sentenze gemelle nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, nelle quali si legge che eventuali proroghe legislative ulteriori rispetto a quella fino al 31 dicembre 2023 «dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere».
3. IL SINDACATO GIURISDIZIONALE SULLA DISCREZIONALITÀ TECNICA: LE AUTORIZZAZIONI PAESAGGISTICHE di Giulia Moscaroli
Con la sentenza del 5 dicembre 2022, n. 10624, la Sezione Sesta del Consiglio di Stato si è pronunciata sul ricorso proposto dal Ministero della Cultura avverso la pronuncia del TAR Emilia Romagna, Sez. I, 3 giugno 2021, n. 542.
La vicenda prende le mosse dall’istanza volta a ottenere un permesso a costruire in sopraelevazione presentata dal proprietario di due unità abitative site nel parco Talon, area interessata da vincolo paesaggistico. La Sovrintendenza si esprime in modo favorevole in relazione all’istanza per la prima unità abitativa, ma emette un parere contrario il 2 ottobre 2020 sulla richiesta di sopraelevazione della seconda unità. Il parere negativo, dal quale consegue il diniego di autorizzazione paesaggistica del Comune, deriva dal fatto che, ad avviso della Sovrintendenza, la proposta di sopraelevazione costituirebbe «un’interruzione della lettura dei profili collinari e delle visuali», determinando anche un’«alterazione dell’equilibrio consolidato» nell’ecosistema vicino al fiume Reno.
Il proprietario impugna quindi il parere negativo della Sovrintendenza, deducendone in particolare l’illegittimità e la carenza di motivazione. Il TAR Emilia Romagna annulla il parere e il diniego comunale, argomentando che la rilevata interferenza con il profilo collinare risulta smentita dalla documentazione fotografia prodotta. Da ciò deriva che il parere sovrintendentizio è viziato da errore di fatto ovvero da erronea percezione dello status dei luoghi.
Il Ministero della Cultura propone appello avverso la citata sentenza, lamentando l’eccesso di potere giurisdizionale in cui è incorso il giudice di prima istanza nel travalicare il limite del sindacato di legittimità sulla discrezionalità tecnica. Il TAR, infatti, ha sostituito la propria valutazione, di carattere opinabile, a quella parimenti opinabile emessa dalla Sovrintendenza. Diversamente da quanto affermato dal Tribunale, la documentazione fotografica dimostra inoltre che l’intervento richiesto dal proprietario determina un’interferenza con il profilo paesaggistico tutelato.
Il Consiglio di Stato, a fronte delle doglianze presentate dall’appellante, ricostruisce la differenza tra la discrezionalità amministrativa e la discrezionalità tecnica. Sono riconducibili alla prima le decisioni politico-amministrative che si traducono in un bilanciamento tra interessi contrapposti, sulla base dell’accertamento e della valutazione dei fatti che la legge individua quali presupposto della scelta. Il sindacato del giudice amministrativo rispetto a tali decisioni pubbliche è «incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme».
Per quanto concerne la discrezionalità tecnica, questa si traduce nella formulazione di un giudizio tecnico a seguito della valutazione di fatti complessi, i quali richiedono particolari competenze tecnico-scientifiche. In questo caso, non vi è ponderazione di interessi, ma applicazione di standard tecnico-scientifici. In tali ipotesi, il giudice amministrativo dovrà dunque compiere un vaglio alla luce del più severo parametro dell’attendibilità tecnico-scientifica.
Vi sono ipotesi normative nelle quali il fatto complesso viene preso in considerazione nella sua dimensione oggettiva di «fatto storico», per cui gli elementi descrittivi della fattispecie possono essere accertati direttamente dal giudice amministrativo. In altre ipotesi, invece, il fatto è mediato dalla valutazione delegata all’amministrazione sulla base di nozioni scientifiche e tecniche. In nessun caso, ad avviso dei giudici di Palazzo Spada, si può delimitare il sindacato del giudice amministrativo a una prospettiva critica meramente estrinseca. Non si possono, infatti, riconoscere ambiti di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non tangibili dal sindacato giurisdizionale.
Ove difettino dei parametri normativi stringenti, il giudice deve comunque valutare se la decisione pubblica sia convincente alla luce delle leggi scientifiche rilevanti e l’interessato può contestare l’accertamento amministrativo, essendo però onerato di dimostrare l’inattendibilità tecnico-scientifica. Il Collegio ritiene infatti che, solo ove l’interessato non assolva quest’onere e vi siano opinioni divergenti e plausibili, il giudice debba dare prevalenza alla posizione espressa dall’amministrazione competente.
Nel caso di specie, il proprietario ha assolto l’onere probatorio posto a suo carico, dimostrando l’inattendibilità della valutazione tecnica prospettata dalla Sovrintendenza in relazione all’asserita interferenza con il profilo collinare. Le opere di sopraelevazione richiesta, infatti, non alterano in modo significativo l’impatto percettivo del paesaggio, risultando indimostrata l’interruzione del profilo collinare.
Il Collegio condivide dunque quanto già statuito dal giudice di prime cure in relazione alla «sostanziale irrilevanza percettiva» del manufatto. Per questi motivi respinge l’appello presentato dal Ministero della Cultura.
Il tema dell’intensità del sindacato giurisdizionale sulle decisioni pubbliche è stato ampiamente affrontato dalla giurisprudenza, la quale non si è attestata sempre su posizioni concordanti. In senso conforme all’orientamento emerso dalla pronuncia analizzata, si può menzionare la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990 (relativa all’ampiezza dei poteri del giudice amministrativo in relazione alle sanzioni emesse dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), la quale ricostruisce l’evoluzione del sindacato giurisdizionale nell’ambito della discrezionalità tecnica.
Nella sua primigenia formulazione, infatti, il corollario di tale concetto era la delimitazione del controllo del giudizio sulle valutazioni complesse a una prospettivamente critica meramente esterna ed estrinseca. Ciò si giustificava alla luce del carattere ancillare della valutazione tecnica rispetto alla ponderazione degli interessi pubblici. Con il tempo tuttavia l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha ristretto i margini operativi della discrezionalità tecnica, richiedendo al giudice una piena conoscenza del fatto e dell’iter logico seguito dall’amministrazione. Quando poi, come nel caso dedotto, si tratti di “fatto storico accertabile direttamente dal giudice”, questi «non deve limitarsi a verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto, bensì deve procedere ad una compiuta e diretta disamina della fattispecie».
È possibile ravvisare anche precedenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa difformi da quelli oggetto di analisi, soprattutto in tema di autorizzazioni paesaggistiche. È il caso della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 11 aprile 2022, n. 2697, che ritiene inammissibili le censure dell’appellante volte a sollecitare il giudice amministrativo, al di fuori dei casi tassativi di giurisdizione di merito di cui all’art. 134 del Codice del Processo Amministrativo, a sostituirsi alle «valutazioni ampiamente discrezionali» riservate alle autorità preposte alla tutela del paesaggio. Nello stesso senso anche la sentenza 11 gennaio 2022, n. 181, resa dalla Sezione Quarta del Consiglio di Stato, respinge le doglianze relative al mancato esercizio di un giudizio di merito da parte del giudice di primo grado. La limitazione del sindacato di merito del giudice amministrativo in relazione al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica era stata peraltro affermata anche dalla pronuncia del TAR Lombardia, Sez. III, 7 marzo 2019, n. 472, che aveva affermato che «i giudizi espressi dagli organi competenti in materia di autorizzazione paesaggistica sono connotati da un’ampia discrezionalità tecnico – valutativa, poiché implicano l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Tali giudizi, pertanto, sono sindacabili, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione nonché sotto il profilo dell’adeguata motivazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giurisdizionale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile».
Si tratta, dunque, di una questione dinamica, che ancora non trova posizioni univoche.
4. I PIANI TERRITORIALI DI ASSISTENZA TECNICA E IL PIANO DELLA REGIONE LAZIO. di Samuele Marcucci
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza– trasmesso alla Commissione europea il 30 aprile 2020 ed approvato con Decisione di esecuzione del Consiglio del 13 luglio 2021 – prevede un insieme integrato di investimenti e riforme orientato a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività del Paese e a favorire l’attrazione degli investimenti accrescendo in generale la fiducia di cittadini e imprese. Tra gli interventi di riforma previsti, numerosi sono quelli tesi a ridurre gli oneri burocratici e a rimuovere i vincoli che hanno fino ad oggi rallentato la realizzazione degli investimenti o ne hanno ridotto la produttività.
Le riforme orizzontali, d’interesse traversale a tutte le missioni del PNRR, consistono in innovazioni strutturali dell’ordinamento, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e quindi il clima economico complessivo del Paese. Nell’ambito di queste, il Piano promuove un’ambiziosa riforma della Pubblica Amministrazione che prevede, tra l’altro, investimenti finalizzati alla digitalizzazione dei processi e dei servizi, rafforzamento della capacità gestionale ed il dispiegamento dell’assistenza tecnica necessaria alle amministrazioni centrali e locali onde determinare un utilizzo rapido ed efficiente delle risorse pubbliche.
Tutti gli investimenti, contenuti in ciascuna delle sei missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sono in carico ad un’amministrazione centrale. La missione 1 del PNRR “Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”, annovera tra gli investimenti previsti il 2.2. “Task force digitalizzazione, monitoraggio e performance”, è in carico alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Tale investimento prevede la creazione di una task force temporanea (3 anni) di circa 1.000 professionisti a supporto delle amministrazioni che, in particolare, si occuperà di: fare uno screening e produrre un catalogo completo delle procedure amministrative; identificarne i regimi di esercizio target; re-ingegnerizzare e semplificare le procedure, rivedendole in ottica digitale, estendendo i meccanismi di silenzio-assenso ove possibile, adottando gli strumenti Notifica Certificata (SCIA) e un approccio di semplificazione della comunicazione. La previsione è che circa 600 procedure critiche saranno semplificate e ridefinite entro la fine del PNRR, ovvero entro il 31 dicembre 2026.
In questo contesto, particolare attenzione viene rivolta alle procedure per l’edilizia e le attività produttive e all’operatività degli sportelli unici (SUAP, SUE), ridisegnando i relativi processi e assicurando l’interoperabilità delle informazioni tra amministrazioni. Al fine di valutare l’efficacia di questi interventi di semplificazione e favorire il confronto con i cittadini, sarà sviluppato un nuovo, trasparente, sistema di monitoraggio dei tempi di attraversamento delle procedure per tutte le amministrazioni pubbliche.
A questo investimento è stato assegnato l’importo di euro 368.400.000 e le risorse sono state poi ripartite con il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 novembre 2021, con il quale si sono definite anche le disposizioni attuative. Saranno le regioni e le province autonome, sulla base di appositi Piani territoriali di assistenza tecnica, a mettere a disposizione delle province, delle città metropolitane, dei comuni e delle loro unioni una quota dei professionisti ed esperti reclutati tramite questo meccanismo. Nel redigere i piani territoriali, le regioni dovranno tenere conto del grado di coinvolgimento di ciascun livello istituzionale nelle procedure amministrative individuate come critiche nello specifico territorio regionale e della titolarità di tali procedure. A seguito di tale riparto, è stato disposto che la Regione Lazio potesse procedere al reclutamento di 76 professionisti ed esperti.
Come previsto dal citato DPCM, anche la Regione Lazio si è incaricata di elaborare l’apposito Piano territoriale di assistenza tecnica (PTAT), necessario per mettere a disposizione delle sue strutture amministrative e degli enti locali regionali una quota dei professionisti ed esperti a disposizione, bilanciandone la misura rispetto al grado di coinvolgimento di ciascun livello istituzionale nelle procedure amministrative individuate come critiche e della loro titolarità. La Regione Lazio ha quindi provveduto ad adottare, con Deliberazione della Giunta regionale del Lazio n. 868 del 2 dicembre 2021, il Piano territoriale di assistenza tecnica, dopo che questo era stato oggetto di approvazione da parte del Capo del Dipartimento della Funzione pubblica.
Il Piano è stato redatto al termine di una ricognizione effettuata dalla direzione generale della Regione Lazio insieme agli enti locali, al fine di rilevare il fabbisogno di know-how tecnico e le linee di utilizzo di professionisti ed esperti. Tale ricognizione è stata effettuata per verificare le necessità di ciascun ente e di ciascuna direzione regionale, in particolare rispetto alle carenze di organico e competenze che avrebbero potuto rallentare il processo di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. La Regione ha quindi individuato gli obiettivi da realizzare, le risorse da impiegare, le modalità di attuazione, i tempi di intervento e i risultati attesi. Si è inoltre evidenziato in particolare le criticità da affrontare nello specifico contesto territoriale, gli obiettivi di semplificazione da raggiungere ovvero le procedure oggetto di supporto, le risorse ovvero gli esperti e professionisti da reclutare e la relativa distribuzione tra livelli di governo, i modelli organizzativi previsti ed infine i risultati attesi in termini di riduzione dei tempi e dell’arretrato. Il Piano, inoltre, definisce puntualmente la suddivisione degli esperti in tre diverse task-force multidisciplinari territoriali composte ciascuna da sedici esperti; una task-force multidisciplinare regionale composta da ventuno membri; una Segreteria Tecnica Progettuale composta da sette membri.
Aspetto rilevante del Piano territoriale di assistenza tecnica della Regione Lazio è la previsione di una Cabina di regia progettuale, con compiti di pianificazione strategica e verifica dell’impatto delle attività dei professionisti ed esperti. Questa verifica assume particolare rilievo poiché le risorse destinate allo strumento di assistenza tecnica per le annualità successive potranno essere erogate solo previa verifica del raggiungimento dei risultati programmati, da effettuarsi tramite monitoraggio dello stato di avanzamento delle attività e tramite valutazione periodica dei risultati in termini di riduzione dell’arretrato e dei tempi. Rispetto ai risultati da attendersi e da monitorare, il piano definisce una serie puntuale dei milestone che debbono essere raggiunte dalle diverse task-force.
La Cabina di regia progettuale è stata quindi istituita con determinazione del Direttore generale della Regione, e risulta composta dal Direttore generale della regione Lazio e dai Segretari generali dell’Associazione nazionale comuni italiani-Lazio, dell’Unione delle province italiane-Lazio, e dell’Unione nazionale comuni comunità montane-Lazio. Tale Cabina deve essere convocata almeno trimestralmente dal Direttore generale regionale. La Segreteria tecnica progettuale ha il compito di svolgere funzioni di supporto alla Cabina di regia progettuale nella pianificazione, monitoraggio, rendicontazione dell’attività di professionisti. Nella governance del Piano territoriale di assistenza tecnica è previsto infine che si debba attivare, con atto formale della Giunta regionale, un tavolo partenariale con funzione di canale di ascolto degli stakeholders del territorio sui temi afferenti alla semplificazione, alla reingegnerizzazione dei processi ed al miglioramento della capacità amministrativa ai fini dell’incremento di efficienza ed efficacia dei servizi resi all’utenza.
Va detto che quello dell’assistenza tecnica disciplinata dal DPCM del 12 novembre 2021, e utilizzata nei territori tramite i Piani territoriali, è solo uno, per quanto rilevante, degli strumenti di assistenza tecnica previsti per supportare gli enti territoriali nell’attuazione del PNRR. Infatti, viste le carenze strutturali, in termini di organico e competenze, delle amministrazioni regionali e locali e vista la fase di pressione che queste stanno vivendo nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, può facilmente considerarsi che senza l’ausilio, ad esempio, delle società partecipate pubbliche o dei sistemi di contabilità e gestione dei flussi finanziari introdotti dalle amministrazioni centrali, un esiguo pool di 76 esperti non sarebbe stato da solo sufficiente.
5. I PATTI PARASOCIALI NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE: IL CASO A2A di Elena Valenti
La A2A S.p.A è una società multiutility quotata in borsa operante nei settori della distribuzione della vendita del gas e dell’energia elettrica.
La società è stata costituita il 1° gennaio 2008 tramite fusione per incorporazione in Aem S.p.A Milano di ASM Brescia S.p.A e Amsa e gestisce per il tramite di società da essa controllate servizi economici di interesse generale secondo il modulo dell’in house providing nei confronti dei comuni soci.
Il comune di Brescia e il comune di Milano hanno sottoscritto un patto parasociale relativo all’assetto proprietario e alla corporate governance della società A2A S.p.A, che era partecipata da ciascun comune per circa il venticinque per cento del capitale. L’accordo è stato stipulato in data 1° febbraio 2017 e tacitamente rinnovato prima fino al 31 gennaio 2023 e poi, in quanto non oggetto di disdetta unilaterale, fino al 31 gennaio 2026.
Le società pubbliche quotate possono sia limitare la durata del patto per un tempo non superiore ad anni tre sia stipulare il patto a tempo determinato, prevedendo la possibilità per il socio di recedere, dopo aver adempiuto gli obblighi pubblicitari previsti dal T.u.f.
Per quanto riguarda il patto parasociale relativo ad A2A S.p.A, l’accordo ha durata fino al terzo anno dalla data di sottoscrizione, con rinnovazione tacita di triennio in triennio.
I comuni di Milano e di Brescia si impegnano a mantenere sindacato un numeri di azioni pari al quarantadue per cento del capitale sociale di A2A S.p.A e a gestire in modo coordinato la loro partecipazione, riconoscendosi vicendevolmente identici ruoli e poteri per quel che concerne le azioni sindacate.
La gestione coordinata dei comuni avviene in modo stabile e dura nel tempo, nella misura massima consentita dalla legge e dallo Statuto della società.
Con riferimento alle azioni non sindacate, i comuni si impegnano a non esercitare il relativo diritto di voto in modo divergente rispetto alle azioni sindacate.
Relativamente al profilo della corporate governance della società, l’accordo prevede che sia sempre rispettato il principio di pariteticità tra i rappresentanti dei comuni nel consiglio di amministrazione e nel comitato esecutivo, che il consiglio di amministrazione sia composto da dodici membri tratti dalle liste presentate secondo un principio di alternanza nella formazione della lista (in particolare, è previsto un numero pari a dodici componenti, di cui nove tratti dalla lista che ha ottenuto il maggior numero di voti e tre dalle precedenti), nonché l’indicazione congiunta dell’amministratore delegato, e il rispetto dei principi in tema di parità di genere. Il collegio sindacale sarà invece composto per il tramite di liste congiuntamente presentate.
In tema di patti parasociali nelle società partecipate dalla pubblica amministrazione, occorre richiamare in generale l’art. 9 d.lgs. n. 175/2016, che rinvia la conclusione, lo scioglimento, la modifica di questi patti all’art. 7 dello stesso decreto, che regola l’adozione degli atti deliberativi delle società.
Le deliberazioni aventi ad oggetto i patti parasociali devono essere adottate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministero dell’economia e delle finanze, se la deliberazione riguarda una società partecipata dallo Stato, attraverso un provvedimento regionale, se concerne una società partecipata dalla regione.
L’accordo tra il comune di Milano e di Brescia è stato deliberato con deliberazione di giunta da parte di ciascuno dei comuni.
Tra le società che fanno ricorso al mercato del rischio, sono previsti adempimenti pubblicitari per i patti parasociali stipulati nelle società pubbliche quotate e nelle società che le controllano.
Ai sensi dell’art 122 T.u.f. i patti parasociali devono essere pubblicati entro cinque giorni dalla stipula e comunicati alla Consob, depositati presso il registro delle imprese e comunicati alle società quotate.
Una copia dell’accordo è stata depositata presso il registro delle imprese di Brescia e l’estratto dell’accordo, come previsto dalle norme del testo unico sulla finanza e dal d.lgs. n. 58 del 1998, è stato pubblicato sul sito della Consob.
La Consob ha sempre facoltà di impugnare i patti stipulati in violazione delle norme in tema di pubblicità.
Per effetto della stipula del patto, i comuni di Milano e Brescia acquisiscono una posizione di minoranza all’interno della società, passando dal cinquanta per cento al quarantadue per cento.
Non si configurerebbe dunque il controllo analogo, requisito dell’ in house providing.
La partecipazione di minoranza da parte degli enti pubblici potrebbe avere conseguenze sfavorevoli per i cittadini, i quali avrebbero potuto vedersi ridurre la tariffa da parte di A2A per effetto del reinvestimento dell’utile nel servizio corrisposto laddove non si fosse lasciato spazio ai privati. La stipula del patto ha visto infatti l’opposizione di alcuni comitati locali che hanno cercato di opporsi alla privatizzazione del servizio pubblico.
6. IL COORDINAMENTO DELLE DISCIPLINE GOLDEN POWER E ANTITRUST: IL CASO VIG/AEGON di Matteo Farnese
Il Reg. 2019/452 rappresenta una novità nel panorama europeo, istituendo una cornice normativa per il controllo degli investimenti esteri diretti all’interno dell’Unione. La nuova normativa si inserisce nelle discipline regolatorie del mercato unico, all’interno delle quali, un ruolo di primo piano è occupato dal Regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio (Regolamento Merger). Appare, quindi, importante analizzare il rapporto tra il Reg. 2019/452 e la normativa antitrust al fine di comprendere il grado di coordinamento tra le discipline, anche alla luce delle prime applicazioni pratiche. A tal fine, appare utile concentrare l’attenzione su due fattori principali: lo scopo delle due normative e la possibile sovrapposizione applicativa.
Con riguardo al primo punto, lo scopo delle due normative è diverso. Il controllo degli investimenti esteri diretti offre tutela contro rischi alla sicurezza e all’ordine pubblico dello Stato mentre il controllo delle concentrazioni è volto a garantire una concorrenza leale e i principi di un’economia di libero mercato all’interno dell’Unione.
Con riguardo al secondo punto, è concepibile una sovrapposizione del campo di applicazione delle due discipline. È, infatti, possibile che una concentrazione di dimensione comunitaria possa riguardare almeno una società attiva nei settori di rilevanza strategica nazionale. In tal caso, si attiverebbero entrambi i controlli ai sensi delle rispettive normative. La circostanza di una possibile sovrapposizione delle discipline pone la questione fondamentale del coordinamento tra le stesse.
Tale aspetto sembra essere regolato dal considerando 36 del Reg. 2019/452, che impone una coerente applicazione tra le discipline, e dall’art. 21, par. 4 del Regolamento Merger, che prevede alcune eccezioni alla competenza esclusiva della Commissione nel controllo delle concentrazioni. In sintesi, l’articolo in esame prevede due tipologie di provvedimenti eccezionali adottabili dagli Stati membri: quelli per cui vi deve essere una preventiva comunicazione alla Commissione europea al fine di accertarne la legittimità e quelli per cui tale comunicazione non è prevista. In quest’ultima categoria rientrano i provvedimenti adottati a tutela della sicurezza pubblica. È, quindi, possibile che ogni provvedimento adottato ai sensi della normativa golden power, il cui scopo è quello di tutelare la sicurezza pubblica dello Stato, rappresenti un’eccezione alla competenza della Commissione? Al fine di chiarire tale aspetto, si può far riferimento alla decisione del 21 febbraio 2022 della Commissione europea riguardante il caso M.10494 – VIG/AEGON CEE, resa pubblica in data 6 febbraio 2023.
Il caso riguardava l’acquisizione da parte di VIG, gruppo assicurativo austriaco attivo nel centro e nell’est Europa, dell’intero capitale sociale di AEGON CEE, società che comprende i business polacchi, romeni, ungheresi e turchi del gruppo assicurativo AEGON. Nei confronti dell’operazione in esame, il 6 aprile 2021 il Ministro dell’interno ungherese ha adottato un provvedimento di veto ai sensi della normativa Golden power nazionale, negando l’acquisizione del business ungherese per motivi di sicurezza pubblica. Il 20 luglio 2021 la Commissione europea ha iniziato un’indagine nei confronti di tale decisione inviando la prima richiesta di informazioni all’Ungheria.
L’autorità ungherese ha risposto attraverso le seguenti motivazioni: (i) il provvedimento è stato adottato a tutela della sicurezza pubblica e non doveva essere comunicato preventivamente alla Commissione europea ai sensi dell’art. 21 del Regolamento Merger; (ii) la sicurezza pubblica rappresenta una riconosciuta eccezione alla libertà di stabilimento; (iii) è pratica comune per gli Stati membri controllare i settori strategici come quello assicurativo e altri Stati membri hanno regole simili; (iv) il veto si basa su informazioni classificate che non possono essere trasmesse alla Commissione; (v) le questioni sollevate sono state oggetto di giudizio di fronte a tribunale nazionale che ha deciso in favore del governo ungherese.
La risposta generale e vaga dell’Ungheria ha portato la Commissione europea a trasmettere, in data 29 ottobre 2021, un’ulteriore richiesta di informazioni al fine di specificare meglio le ragioni che hanno portato all’adozione del provvedimento di veto e che potessero giustificare una tale restrizione alla libertà di stabilimento. A fronte di tale richiesta, l’autorità ungherese non ha prodotto nuova documentazione rilevante a specificare i rischi dell’operazione o a escludere che l’utilizzo di provvedimenti meno incisivi avrebbe potuto essere sufficiente ad evitare i rischi prospettati. In data 21 febbraio 2022, con la decisione in esame, la Commissione ha accertato la violazione dell’art. 21, par. 4, Regolamento Merger da parte dell’Ungheria, ordinando di ritirare il veto all’acquisizione in modo che la Commissione potesse esercitare la competenza esclusiva in materia antitrust.
All’interno della decisione, la Commissione europea analizza il rapporto tra l’art. 21 del Regolamento Merger e la disciplina Golden power ungherese, rispondendo agli argomenti addotti dall’autorità nazionale. In particolare, la Commissione europea ha svolto la propria analisi attraverso tre argomenti principali.
In primo luogo, il fatto che il provvedimento di veto sia adottato a tutela della sicurezza pubblica non impedisce alla Commissione di indagare in quanto si offrirebbe allo Stato membro una facile via per aggirare il Regolamento Merger.
In secondo luogo, la Commissione ha analizzato la necessità di preventiva comunicazione del provvedimento di veto in quanto non adottato a tutela della sicurezza pubblica, bensì di un altro interesse. L’analisi della Commissione si è quindi concentrata sull’insussistenza di pericoli alla sicurezza pubblica derivanti dall’operazione, esaminando, oltre alla carente motivazione addotta dall’autorità ungherese, anche la presenza decennale di VIG in Ungheria e il fatto che nessun altro Stato membro interessato dall’operazione avesse sollevato questioni simili in relazione all’investimento. Appariva, quindi, improbabile che l’investimento potesse recare pericoli alla sicurezza pubblica e, in conseguenza di ciò, l’Ungheria avrebbe dovuto comunicare preventivamente il provvedimento di veto al fine di valutarne la legittimità. Attraverso questa valutazione, la Commissione si è sostituita allo Stato membro nell’analisi dei rischi svolta dall’autorità nazionale in quanto non sono stati addotti motivi convincenti a supportare le ragioni del veto.
In terzo luogo, la motivazione addotta dall’Ungheria, che essenzialmente si basava sulla presenza di informazioni classificate non condivisibili con la Commissione, rappresenta una violazione del dovere di leale cooperazione tra Stati membri e Commissione. Nonostante l’art. 346, par. 1, lett. a) del TFUE contenga una deroga che permette agli Stati membri di non fornire informazioni la cui divulgazione sia dallo stesso considerata contraria agli interessi essenziali della propria sicurezza, in svariate pronunce la CGUE ha rilevato che non vi è alcuna presunzione che le ragioni addotte dalle autorità nazionali siano valide, per cui grava sullo Stato membro l’onere della prova dei rischi presenti in caso di divulgazione delle informazioni.
In conclusione, la stessa Commissione europea, nella decisione in esame, sembra affermare che la coerente applicazione delle due discipline di cui al considerando 36 del Reg. 2019/452 debba essere intesa come la possibilità che il provvedimento di esercizio dei poteri speciali sia soggetto al vaglio della Commissione europea. Il controllo della Commissione europea può sostanziarsi in una valutazione dell’idoneità e proporzionalità del provvedimento nel contrastare il rischio che lo stesso intende affrontare, prendendo in considerazione sia gli elementi di contesto dell’operazione sia gli elementi di prova inviati dagli Stati membri riguardo le proprie valutazioni.
Un’ultima considerazione può essere svolta con riguardo al dialogo tra le autorità competenti delle due discipline. Paradossalmente, il fatto che l’operazione fosse una concentrazione tra imprese europee può aver facilitato il tentativo di elusione della normativa antitrust da parte dell’Ungheria. Infatti, in caso di concentrazione portata avanti da un investitore estero, si attiverebbe il meccanismo di cooperazione europea, permettendo un maggior coordinamento tra le autorità competenti. L’assenza di dialogo tra queste autorità in caso di operazioni intra-UE, quindi, sembra essere un aspetto rilevante, soprattutto alla luce delle ultime modifiche legislative adottate da molti Stati membri, finalizzate ad estendere la disciplina del controllo degli investimenti esteri diretti anche a operazioni puramente europee. È, quindi, auspicabile la previsione di un contatto tra le autorità competenti al fine di assicurare la coerenza negli esiti dei due procedimenti di verifica e, in ultima analisi, la definizione stabile della situazione giuridica delle imprese coinvolte nell’operazione.
7. DETERMINAZIONE DELLE AREE IDONEE E QUESTIONI DI COMPETENZA. UNA PRONUNCIA DEL TAR SICILIA di Carlo Garau
Con la Sentenza n. 299 del 2 febbraio 2023, il Tar Sicilia si è espresso relativamente alla potestà regolamentare dei Comuni in materia di definizione delle aree su cui è possibile installare impianti per la produzione di energia alimentati da fonti rinnovabili, in particolare, nel caso di specie, impianti fotovoltaici.
La Sentenza in questione si ritiene meritevole di analisi in quanto consente di tracciare delle coordinate utili a ricostruire il riparto di competenze in un settore, quale quello della regolamentazione nel settore delle energie rinnovabili, interessato, da un’intensa produzione legislativa europea e nazionale, specialmente in un periodo in cui si impone con forza la necessità di favorire la massima diffusione delle fonti di energia alternative rispetto a quelle fossili-tradizionali
Il giudice amministrativo è stato chiamato a decidere sulla base del ricorso avverso il provvedimento del Comune di Castelvetrano di rigetto dell’istanza di rilascio dell’autorizzazione mediante procedura abilitativa semplificata, ex art. 6, comma 2, d. lgs. n. 28/2011, per la costruzione di un impianto fotovoltaico di potenza di 900,00 kW e avverso il regolamento per l’installazione di impianti fotovoltaici adottato con deliberazione del Consiglio comunale n. 17 del 12.03.2014, nella parte in cui ha individuato le zone idonee e quelle inidonee all’istallazione degli specifici impianti fotovoltaici. Sulla base di quest’ultimo l’amministrazione comunale aveva disposto il rigetto, risultando il sito dell’impianto fuori dal perimetro delle aree definite idonee dal regolamento stesso, in quanto ricadente su area a destinazione d’uso agricola.
Il Tar Sicilia ha accolto il ricorso della Società dichiarando la nullità, per difetto assoluto di attribuzione, della delibera del Consiglio comunale e annullando il provvedimento di diniego adottato sulla base dello stesso.
Oltre ad aver ribadito il principio per il quale la disciplina, a qualsiasi livello, relativa all’autorizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili debba rispettare la riserva di procedimento, volta a garantire un bilanciamento degli interessi in concreto (v. Corte. Cost. 2019 n. 186), e pertanto non è legittimo prevedere la preclusione all’installazione di impianti in ragione della mera destinazione del sito, il collegio ha spiegato come il potere di regolare tale disciplina spetti soltanto alle Regioni, oltre che allo Stato e che queste ultime, inoltre, possano farlo entro specifici limiti stabili dalle Linee Guida nazionali per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili (D.M. 10 settembre 2010 n.219), da leggere alla luce del Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n.199 di attuazione della direttiva 2018/2001 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.
Il giudice amministrativo considera quanto disposto dal Decreto Legislativo 29 dicembre 2003 n.387, il quale all’articolo 12, comma 10 prevede che le Regioni possono procedere all’indicazione di aree e siti non idonei in attuazione delle Linee Guida, che prevedono, a loro volta, la possibilità per le Regioni di procedere alla indicazione di aree e siti non idonei attraverso un iter procedimentale fondato su un’apposita istruttoria avente per oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, della biodiversità e del paesaggio rurale. All’esito di questa istruttoria, la Regione procede a indicare, nell’atto di pianificazione, l’inidoneità di ciascuna area in relazione a specifiche tipologie o dimensioni di impianti motivando le incompatibilità con riferimento agli obiettivi di protezione perseguiti dalle disposizioni che sono state individuate.
Inoltre, in questo caso, rileva anche quanto disposto dall’art. 20 del Decreto Legislativo 199/2021, il quale prevede che “le aree non incluse tra quelle idonee non possono essere dichiarate non idonee alla installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale o nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee” e che sulla base dei decreti attuativi (ancora non adottati) le Regioni individuano con legge le aree idonee. Fino al momento dell’adozione dei decreti ministeriali da ultimo richiamati alle Regioni non può essere impedito di esercitare la propria competenza (Corte Cost. 2022 n. 216) e, pertanto, possono definire con il procedimento sopra descritto quali aree sono da considerarsi inidonee all’installazione di impianti alimentati da fonti di energia rinnovabile.
Tuttavia, si ritiene opportuno segnalare, come in parte fa la sentenza, l’evoluzione del quadro normativo all’interno del quale si inserisce il potere delle Regioni. Non solo la disciplina del Decreto Legislativo 199/2021, come modificata da ultimo dalla L. 108/2022, che introduce, prima ancora che intervenga la disciplina regionale, aree idonee ex lege per le quali i processi autorizzatori sono semplificati, ma anche il Regolamento (UE) 2022/2577 che, all’art. 3, introduce una presunzione relativa secondo cui “i progetti relativi a impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono considerati di interesse pubblico prevalente e di interesse per la sanità e la sicurezza pubblica nella ponderazione degli interessi giuridici nei singoli casi […]. Gli Stati membri possono limitare l’applicazione di tali disposizioni a determinate parti del loro territorio nonché a determinati tipi di tecnologie o a progetti con determinate caratteristiche tecniche, conformemente alle priorità stabilite nei rispettivi piani nazionali integrati per l’energia e il clima”.
L’autonomia decisionale degli enti locali è, in questo contesto, negata, come riconosce il TAR. Ma, si potrebbe aggiungere, come anche lo spazio riservato alle Regioni proceda verso una contrazione. Oltre a principi già acquisiti da tempo, quali la riserva di procedimento, l’obbligo di istruttoria negli atti di pianificazione, si aggiunge ai recenti interventi normativi, come quelli menzionati di cui al D.Lgs. 199/2021, un principio, direttamente applicabile a ogni procedimento, di derivazione europea, per il quale si presume prevalente l’interesse alla massima diffusione delle energie rinnovabili. Potranno le Regioni, nel procedimento di definizione delle aree idonee, non tenere conto di quanto qui stabilito? Potrà il Governo, in ipotesi, impugnare atti regionali anche sulla scorta di questo principio?