INDICE
1. L’EMA approva la pillola di Pfizer contro il covid-19 di Matteo Santarelli.
2. Il report sulla percezione della corruzione di transparency international premia l’Italia. Ma il mondo è ancora attanagliato dalla corruzione di Eugenio Parisi
3. La Corte di Giustizia si esprime sui rapporti tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione di Francesca Saveria Pellegrino
4. La relazione della Commissione tra screening degli investimenti stranieri e cooperazione europea, quali prospettive? di Tommaso Di Prospero
5. Struttura collegiale versus struttura monocratica del procedimento golden power: il caso syngenta-verisem di Matteo Farnese
1. L’EMA approva la pillola di Pfizer contro il covid-19 di Matteo Santarelli
Lo scorso 28 gennaio 2022 la Commissione Europea ha autorizzato la commercializzazione sul territorio dell’Unione Europea della pillola contro il Covid-19 Paxlovid, prodotta da Pfizer. L’autorizzazione è stata concessa sulla base di una raccomandazione all’utilizzo rilasciata dall’Agenzia Europea del Farmaco nella giornata precedente. La commercializzazione del primo farmaco antivirale orale contro il Covid-19 potrebbe rappresentare un punto di svolta nel contrasto alla pandemia nel vecchio continente.
Questo importante risultato, accolto con entusiasmo tanto dagli organi di stampa quanto da esponenti politici ed istituzionali, è stato raggiunto rapidamente grazie all’abile cooperazione dell’EMA con la Commissione Europea.
Difatti, in seguito alla richiesta di Pfizer Europe, in data 27/01/2022 il Comitato per i medicinali per uso umano (CHMP) dell’EMA ha raccomandato il rilascio di un’autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni per Paxlovid (PF-07321332 / ritonavir), un’antivirale orale indicato per il trattamento di COVID-19. Il giorno successivo, la Commissaria Europea alla Salute Stella Kyriakides, ha annunciato via social l’avvenuta concessione dell’autorizzazione da parte della Commissione Europea. La decisione di esecuzione della Commissione Europea C(2022)622 ai sensi del Regolamento Europeo N.726/2004 è stata rilasciata lo stesso giorno.
L’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco è stata concessa sulla base dell’art. 14 bis del Regolamento Europeo N.726/2004, successivamente modificato dal Regolamento Europeo N.1901/2006, il quale regola l’autorizzazione e la sorveglianza dei farmaci ad uso umano.
In situazionali emergenziali ed in presenza di determinate condizioni essenziali, l’articolo 14-bis consente l’autorizzazione all’immissione in commercio sulla base di un procedimento più rapido rispetto a quello ordinario previsto dall’articolo 14.
Le condizioni essenziali per il rilascio sono le seguenti:
-il rapporto beneficio-rischio del medicinale è positivo;
-è probabile che il richiedente sia in grado di fornire dati completi dopo l’autorizzazione;
-il medicinale soddisfa un bisogno medico insoddisfatto;
-il beneficio della disponibilità immediata del medicinale per i pazienti è maggiore del rischio insito nel fatto che sono ancora necessari dati aggiuntivi.
Inoltre, l’autorizzazione ha una durata rinnovabile di un anno (al contrario dei cinque previsti dalla procedura ordinaria) e può essere subordinata all’adempimento di determinati obblighi. Il procedimento regolato dagli articoli 5 ss. del Regolamento prevede il rilascio di un parere favorevole del Comitato per i medicinali ad uso umano interno all’EMA, esso è contenuto in una relazione con eventuali raccomandazioni della stessa, il quale deve essere seguito al termine della procedura dall’autorizzazione con decisione della Commissione ai sensi dell’articolo 87, paragrafo 3.
Il processo produttivo del medicinale aveva avuto inizio già nello scorso anno. Il lungo lavoro della casa farmaceutica statunitense Pfizer ha condotto, nello scorso dicembre, alla pubblicazione da parte della stessa dei risultati favorevoli ottenuti nella fase di sperimentazione. La casa farmaceutica aveva annunciato di aver completato il suo studio su 2.250 persone, che confermava i promettenti risultati: una riduzione di ricoveri e decessi stimata sull’89% tra gli adulti ad alto rischio, in seguito all’assunzione del farmaco dopo la manifestazione dei sintomi.
Pochi giorni dopo, in attesa della dell’autorizzazione, l’EMA aveva emesso un parere favorevole all’uso della suddetta pillola. Nel frattempo, il 22 dicembre la FDA (Food and Drug Administration) ha proceduto ad autorizzare il farmaco sul territorio statunitense, sulla base degli esiti positivi ottenuti in sede di sperimentazione.
Sulla base di valutazioni con esito analogo, l’Agenzia Europea del Farmaco ha concesso la propria raccomandazione condizionata. Lo studio analizzato dal Comitato per i medicinali ad uso umano (CMHP) ha messo a confronto le complicazioni dell’infezione tra pazienti ai quali è stata sottoposta la pillola antivirali ed altri ai quali è stato somministrato un farmaco placebo entro 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi. Nel corso del mese successivo al trattamento, il tasso di ospedalizzazione o decesso è stato dello 0,8% (8 su 1039) nei pazienti trattati con Paxlovid, rispetto al 6,3% (66 su 1046) in coloro che avevano ricevuto placebo. Non sono stati segnalati decessi nel gruppo Paxlovid, rispetto ai 12 eventi fatali2 nel gruppo placebo.
Il Comitato ha emesso un favorevole poiché ha stabilito che i benefici attesi dall’utilizzo approvato superano i rischi stimati. Inoltre, nonostante lo studio abbia preso per oggetto prevalentemente infezioni derivanti dalla variante Delta, si attendono risultati positivi anche contro la più diffusa variante Omicron. A tal proposito, un parere corrispondente era stato fornito anche dalla FDA statunitense.
Sul territorio nazionale la distribuzione per la somministrazione ai primi pazienti ha avuto inizio nella prima settimana di febbraio. Nella seduta tenutasi lo scorso 28 gennaio, il Comitato Tecnico Scientifico dell’AIFA aveva definito le modalità di utilizzo del farmaco, che ha integrato il parere favorevole all’utilizzazione in via emergenziale concesso lo scorso dicembre dallo stesso organo. Il parere favorevole del CTS sarà pubblicato a breve.
L’auspicio è che questa nuova terapia possa rappresentare una ulteriore efficace forma di protezione contro questa devastante malattia. Tuttavia, come rimarcato anche dalla Commissaria per la Salute dell’UE Stella Kyriakides, è bene riaffermare come terapie di questo tipo rappresentino una seconda linea di difesa contro il Covid-19, dopo la vaccinazione.
2. Il report sulla percezione della corruzione di transparency international premia l’Italia. Ma il mondo è ancora attanagliato dalla corruzione di Eugenio Parisi
Nato nel 1995, il report misura la percezione del fenomeno corruttivo nel settore pubblico. Il meccanismo di comparazione e di calcolo si basa sull’analisi di diverse fonti da parte di due esperti interni alla Ong e due esterni. Il report si basa su situazioni prese in considerazione e valutate da imprenditori ed esperti. Nella fattispecie, la Ong si basa sull’analisi della corruzione; sul dirottamento fraudolento di fondi pubblici; su casi di peculato o comunque di uso della propria posizione per interessi personali; di nepotismo e di State capture, ovvero quel fenomeno dove grandi imprese private manipolano la politica in modo che possano essere emanate leggi e regolamenti a loro favorevoli.
Le fonti e i dati visti pocanzi vengono poi valutati e analizzati in base a dei criteri che ne permettono di filtrare il contenuto e la valutazione.
In primo luogo, si controlla l’affidabilità della fonte. Tale affidabilità si basa sulla metodologia di ricerca e sulla raccolta dei dati da parte dell’istituzione; i dati ricevuti devono essere contestualizzati, vengono cioè analizzati in basi al tipo di corruzione e a che livello questa è consumata e come i meccanismi di prevenzione alla corruzione sono applicati e la relativa efficacia; Per stilare la classifica dei 180 Paesi esami, Transparency International fa una vera e propria comparazione dei dati ricevuti e analizzati per il singolo Paese. I dati esaminati devono essere quindi facilmente comparabili nei vari contesti nazionali. Fondamentale è la disponibilità pluriennale dei dati. Il CPI, infatti, misura come la percezione e la lotta alla corruzione si modifica nel tempo. I dati devono essere quindi comparabili nel lungo periodo, rendendo inutilizzabili tutte le informazioni non ripetibili nel tempo.
Uno dei problemi dei dati trasmessi per la pubblicazione del PCI è che non sono pubblicabili. Infatti, la Ong in molti casi non ha il permesso di pubblicare le fonti provenienti da privati. Rendendo per certi versi non trasparente l’analisi dei dati e quindi discutibile il risultato finale.
Ogni fonte, viene quindi standardizzata, il che permette l’aggregazione nel punteggio del CPI. La standardizzazione permette di conferire più facilmente il voto da 0 a 100. Più bassa è la votazione, più incisivo è il fenomeno corruttivo in quel Paese, più alto è il voto, minore corruzione viene percepita in quello Stato. Il voto viene calcolato attraverso una statistica dei risultati pervenuti dall’analisi delle informazioni ricevute. Nonostante il procedimento sia oramai oliato e aggiornato, l’Ong si riserva un margine di errore del 10%.
Transparency international, nel suo report, enfatizza il fatto che libertà di espressione, di riunione e l’accesso alla giustizia garantiscono la partecipazione alla vita politica del Paese, permettendo quindi di tenere sotto controllo la corruzione, in particolar modo quella politica. La Ong sottolinea infatti, che l’attuale ondata di autoritarismo che sta interessando diverse parti del globo, compreso il Vecchio continente, non è caratterizzata da colpi di stato e violenze, come invece accaduto nei regimi del XX secolo, ma da graduali riforme che minano la democrazia. Questo di solito inizia con attacchi ai diritti civili e politici, azioni canalizzate nel compromettere l’autonomia degli organi di vigilanza, libertà dell’elezione e indipendenza dei media. Tali attacchi consentono a questi regimi di eludere la loro responsabilità e limitare, se non eliminare ogni tipo di opposizione, creando così un circolo vizioso che permette alla corruzione di prosperare. Il report sottolinea come a causa la pandemia da Covid-19, a parte particolari casi come quello italiano, che vedremo più avanti, buona Parte dei Paesi esaminati si trova in uno stato di stagnazione, ovvero, che non vi sono stati particolari progressi rispetto all’anno passato, oppure stati fatti dei passi indietro, retrocedendo a posizioni inferiori nella scala e nella media dell’area geografica di appartenenza. Questo perché, ad avviso della Ong, la pandemia è stata la giustificazione di governi per limitare le libertà fondamentali. Il report sottolinea quindi come Paesi che proteggono i diritti umani e le libertà fondamentali siano in grado di gestire meglio il fenomeno corruttivo.
Secondo l’ultima pubblicazione i livelli di corruzione percepita sono rimasti sostanzialmente gli stessi rispetto al 2020. Su 180 Paesi 131 non hanno registrato progressi degni di nota. La media dei punteggi quest’anno, a detta della Ong è arrivata a 43 su 100. I risultati del report indicano che il Paese con minor corruzione al mondo è il Regno di Danimarca, con una votazione di 88, mentre fanalino di coda è la Repubblica del Sudan del Sud. L’Italia negli ultimi anni ha ottenuto ottimi risultati. Da un voto 42 del 2012, è oggi salita di 14 punti, vedendosi assegnare nel 2021 un 56. L’Italia ha incrementato il suo posto nella classifica del CPI grazie alla testimonianza dei c.d. stakeholder del settore privato, ovvero tutti i portatori di interessi specifici di un’azienda che stanno apprezzando gli sforzi di promozione dei principi di trasparenza, anticorruzione e integrità da parte delle istituzioni.
Nonostante le lodi, la Ong ha criticato l’Italia per una serie di impegni non mantenuti
L’Italia continua a essere in ritardo nel recepimento della direttiva 2019/1937 sulla protezione dei c.d. whisteblowing, il cui termine di recepimento è scaduto il 17 dicembre 2021.
L’assenza dei decreti attuativi per la pubblicazione del registro dei c.d. titolari effettivi, questi ultimi sono identificati dalla normativa antiriciclaggio, come tutte quelle persone fisiche per conto delle quali è realizzata un’operazione. Nel caso il soggetto fosse una persona giuridica, le persone fisiche che possiedono o controllano tale ente che ne risultano beneficiari. L’istituzione del registro si è avuto con il recepimento della direttiva Ue 2019/843, nota anche come Quinta direttiva antiriciclaggio.
Infine, si attende la risposta positiva del Senato della Repubblica per quanto riguarda la disciplina lobbying, già approvata alla Camera dei deputati, ma che attende la risposta dell’altro ramo del Parlamento. La normativa ha l’obbiettivo di ampliare la trasparenza delle attività di lobbying, nella fattispecie, attraverso l’istituzione di un registro per la trasparenza delle attività di rappresentanza di interessi presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust); presso la medesima autority si prevede l’istituzione di un comitato di sorveglianza sulla trasparenza dei processi decisionali pubblici, al quale sono attribuite le funzioni di controllo e irrogazione delle sanzioni, anch’esse previste nel testo di legge.
Secondo il report, i Paesi più virtuosi, per quanto riguarda trasparenza e mezzi alla lotta alla corruzione sono quelli dell’Europa Occidentale e dell’Unione europea, i quali hanno intrapreso una politica di anticorruzione e implementazione della trasparenza. Nonostante questo, il CPI sottolinea come anche in quest’area le restrizioni legate alla pandemia da Covid-19 rischiano di minare diversi sforzi.
L’emergenza sanitaria ha avuto ripercussioni piuttosto pesanti anche in Asia Centrale e Pacifica, nelle Americhe e nell’Est europeo. Infatti, proprio la possibilità di giustificare con la pandemia restrizioni delle libertà civili e poca trasparenza ha permesso anche in Paesi, fino a quel momento premiati dal CPI, di incrementare la corruzione, la quale sta piano piano erodendo le strutture della P.a. e della politica, diventando sempre più un fenomeno difficilmente gestibile.
Non vi sono cambiamenti significativi invece, nel Vicino Oriente e in Nord Africa. Infatti, qui, gli interessi di politici e oligarchi continuano a dominare la politica e l’amministrazione. Le limitazioni alle libertà fondamentali, che oramai fanno parte della quotidianità della maggior parte dei Paesi di questa regione da decenni, non permettono progressi nella trasparenza e nell’implementazione di mezzi anticorruzione.
Per quanto riguarda l’Africa Subsahariana i conflitti che ormai martoriano la popolazione civile, le transizioni di potere che sfociano in guerre civili, e la crescente minaccia terroristica porta alla quasi totale inosservanza di impegni riguardanti l’anticorruzione, privando buona parte della popolazione africana di diritti e servizi fondamentali.
Transparency international conclude il report auspicando che siano i cittadini a portare a un cambiamento. Infatti, la Ong a chiedere ai propri governi di agire contro il fenomeno corruttivo e aprire ai diritti umani. TI ricorda che una serie di battaglie contro la corruzione sono iniziate e sono state vinte partendo dal basso e dal coraggio della gente comune.
Descritto il meccanismo di calcolo e analisi per la redazione del Corruption perceptions index, bisogna sottolineare che questo sistema non brilla per oggettività. Da più parti si sono infatti, alzate voci contro il PCI il quale non prende in considerazione la corruzione nel mondo economico, ma esclusivamente quello della P.a. e della politica. Questo si riflette, sulla trasparenza e in alcuni modi sulla veridicità del report, essendo le informazioni per la redazione del report provenienti esclusivamente da fonti del mondo imprenditoriale.
3. La Corte di Giustizia si esprime sui rapporti tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione di Francesca Saveria Pellegrino
Con la sentenza del 21 dicembre 2021 la Corte di Giustizia si è pronunciata nella causa C-497/20 sulla questione pregiudiziale che le Sezioni Unite avevano sollevato con l’ordinanza 19598 del 2020. Nell’ordinanza di rimessione, il giudice del rinvio chiedeva se fosse compatibile con le disposizioni europee in tema di diritto a un ricorso effettivo, l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 6/2018, dell’ultimo comma art.111 Cost. Secondo tale interpretazione, le violazioni del diritto europeo non rientrano tra i motivi di giurisdizione, unico caso in cui è consentito impugnare le sentenze del Consiglio di Stato davanti alle Sezioni Unite. L’ordinanza è nota non solo per aver riaperto l’annosa questione circa i limiti e l’ampiezza del sindacato delle Sezioni Unite su sentenze del Consiglio di Stato, ma anche per aver evidenziato la forte distonia tra gli orientamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.
In primo luogo nella sua pronuncia la Corte di Giustizia, ritiene di dover riformulare il primo quesito. Pertanto ha eliminato, in quanto non pertinenti, i riferimenti all’art.2 TFUE paragrafi 1 e 2 e all’art.267 TFUE, i quali disciplinano la ripartizione tra l’Unione e gli Stati Membri della competenza a legiferare ed il controllo giurisdizionale del diritto dell’unione, inoltre ha introdotto, in quanto rilevante per la risoluzione della questione, il riferimento all’art.1 paragrafi 1 e 3 della direttiva 89/665 sugli appalti pubblici, che sancisce l’obbligo per gli stati membri di prevedere ricorsi efficaci, letto alla luce dell’art. 47 della Carta, il quale sancisce il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale.
Ribadito l’obbligo per gli stati membri di prevedere nei settori disciplinati dal diritto dell’unione dei rimedi giurisdizionali idonei a garantire una tutela effettiva, il giudice europeo pone la sua attenzione sulla compatibilità della limitazione al ricorso per cassazione prevista dalla nostra costituzione, come interpretata dalla Consulta, con tale prescrizione.
Come già evidenziato nelle sue conclusioni dall’Avvocato Generale, ciò che viene subito in rilievo è il principio di autonomia di cui gli stati godono nello stabilire i rimedi processuali. Gli unici limiti a detta autonomia sono costituiti dal principio di equivalenza, per cui i rimedi offerti per tutelare le situazioni disciplinate dal diritto europeo non possono essere meno efficaci rispetto a quelli previsti per situazioni analoghe di diritto interno, e dal principio di effettività, per cui l’accesso a tali rimedi non può essere impossibile o eccessivamente difficile.
Per quanto attiene al principio di equivalenza, gli stessi limiti circa la ricorribilità per cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato riguardano tanto le materie disciplinate dal diritto dell’unione quanto quelle disciplinate dal diritto interno. Di conseguenza, l’ultimo comma dell’art.111 Cost., così come interpretato dalla sentenza 6/2018, non viola detto principio.
In merito al principio di effettività le modalità di ricorso previste dal nostro ordinamento per le questioni di diritto amministrativo disciplinate dal diritto europeo, nello specifico il ricorso in primo grado al TAR e in appello al Consiglio di Stato, non rendono impossibile o eccessivamente difficoltoso l’accesso alla tutela.
Pertanto, nel rispetto di questi due principi, conclude la Corte, non è in contrasto con il diritto europeo una previsione legislativa nazionale per cui spetta al Consiglio di Stato pronunciarsi in ultima istanza nelle materie di sua giurisdizione tra cui quella dei contratti pubblici di rilievo per l’Unione e quindi limita la possibilità di censurare le relative decisioni davanti alla Corte Suprema.
Ad avviso della Corte di Giustizia, quindi, il nostro ordinamento garantisce un controllo giurisdizionale effettivo nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, assicurando un ricorso efficace e rapido davanti ad un giudice indipendente e imparziale perfettamente compatibile con il diritto europeo.
Pertanto, sulla compatibilità dell’art.111 ultimo comma Cost. (così come interpretato dalla Corte Costituzionale) con il diritto europeo e con il principio di effettività la sentenza non lascia spazio per ulteriori dubbi. Non sussiste un vincolo per il legislatore nazionale, una volta previsti mezzi efficaci di ricorso, e rispettato il principio di equivalenza, a consentire un ricorso per Cassazione laddove il giudice di secondo grado violi le norme di diritto comunitario o nel merito o in tema di legittimazione. Infatti, in tali ipotesi sussistono rimedi di tipo diverso (risarcitori e sanzionatori a carico dello Stato) previsti dall’ordinamento europeo.
In altri termini, come era stato diffusamente previsto, la Corte in virtù del principio di autonomia procedurale, si è astenuta dal pronunciarsi sui meccanismi che regolano i rapporti tra le corti del nostro ordinamento, e quindi su una questione che, anche se portata sul piano internazionale dal rinvio pregiudiziale, rimane prevalentemente di diritto interno, limitandosi a confermare la compatibilità degli strumenti previsti dal nostro ordinamento con il diritto europeo.
Rispettati i richiamati requisiti, la violazione del diritto europeo da parte del giudice amministrativo di ultima istanza non giustifica la creazione di un ulteriore grado di giudizio davanti alla Corte di Cassazione. Infatti, come aveva efficacemente sottolineato l’Avvocato Generale nelle sue conclusioni, anche le stesse Sezioni Unite potrebbero violare il diritto europeo, con l’effetto che allora si dovrebbero prevedere infiniti gradi di giudizio.
Resta indubbia la supremazia del diritto dell’Unione su quello interno nelle materie disciplinate a livello europeo, spettando ai singoli giudici disapplicare la normativa interna contrastante. La Corte di Giustizia riconosce l’eventualità che il giudice di ultimo grado violi tale obbligo e, come già accennato, non manca di indicare quali sono i possibili rimedi che l’ordinamento europeo offre in questi casi. Non solo la responsabilità dello Stato Membro può far sorgere un diritto al risarcimento, ma è anche prevista la possibilità per la Commissione europea di sanzionare lo Stato per tali violazioni.
Peraltro, pur avendo ritenuto insussistente il dubbio di compatibilità con il diritto dell’Unione sollevato dalla Cassazione sui limiti del suo sindacato, la Corte di Giustizia ha voluto ugualmente evidenziare, rispondendo agli altri quesiti, che pure avrebbe potuto ritenere assorbiti, l’errore commesso dal Consiglio di Stato. Nello specifico il giudice amministrativo, nel dichiarare inammissibile il ricorso avverso l’aggiudicazione sol perché la ricorrente era risultata esclusa dalla fase finale della gara, aveva effettivamente violato il diritto europeo e nello specifico la giurisprudenza della Corte formata in materia di rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale, delineata nelle sentenze Fastweb, Puligenica e Lombardi.
Sul punto è opportuno sottolineare che nella pronuncia qui esaminata la Corte sembra giungere a tale conclusione sulla base di una motivazione parzialmente differente da quella posta a base dei richiamati precedenti giurisprudenziali.
Ed infatti finora, in particolare dalla sentenza Puligenica, la legittimazione del ricorrente, quandanche escluso, veniva ritenuta dal giudice europeo sulla base della sussistenza comunque di un interesse tutelabile alla legittimità dell’aggiudicazione della gara cui aveva partecipato, anche in prospettiva, se pur solo eventuale, della rinnovazione della procedura. Ora invece la Corte pone l’accento esclusivamente sul carattere non definitivo dell’esclusione che integrerebbe il dovere del giudice di conoscere anche della impugnazione sull’aggiudicazione
La conclusione cui si giunge è sempre quella per cui il giudice è tenuto a pronunciarsi sull’intero ricorso, ma sembra esserci un elemento di novità nella motivazione e nella causa legittimante individuata dal giudice europeo. Tale elemento di novità è, come già accennato, il valore decisivo che la Corte di Giustizia attribuisce alla circostanza che il provvedimento di esclusione non possa ritenersi definitivo in quanto impugnato con il ricorso e in quanto le decisioni sul punto, che i relativi motivi hanno rigettato, non ancora passate in giudicato.
Il carattere di novità di questo profilo della motivazione della decisione della Corte di Giustizia appare confermato dal successivo passaggio della decisione del giudice europeo. Infatti, quando, in conclusione, la Corte è chiamata a rispondere all’ulteriore quesito della Cassazione, se alla vicenda si potessero applicare i principi di cui ai richiamati precedenti Fastweb, Puligenica e Lombardi, non dà un riscontro in senso affermativo, ma ritiene il quesito assorbito da quanto dedotto con riguardo al presupposto che impone la pronuncia sull’intero ricorso, come visto, questa volta, ravvisato non nell’interesse alla potenziale ripetizione della procedura o comunque alla rimozione di un’aggiudicazione illegittima a un’impresa concorrente (come nei precedenti citati), bensì, con valenza in sé decisiva, nel carattere non definitivo dell’esclusione .
In conclusione, nel conflitto tra le Corti nazionali, la Corte di Giustizia legittima solo la posizione della Consulta ritenendo compatibile con il diritto dell’Unione la sua decisione sui limiti del sindacato della Cassazione sulle sentenze di Consiglio di Stato e Corte dei conti per motivi inerenti alla giurisdizione. Al contrario, la Corte di Giustizia mette in evidenza gli errori commessi sia dalla stessa Corte di cassazione riformulando e respingendo il primo quesito, sia dal Consiglio di Stato. In particolare, rispetto a quest’ultimo, sottolinea di dover tornare a censurare la sua decisione di dichiarare irricevibili i motivi diretti a contestare l’aggiudicazione di una gara per il solo fatto che la ricorrente era stata esclusa dalla procedura. Infatti, tale decisione è una chiara violazione dei principi ormai più volte affermati dallo stesso giudice europeo, anche se questa volta, come abbiamo rilevato, in qualche modo diversamente declinati.
4. La relazione della Commissione tra screening degli investimenti stranieri e cooperazione europea, quali prospettive? di Tommaso Di Prospero
Lo scorso 23 novembre 2021, nel rispetto del principio di trasparenza, la Commissione europea ha rilasciato la prima Relazione Annuale a norma dell’art. 5, para. 3 del Regolamento UE 452/2019 (d’ora innanzi, la “Relazione” e il “Regolamento”). Il Regolamento introduceva un quadro per screening degli investimenti diretti esteri, cercando di attuare un non agile bilanciamento tra gli interessi di apertura ai mercati esteri per l’ottenimento di vantaggi economici e la salvaguardia della sicurezza e ordine pubblico degli Stati membri esplicata mediante il controllo nazionale sulle imprese operanti in settori strategici. Per il perseguimento di tali obiettivi, il Regolamento delineava una base normativa comune per la definizione dei principi minimi dei meccanismi di controllo degli investimenti stranieri, ferma restando la competenza esclusiva di ciascuno Stato membro in materia. Oltre a tale operazione d’inquadramento e armonizzazione “leggera”, il Regolamento introduceva un meccanismo di cooperazione che mirava ad innalzare il livello condiviso di attenzione verso le operazioni ostili di acquisizione o comunque stabilimento nell’UE/AELS. La Relazione si occupa di rendere conto dell’efficacia del Regolamento nel perseguimento degli obiettivi prestabiliti. Analizzeremo le conclusioni della Commissione sugli effetti generali del Regolamento sul flusso di investimenti stranieri in entrata, per poi focalizzarci sulla riuscita o meno del meccanismo di cooperazione tra Stati membri.
Andando a vedere inizialmente gli effetti strettamente economici del Regolamento sul flusso degli investimenti stranieri, iniziamo col dire che un’analisi d’insieme è quasi impossibile dato il sopraggiungersi di una causa straordinaria e imprevedibile, ossia la pandemia da Covid-19. L’impatto di tale pandemia sui flussi di investimenti ha infatti alterato pesantemente sia gli indicatori settoriali che i valori aggregati. L’analisi della Commissione, comunque, interessa il periodo che si estende dall’anno 2019 al primo quadrimestre del 2021. Ne emerge, non sorprendentemente, come il flusso degli investimenti diretti esteri in entrata sia diminuito del 71% nell’UE, con grandi divari tra i settori dell’equipaggiamento medico, farmaceutico, e dell’e-commerce (che hanno visto aumenti vertiginosi), e dei settori del turismo, dell’aviazione e dei trasporti marittimi (in grave discesa).
Questa crisi sanitaria ha però avuto degli effetti di testing per la buona tenuta dei meccanismi di screening europei e per il Regolamento, in quanto è proprio nei momenti di crisi che si verificano le operazioni di acquisizione ostile. A nostro avviso, il processo d’adozione nazionale del Regolamento, soprattutto della sua estensione oggettiva di rilevanza ai settori di cui all’art. 4, ha subito una forte accelerazione proprio a seguito dell’impatto della crisi sanitaria e pandemica. Questo è evidente se si guarda ai provvedimenti d’urgenza di risposta alla crisi in Italia, in particolare il Decreto legge n. 23/2020, convertito con legge n. 40/2020 (il “Decreto Liquidità”), ma anche l’adozione negli altri maggiori Stati membri ha seguito lo stesso percorso. Sia Francia, che Germania e Spagna, per esempio, hanno similarmente adottato provvedimenti d’urgenza in risposta all’emergenza pandemica per estendere il controllo sugli investimenti diretti esteri sulla base delle disposizioni del Regolamento.
Se da un lato l’ambito di oggettivo di applicazione dei meccanismi nazionali si sia espanso in molto Stati membri, andando a creare quadro normativo sicuramente più complesso per gli investitori, sul fronte dell’adozione dei provvedimenti restrittivi la Relazione evidenzia come la tendenza di espansione oggettiva dello scrutinio non abbia coinciso con un aumento significativo dei provvedimenti restrittivi adottati. La Relazione riporta come sul totale delle operazioni scrutinate dagli Stati membri a partire dall’approvazione del Regolamento, solo il 4.2% circa abbia dato seguito a provvedimenti di restrizione (qualunque fosse la loro forma). Su un totale di 1793 investimenti stranieri riportati dagli Stati membri, ben il 20% è stato sottoposto a scrutinio, mentre l’altro 80% era incompatibile con i requisiti di minaccia (potenziale o attuale) alla sicurezza e l’ordine pubblico. Del 20% degli investimenti scrutinati, il 79% non hanno dato seguito a nessun provvedimento.
Un altro aspetto fondamentale del Regolamento è che nonostante ribadisca la libera scelta, in quanto competenza esclusiva degli Stati membri, di adottare o non adottare un quadro normativo di screening degli investimenti esteri, la presenza di tale meccanismo viene comunque incoraggiata. Un forte invito ad adottare tali meccanismi era arrivato proprio durante la prima ondata della pandemia, quando la Commissione in una comunicazione del 26 marzo 2020 aveva invitato gli Stati membri ad «avvalersi appieno, sin da ora, dei meccanismi di controllo degli Investimenti Esteri Diretti per tenere conto di tutti i rischi per le infrastrutture sanitarie critiche, per l’approvvigionamento di fattori produttivi critici e per altri settori critici, come previsto nel quadro giuridico dell’UE». In tal senso, si può dire che la Relazione annuale evidenzi una certa efficacia persuasiva del Regolamento, ma anche qui è difficile separare l’atto normativo dalle circostanze fattuali che hanno portato a questi cambiamenti. Nella pratica, dal 2017 il numero degli Stati membri con una normativa di riferimento in materia era passato da 11 a 18. Dopo il Regolamento, questo numero è passato a 19, ma in oltre 5 Stati è in corso un procedimento a livello legislativo per l’adozione di tali meccanismi. Solo 3 Stati membri, dunque (Bulgaria, Croazia e Cipro) non hanno un progetto di legge in prossima adozione, ma la Commissione evidenzia nella Relazione come le aspettative affinché tutti i 27 Stati membri si muovano in tal senso entro il prossimo anno siano alte. Occorre ricordare in ogni caso che l’intenzione della Commissione non è quella di ottenere dei meccanismi che rendano il Mercato Unico di più difficile accesso, ma solo aver cura del fatto che ingerenze economiche avverse (in primis, la Cina) possano trovare degli ordinamenti pronti a far fronte a ogni minaccia. In tal senso, parte del Regolamento definisce i presupposti d’esercizio che la Commissione richiede che siano rispettati dagli Stati per evitare una normativa che sia sproporzionata o ingiusta nel perseguire l’interesse della salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico a scapito del principio di libera circolazione dei capitali.
Prima dell’analisi degli effetti del Regolamento sulla cooperazione tra Stati membri, occorre introdurne in via brutalmente sintetica il suo funzionamento. A norma dell’art. 6 e 7 del Regolamento, in presenza di un investimento straniero compatibile con il quadro istituito dallo stesso, lo Stato membro interessato dovrà notificare gli altri Stati membri e la Commissione dell’operazione appena possibile. Qualora un altro Stato membro ritenga che un investimento straniero possa incidere sulla propria sicurezza o sul proprio ordine pubblico, potrà formulare osservazioni allo Stato membro che effettua il controllo, inviandole contestualmente alla Commissione. Lo stesso meccanismo sarà applicato potenzialmente anche dalla Commissione, che potrà formulare pareri da tenere in «debita considerazione» dallo Stato procedente.
Questo meccanismo naturalmente implica numerosi aggravi del procedimento amministrativo per gli Stati procedenti, e la stessa Relazione riconosce tale effetto collaterale. Nonostante ciò, a detta della Commissione il meccanismo sta sortendo gli effetti sperati, considerato che delle 265 notifiche ricevute dalla Commissione e gli altri Stati membri, la maggioranza fossero state chiuse senza ulteriori richieste di chiarimenti o pareri, mentre il 14% sono passate alla “Fase 2”, ovvero alla richiesta di ulteriori informazioni o pareri della Commissione. Un lato positivo è che non si sono verificate fughe di notizie tra Stati membri così garantendo che il livello di fiducia tra gli stessi si sia mantenuto sufficientemente alto. D’altro lato, gli Stati membri lamentano il fatto che i termini procedurali per la notifica e la possibilità di rendere opinioni o richiedere ulteriori informazioni siano troppo stretti, o poco armonizzati tra le singole procedure amministrative nazionali. Un altro aspetto negativo è che la gestione di informazioni aggiuntive da parte degli Stati membri è stata ritenuta «non gestibile», nonostante le precazioni legislative prese.
Per cercare di risolvere queste (e altre) problematiche di coordinazione tra la normativa eurounitaria (principalmente di soft-law) e le normative nazionali, che rimangono sostanzialmente prevalenti, la Commissione ha annunciato nella Relazione di essere in via di elaborazione di alcune linee guida almeno per ridurre il numero di notifiche in alcuni settori abbracciati originariamente dal Regolamento. È possibile che una modifica al testo stesso del Regolamento sia già stata presa in considerazione dalla Commissione. Ad oggi, non possiamo non rilevare come il Regolamento, non sorprendentemente, ha aggiunto un livello di complicazione sia per gli Stati membri, che per gli investitori, essendo comunque questi responsabili per la compilazione dei moduli per la notifica agli Stati membri. Quello che potrebbe essere forse vantaggioso sarebbe la riduzione dell’obbligo di notifica alla Commissione e agli Stati membri dei soli investimenti stranieri che tocchino i settori più critici per la salvaguardia degli interessi coinvolti. Un allungamento dei termini per la procedura di notifica avrebbe effetti favorevoli per gli Stati membri e per la Commissione, ma peggiorerebbe a nostro avviso la situazione d’incertezza degli investitori stranieri.
5. Struttura collegiale versus struttura monocratica del procedimento golden power: il caso Syngenta-Verisem di Matteo Farnese
La normativa europea in materia di golden power (regolamento 2019/452) rimette agli Stati Membri, nel rispetto dei meccanismi di cooperazione dalla stessa disciplinati, il compito di definire il procedimento attraverso cui si sostanzia il controllo degli investimenti esteri. Anche per questo si riscontrano in ambito europeo varie articolazioni procedimentali: in alcuni casi piuttosto semplici, che fanno perno su un’unica amministrazione; in altri molto complesse, che coinvolgono più amministrazioni. Il recente caso Syngenta-Verisem, che ha coinvolto sia l’Italia che la Francia, consente di mettere in evidenza queste diverse modalità operative e di riflettere quindi sulle implicazioni che ne possono discendere.
Più in particolare, il caso in esame riguarda l’acquisizione del gruppo internazionale di sementi Verisem, nel quale sono presenti sia imprese italiane che francesi, da parte della multinazionale cinese Syngenta crop. Esso è di particolare rilievo per almeno due motivi: per la prima volta in Italia la decisione finale si discosta dalla proposta presentata dall’amministrazione che ha curato l’istruttoria e, per quanto consta, è la prima volta che l’operazione viene esaminata in due ordinamenti, quello italiano e quello francese, con esiti diversi.
Con riguardo all’Italia, la disciplina contenuta nell’art. 2 del d.l. 21/2012, unitamente alle disposizioni contenute nel d.P.R. 86/2016 e nel d.P.C.M. 6 agosto 2014, prevede lo svolgimento dell’istruttoria da parte di un Gruppo di coordinamento interministeriale, composto da rappresentanti della Presidenza del Consiglio e dei vari Ministeri. All’interno del Gruppo viene scelto il Ministero responsabile dell’istruttoria in base alla competenza per materia. Questo, una volta acquisiti i pareri dei soggetti istituzionali coinvolti, formula la proposta per l’eventuale esercizio dei poteri speciali, che viene portata in Consiglio dei Ministri per l’assunzione della decisione finale. L’operazione del caso in esame riguarda il settore agroalimentare, entrato a far parte dei settori strategici dell’ordinamento in conseguenza del recepimento dell’art. 4 del reg. 2019/452 UE. Coerentemente con la disciplina di riferimento, nel caso di specie l’istruttoria è stata curata dal Ministero delle Politiche agricole. La relazione conclusiva della stessa concludeva ritenendo che non ricorressero i presupposti per l’esercizio dei poteri speciali previsti dalla normativa in materia di golden power. Il 21 ottobre 2021, il Consiglio dei ministri, contrariamente a quanto affermato nella relazione conclusiva dell’istruttoria, ha esercitato il potere di veto sull’operazione. Per la prima volta dall’adozione della normativa golden power, il Consiglio dei ministri non ha dato seguito alla proposta formulata dal Ministero responsabile dell’istruttoria, esercitando il potere speciale più invasivo a sua disposizione, cioè il potere di veto. Occorre indagare, quindi, quali sono le cause che hanno portato al contrasto tra istruttoria e decisione finale. Le valutazioni politiche, intrinseche all’utilizzo di tale strumento, hanno giocato un ruolo importante, ma sia la complessa struttura del procedimento, sia la natura dello stesso, meritano un’analisi più approfondita.
Per quanto riguarda la struttura del procedimento, la scelta della modalità collegiale riflette la scelta di tenere in considerazione molteplici interessi, permettendo la partecipazione alla decisione anche ai ministeri non direttamente coinvolti nell’istruttoria.
Per quanto riguarda la natura del procedimento, questa non appare essere ben definita. L’investitore notifica l’operazione al Governo non per richiedere un’autorizzazione, bensì per verificare se tale operazione costituisca una minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico. Se l’operazione è giudicata rilevante in tal senso, il Governo può decidere se e quale potere speciale esercitare. La verifica è, inoltre, associata ad un meccanismo di silenzio-assenso. Il procedimento risulta, quindi, caratterizzato da un grado di incertezza nella posizione delle parti dell’operazione, soprattutto perché non vi è una norma che preveda la possibilità di intraprendere contatti con il Governo precedenti alla notifica.
Nel caso in esame, il contrasto delle valutazioni del Ministero delle Politiche agricole e del Consiglio dei Ministri potrebbe configurare, per quest’ultimo, un onere di motivazione rafforzato. L’atto conclusivo del procedimento di verifica in materia di golden power, infatti, può essere considerato come un atto di alta amministrazione, che deve comunque rispettare i principi dettati per gli atti amministrativi, in particolare quello riguardante la motivazione del provvedimento, sancito nell’art. 3 della l. 241/1990.
Con riguardo alla Francia, gli artt. L 151-3 e seguenti, del Code monetaire et financier prevedono lo svolgimento dell’istruttoria da parte del Ministero dell’economia. Questo, una volta ottenute le informazioni necessarie riguardo l’operazione oggetto di verifica, decide in merito all’eventuale rilascio dell’autorizzazione all’investimento. Contrariamente a quanto accaduto in Italia, il procedimento in esame si è concluso considerando l’operazione Syngenta-Verisem esclusa dall’ambito di applicazione della disciplina del golden power.
Il meccanismo di controllo degli investimenti esteri vigente in Francia, quindi, ha due caratteristiche fondamentali che differiscono rispetto al modello italiano: la struttura monocratica del procedimento e la natura autorizzatoria dello stesso.
In primo luogo, la struttura del procedimento è caratterizzata dal ruolo fondamentale del Ministero dell’economia. Questo è individuato come unica amministrazione competente. Esso, infatti, si occupa dell’intero procedimento, dalla fase di prenotifica a quella di decisione. Tale meccanismo, da un lato, permette di tenere maggiormente in considerazione le esigenze economiche nazionali, dall’altro lato, potrebbe non essere in grado di tenere in considerazione ulteriori interessi generali.
In secondo luogo, la natura autorizzatoria del procedimento appare essere ben definita, in quanto questo è finalizzato al rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento dell’operazione da parte del Ministero dell’economia. Il procedimento, quindi, presuppone, per la società acquirente, un diritto condizionato al rilascio di un provvedimento da parte del Ministero. Tale meccanismo configura sia una maggior tutela dell’investitore rispetto al modello italiano.
In conclusione, l’Italia ha adottato un procedimento di controllo basato su una struttura collegiale, attribuendo una competenza “istruttoria” in capo ad un Ministero, scelto in base all’oggetto dell’operazione, e una competenza “decisoria” in capo al Consiglio dei Ministri. Questa separazione di competenze è una caratteristica peculiare del meccanismo italiano di controllo degli investimenti esteri che, come nel caso in esame, può portare ad una minore tutela dell’investitore, intesa come mancata prevedibilità e coerenza dell’azione amministrativa, ma permette una valutazione più ampia degli interessi in gioco, soprattutto nel momento decisionale. Nel nostro ordinamento ci sono diversi casi in cui è presente il contributo di più amministrazioni, i cui pareri possono essere disattesi. Non è quindi un caso eccezionale. Ciò, però, si riflette sulla rilevanza della motivazione, anche nella prospettiva di un eventuale contenzioso.
Al contrario del modello italiano, il procedimento monocratico che caratterizza l’ordinamento d’oltralpe potrebbe difficilmente subire tali importanti contrasti, riuscendo a tutelare in modo migliore la posizione giuridica dell’investitore. Il limite più importante del modello francese è dato dal fatto che, essendo il Ministero dell’economia l’unica amministrazione competente per tutte le fasi procedimentali, maggiore attenzione potrebbe essere rivolta all’aspetto economico rispetto agli altri interessi che coesistono nell’operazione.