29/01/2024
Indice:
- I CRITERI PER LA REDAZIONE DI UN REGOLAMENTO DI ORGANIZZAZIONE MINISTERIALE a cura di Martina Bordi
- I CENTO GIORNI DALLA PIENA APPLICABILITÀ DEL REGOLAMENTO SULLE SOVVENZIONI ESTERE: ANALISI DELLA DISCIPLINA NELLE PROCEDURE DI APPALTO PUBBLICO a cura di Riccardo Zinnai
- ACCESSO PRIORITARIO A MISURE ECONOMICHE CONNESSE ALL’ESERCIZIO DEI POTERI SPECIALI AI SENSI DELL’ART.2 DEL DL 187/2022: IL DECRETO ATTUATIVO a cura di Gian Marco Ferrarini
- LA RICERCA DELLA QUALITA’ DELLE PRESTAZIONI COME ASPETTO SOSTANZIALE DEL RISULTATO a cura di Cristiana Traetta
- CONTROLLO, MONITORAGGIO E REVISIONE DEI CONTRATTI DI PARTENARIATO PUBBLICO PRIVATO: IL RUOLO DEL DIPE E DEGLI ENTI CONCEDENTI a cura di Antonio Iuliano
- LA RELAZIONE SULL’APPLICAZIONE DEL CODICE DI AUTODISCIPLINA DELLE SOCIETA’ QUOTATE: QUESTIONI DI INTERESSE PER LE SOCIETA’ PUBBLICHE a cura di Marta Nigrelli
- OPERAZIONI DI AGGREGAZIONE E AFFIDAMENTI IN HOUSE: IL CASO DI ACAM S.P.A. a cura di Elena Valenti
- IL SILENZIO ASSENSO PUÒ FORMARSI IN ASSENZA DEI PRESUPPOSTI SOSTANZIALI? a cura di Giulia Moscaroli
- QUALE IL CODICE APPLICABILE AGLI APPALTI PNRR E ASSIMILATI? LA QUERELLE TRA IL MIT E LA GIURISPRUDENZA a cura di Carlo Maria Fenucciu
- ALCUNE INDICAZIONI DELL’AGCM PER GLI AFFIDAMENTI DELLE CONCESSIONI BALNEARI NEL COMUNE DI JESOLO a cura di Andrea Nardone
- I CRITERI PER LA REDAZIONE DI UN REGOLAMENTO DI ORGANIZZAZIONE MINISTERIALE a cura di Martina Bordi
Il parere n. 1254/2023 della Sezione Consultiva per gli Atti normativi del Consiglio di Stato in merito allo schema di D.P.C.M. recante “Regolamento concernente modifiche di organizzazione del Ministero della transizione ecologica” fornisce un’occasione per esaminare i tratti caratteristici che dovrebbero orientare la redazione di un regolamento ministeriale di organizzazione.
I regolamenti di organizzazione disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche, garantendo il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ex art. 97 della Costituzione.
Ogni ministero ha un proprio ordinamento autonomo.
Le strutture burocratiche di vertice di ciascun ministero possono essere alternativamente organizzate in dipartimenti o in direzioni generali, entrambe strutture di primo livello del Ministero.
Le strutture organizzate in direzioni generali hanno un segretario generale che si occupa del coordinamento dell’attività amministrativa ed è responsabile dei risultati raggiunti dalla struttura.
Viceversa, ovvero nel caso in cui il ministero è organizzato in dipartimenti, è assente la figura del segretario generale. Il dipartimento ha compiti di gestione per grandi blocchi di materie omogenee e definite.
Alle direzioni generali sono attribuiti ambiti di competenza più circoscritti.
Le strutture di primo livello dei vari Ministeri sono suddivise poi in unità organizzative di secondo e terzo livello, divisioni e sezioni.
Con particolare riferimento al regolamento oggetto del parere, la Sezione per gli atti normativi del Consiglio di Stato, nell’esaminare lo schema trasmesso dall’amministrazione, ha ritenuto che il Ministero non si sia soffermato in maniera approfondita nell’attribuzione dei compiti di coordinamento, programmazione e pianificazione alle varie unità organizzative.
Una maggiore precisione nell’attribuzione delle funzioni ai vari uffici è, secondo il Consiglio di Stato, necessaria per la trasversalità che caratterizza la materia ambientale. Infatti, la sua natura trasversale potrebbe porre problemi di coordinamento tra le varie unità organizzative, problemi che si possono prevenire con una maggiore attenzione all’assegnazione precisa dei compiti ai vari uffici.
Il regolamento dovrebbe indicare in maniera puntuale le modalità di raccordo tra la pubblica amministrazione e la direzione politica.
È necessario, inoltre, che si operi una realistica e ragionata verifica dell’organizzazione prescelta per l’attività amministrativa rispetto ai risultati che si attende raggiungere.
Con queste motivazioni, la Sezione del Consiglio di Stato si è riservata di emanare un parere definitivo, che verrà emesso una volta pervenute le integrazioni richieste.
Con riferimento al genus dei regolamenti di organizzazione, il parere in oggetto risulta utile nell’analisi di due aspetti. Il primo riguarda la scelta dello strumento con cui adottare questa tipologia di atti; il secondo concerne lo strumento dell’analisi di impatto della regolazione (AIR).
Il procedimento ordinario di adozione dei regolamenti governativi di delegificazione è previsto dall’ art. 17 commi 2 e 4-bis della legge 400/88 e dall’art. 4 del d.lgs. n. 300/99.
Il procedimento ordinario prevede che i regolamenti debbano essere emanati con decreto del Presidente della Repubblica, previa la deliberazione del Consiglio dei ministri e il parere delle commissioni parlamentari competenti.
In base all’art. 95 comma 3 della Costituzione, l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri e l’organizzazione dei ministeri è riservata alla legge attraverso una riserva di legge relativa.
La legge, segnatamente il d.lgs. 300/99, determina le strutture di primo livello, elencando il numero massimo di dipartimenti o di direzioni generali in cui devono essere articolati i ministeri.
Nella cornice della struttura primaria, l’organizzazione, le risorse umane e le funzioni degli uffici di livello dirigenziali vengono determinate mediante regolamenti attraverso il procedimento ordinario soprarichiamato.
Tuttavia, negli ultimi anni, si è maggiormente assistito al cosiddetto fenomeno della “fuga da regolamento”, prediligendo una procedura di approvazione semplificata e accelerata dei processi di riorganizzazione ministeriale.
La procedura semplificata di approvazione avviene attraverso l’utilizzo del D.P.C.M.
Tale procedura, inizialmente avente carattere derogatorio, si è finita oggi per consolidare come regola, trasformando l’utilizzo del D.P.C.M. in un regime formale alternativo a quello ordinario.
Secondo la Sezione del Consiglio di Stato, la prassi consolidata porta con sé non poche criticità sia sotto il profilo sostanziale che formale.
Sotto il profilo sostanziale, l’adozione di un D.P.C.M. in luogo ad un D.P.R. elude il controllo democratico che viene affidato alle commissioni parlamentari competenti.
Nella procedura ordinaria, le commissioni parlamentari competenti hanno il compito di controllare l’assetto organizzativo prescelto con i possibili incrementi finanziari che comporta e di verificare l’aderenza tra l’organizzazione amministrativa e finanziaria scelta e le finalità che il ministero vuole perseguire.
Sotto un profilo formale, la consolidata elusione del procedimento ordinario conduce ad un’incertezza nell’ordinato sistema delle fonti.
La Sezione analizza poi lo strumento dell’analisi di impatto della regolazione (AIR).
Scopo dell’AIR è quello di fornire un supporto dei contenuti dell’atto normativo e delle sue finalità che hanno un impatto su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni.
L’AIR rappresenta uno strumento chiave per garantire il miglioramento della qualità della regolazione.
La “Guida all’analisi e alla verifica dell’impatto della regolamentazione” adottata con direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri nel 2018, esenta da AIR i provvedimenti di riorganizzazione e di riordino degli uffici.
L’esenzione da AIR per i regolamenti di organizzazione dei Ministeri è giustificata sull’assunto che le modalità con le quali vengono organizzati i ministeri e la relativa allocazione delle funzioni e competenze sia destinata ad avere un impatto limitato su cittadini ed imprese.
Invero, ad oggi, rileva la Sezione, gli interventi di riordino dei vari Ministeri sono di una notevole incisività ed ampiezza, dovuta anche alla continua crescita delle funzioni e dei compiti che vengono attribuiti alle pubbliche amministrazioni, che comportano problematiche di articolazione delle strutture organizzative con fenomeni di sovraccarichi e frammentazione. Tutto ciò fin qui rilevato induce la Sezione stessa a giungere all’ipotesi che il ripristino dell’AIR, per questa tipologia di regolamenti, potrebbe essere lo strumento chiave attraverso cui i ministeri esplicitino la ratio delle decisioni organizzative che troppo spesso, nelle relazioni illustrative di accompagnamento agli strumenti di riordino, vengono giustificate con argomentazioni troppo generiche.
2. I CENTO GIORNI DALLA PIENA APPLICABILITÀ DEL REGOLAMENTO SULLE SOVVENZIONI ESTERE: ANALISI DELLA DISCIPLINA NELLE PROCEDURE DI APPALTO PUBBLICO a cura di Riccardo Zinnai
Il 19 gennaio 2024 la Direzione Generale del mercato interno della Commissione europea ha pubblicato un avviso per ricordare che ricorrevano i cento giorni dalla piena applicabilità del regolamento (UE) 2022/2560 relativo alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno. Infatti, dal 12 ottobre 2023 il regolamento sulle sovvenzioni estere produce i suoi effetti anche nell’ambito degli appalti pubblici, a cui sono dedicate le disposizioni del capo quarto. (Per la verità, si osserva che alcune previsioni regolamento contenute all’interno dell’articolo 14 e concernenti le ispezioni all’interno dell’Unione sono divenute applicabili solo in un momento successivo e cioè solo dal 12 gennaio 2024.)
Dall’esperienza tratta in questo periodo di poco più di tre mesi e dalle più di cento notifiche o dichiarazioni ricevute, la Commissione ha tratto la conclusione che sia necessario fa sì che sia le stazioni appaltanti sia gli operatori economici siano consapevoli degli obblighi previsti dal regolamento. Talvolta, è stato addirittura necessario ricordare l’esistenza del regolamento stesso.
Nel comunicato ci si è poi soffermato sull’importanza della finalità perseguita dalla nuova normativa. Si vuole infatti evitare che le sovvenzioni estere possano rendere possibile la presentazione di un’offerta indebitamente vantaggiosa e potenzialmente distorsiva del mercato nell’ambito di una procedura di appalto pubblico.
La Commissione ha ricordato anche che è compito delle stazioni appaltanti assicurarsi che gli operatori economici presentino tutta la documentazione richiesta e trasmetterla poi alla Commissione, usando preferibilmente la piattaforma elettronica EU SEND. Le amministrazioni o gli enti aggiudicatori hanno anche l’obbligo di ricordare all’interno del bando o dei documenti di gara l’obbligo di presentare le notificazioni o le dichiarazioni richieste dal regolamento. Tuttavia, l’eventuale inosservanza di tale obbligo non pregiudica comunque l’applicabilità del regolamento.
Entrando nel dettaglio delle previsioni normative, l’art. 28 prevede che vi sia un obbligo di notifica qualora il valore stimato dell’appalto pubblico sia di almeno duecentocinquanta milioni di euro e l’operatore economico abbia ricevuto contributi finanziari pari ad almeno quattro milioni di euro per paese terzo. Il comma 2 del medesimo articolo stabilisce che qualora l’appalto sia suddiviso in lotti, bisognerà valutare se il valore del lotto o della somma dei lotti per i quali l’operatore economico partecipa superi il valore di centoventicinque milioni di euro.
La Commissione può però decidere di applicare le previsioni del capo quarto anche al di fuori delle ipotesi appena descritte. Infatti, ai sensi dell’art. 29 comma 8, è possibile richiedere la notifica dei contributi finanziari esteri forniti da paesi terzi a un operatore economico, il quale è sospettato di averli ricevuti nei tre anni precedenti la presentazione dell’offerta o della domanda di partecipazione alla procedura di appalto, in qualsiasi procedura di appalto pubblico non soggetta ad obbligo di notifica. A seguito di tale scelta ad opera della Commissione, il contributo finanziario estero diviene soggetto all’obbligo di notifica con conseguente applicabilità delle disposizioni capo quarto.
Come stabilito dall’art. 29, qualora siano soddisfatte le condizioni previste dall’articolo 28 commi 1 e 2, gli operatori economici sono tenuti a notificare all’amministrazione o ente aggiudicatore i contributi finanziari esteri ricevuti. Negli altri casi, dovrà essere semplicemente presentata una dichiarazione in cui da un lato si elencano i contributi finanziari esteri ricevuti e dall’altro si conferma che non si è soggetti all’obbligo di notifica.
La notifica o la dichiarazione va presentata, ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di esecuzione (UE) 2023/1441, compilando il modulo FS-PP contenuto nell’allegato II del regolamento d’esecuzione stesso. È interessante notare che al comma 2 dell’articolo citato si prevede che non sia necessario riportare nella dichiarazione, con la quale si conferma che “nessuna delle parti notificanti ha ricevuto contributi finanziari esteri soggetti a obbligo di notifica a norma del capo 4 del regolamento (UE) 2022/2560”, i contributi finanziari esteri ricevuti negli ultimi tre anni qualora il loro importo totale per paese terzo sia inferiore all’importo degli aiuti «de minimis» stabilito dal regolamento (UE) n. 1407/2013. Si prevede anche al comma 5 che la Commissione possa dispensare dalla presentazione di alcune informazioni o alcuni documenti.
È poi compito dell’amministrazione trasmettere la documentazione alla Commissione europea. La Commissione effettua quindi un esame preliminare nel termine di venti giorni che però può essere prorogato di ulteriori dieci. Tale esame può portare la Commissione a decidere di svolgere un’indagine approfondita. All’esito di tale indagine approfondita, la Commissione può ravvisare che non vi siano sovvenzioni estere distorsive del mercato interno o al contrario ravvisarne l’esistenza. In questo secondo caso, la Commissione può accettare gli impegni volti ad eliminare l’effetto distorsivo proposti dall’operatore economico o, qualora questi non siano proposti o siano giudicati insufficienti, vietare l’aggiudicazione all’operatore economico in questione. Tale decisione comporta, ai sensi dell’art. 31 comma 2, che l’offerta sia respinta dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore.
Passando all’analisi degli effetti procedurali sulla procedura d’appalto pubblico, si evidenzia come l’articolo 32 vieti l’aggiudicazione dell’appalto in pendenza dell’esame preliminare e della procedura approfondita innanzi alla Commissione. Possono invece proseguire tutte le altre operazioni. Il comma 3 prevede una disciplina specifica qualora l’operatore economico proponente l’offerta economicamente più vantaggiosa abbia presentato la dichiarazione di non aver ricevuto sovvenzioni estere soggette all’obbligo di notifica. Se la Commissione non si è avvalsa né dei poteri previsti dall’art. 29 comma 8 né abbia avviato una indagine approfondita, l’appalto può essere aggiudicato anche prima della decisione della Commissione.
La disciplina viene completata dall’articolo 33 che prevede delle ammende o penalità di mora qualora non siano rispettati gli obblighi informativi. La presentazione di informazioni inesatte o fuorvianti può essere sanzionata con un’ammenda fino all’1% del fatturato totale dell’esercizio finanziario precedente. Tale percentuale sale fino al 10% qualora la notifica dei contributi finanziari esteri sia stata omessa o siano stati elusi o si sia cercato di eludere gli obblighi informativi.
Il regolamento sulle sovvenzioni estere, con il capo 4 ora analizzato intende colmare una lacuna causata dalla direttiva 2014/24/UE. Infatti, l’art. 69 della direttiva sugli appalti pubblici prevede che un’offerta possa considerarsi anormalmente bassa e quindi respinta qualora l’offerente riceva aiuti di Stato e non ne sia dimostrata la compatibilità con l’art. 107 TFUE. Tale disciplina però non riguarda gli aiuti di Stato concessi da paesi che non sono membri dell’Unione europea. Era quindi possibile che le imprese sovvenzionate da Stati membri fossero in una situazione di svantaggio rispetto a quelle riceventi aiuti da Stati terzi. Pertanto, anche nell’ambito degli appalti pubblici traspare l’intenzione del legislatore europeo di estendere la disciplina eurounitaria sugli aiuti di Stato alle sovvenzioni estere. Questa visione tendente all’unificazione della disciplina si è vista anche nella scelta di applicare le stesse soglie quantitative previste per gli aiuti di Stato de minimis.
Nonostante l’intento sia quello di evitare che Stati terzi possano avere effetti distorsivi sul mercato interno, la disciplina si caratterizza per una certa complessità. Dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli operatori economici si richiedono risorse strumentali e capacità operative elevate per riuscire a navigare una normativa così articolata. Inoltre, gli obblighi di notifica e dichiarazione appesantiscono notevolmente il lavoro di documentazione che viene richiesto alle imprese, le quali dovranno tracciare internamente le sovvenzioni estere ricevute da Paesi terzi potenzialmente di tutto il mondo. Tra l’altro, poiché si considerano le sovvenzioni ottenute nei tre anni precedenti la notifica, in questa fase di prima attuazione del regolamento le imprese dovranno raccogliere informazioni anche sulle sovvenzioni ricevute nel periodo antecedente l’entrata in vigore del regolamento. Infine, il quadro normativo non è ancora del tutto completo e dunque le imprese dovranno muoversi – almeno in questa prima fase – in un contesto abbastanza incerto. Bisogna riconoscere che l’emanazione del regolamento d’esecuzione 2023/1441 abbia contribuito a fornire maggiori dettagli operativi. Tuttavia, la Commissione non ha ancora adottato, avendo tempo fino 12 gennaio 2026, gli orientamenti la valutazione di una distorsione in una procedura di appalto pubblico, previsti dall’articolo 46.
3. ACCESSO PRIORITARIO A MISURE ECONOMICHE CONNESSE ALL’ESERCIZIO DEI POTERI SPECIALI AI SENSI DELL’ART.2 DEL DL 187/2022: IL DECRETO ATTUATIVO a cura di Gian Marco Ferrarini
Il 25 novembre 2023 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 276 il decreto del Ministero delle imprese e del made in Italy (MIMIT), relativo all’accesso a taluni strumenti di sostegno economico per le imprese destinatarie del Golden Power.
Il provvedimento in essere fa seguito al decreto-legge n. 187 del 2022 che aveva previsto, tra le altre cose, la possibilità per le imprese destinatarie dei poteri speciali di vedersi riconosciuto su istanza, e previa attenta valutazione del MIMIT, un accesso prioritario ad una serie di interventi di sostegno economico, anche alla capitalizzazione.
Nello specifico, il decreto-legge all’art. 2 consentiva l’accesso prioritario a quattro strumenti già previsti dal nostro ordinamento: i) il Fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività d’impresa (“Fondo Salvaguardia Imprese”); ii) gli interventi erogati dal Patrimonio Rilancio facente capo a Cassa depositi e Prestiti; iii) i Contratti di sviluppo; iv) gli Accordi per l’innovazione.
La norma concludeva rinviando ad un decreto attuativo del Ministro delle imprese e del made in Italy, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, la definizione dei criteri per effettuare le valutazioni ai fini del riconoscimento dell’accesso prioritario agli strumenti sopra menzionati.
Alla luce di ciò, si propone, pertanto, una breve analisi delle principali novità introdotte dal decreto del MIMIT.
Procedendo con ordine, relativamente all’ambito di applicazione ed alle finalità, il decreto ministeriale non solo definisce le condizioni per il riconoscimento di una priorità nell’accesso alle misure di cui sopra, fissando criteri che devono essere tenuti dai soggetti destinatari, ma, per l’appunto, individua anche in maniera dettagliata i criteri generali per l’effettuazione delle valutazioni funzionali all’accesso con priorità al sostegno del Fondo salvaguardia e del Patrimonio rilancio, nonché i termini e le modalità procedimentali per il predetto accesso e per l’accesso con priorità ai Contratti di sviluppo e Agli accordi per l’innovazione (art.2).
In particolare, possono presentare istanza le imprese che svolgono attività ovvero detengono uno o più attivi strategici per l’interesse nazionale e che rispetto ad atti, delibere od operazioni notificate siano state raggiunte dai poteri speciali del Governo. Si tratta però di requisiti necessari ma non sufficienti, poiché in aggiunta a questi è altresì previsto i) che le imprese debbano rispettare gli specifici criteri indicati per ciascuno strumento di sostegno (rinvenibili negli artt. 4 e 5); ii) che non siano state oggetto di sanzione amministrativa irrogata per inosservanza delle prescrizioni impartite con l’esercizio dei poteri speciali di cui al decreto legge n.21/2012; iii) che non abbiano promosso, nè abbiano intenzione di promuovere azioni giudiziali per la contestazione di atti di esercizio del Golden Power. A tal fine, l’impresa è tenuta a rendere, in sede di istanza di accesso agli strumenti, specifiche attestazioni e dichiarazioni di impegno che, se disattese, danno luogo alla revoca totale del sostegno ottenuto.
Ai fini dell’ammissione con priorità al sostegno del Fondo Salvaguardia Imprese, entro 90 giorni dal ricevimento dell’istanza, il Ministero competente verifica se concretamente ci sia l’esigenza di interventi di rafforzamento patrimoniale quale conseguenza, in termini di perdite o mancate opportunità di sviluppo, dell’esercizio dei poteri speciali. Per compiere tale attività, il Ministero può avvalersi della collaborazione del Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal quale acquisisce tutta la documentazione relativa alla procedura di esercizio dei poteri speciali e ogni ulteriore elemento che possa tornare all’uopo ultile.
In alternativa al Fondo Salvaguardia Imprese, il soggetto interessato può sempre presentare istanza per il riconoscimento della priorità nell’ambito del Patrimonio rilancio. In questo caso, però, l’istanza deve essere presentata contestualmente al MIMIT e al Ministero dell’economia e delle finanze che, di concerto, provvederanno ad effettuare le valutazioni, avvalendosi anche del supporto del soggetto gestore (Cassa depositi e prestiti S.p.A.). A tale proposito, il decreto specifica che in caso di Golden Power esercitato mediante l’imposizione di specifiche condizioni, l’impresa raggiunta da tali misure è tenuta ad allegare all’istanza una relazione che dia conto delle conseguenze economiche in termini di mancate opportunità di sviluppo e, soprattutto, dalla quale si evinca che l’accesso agli interventi del Patrimonio rilancio non privi o riduca l’efficacia delle prescrizioni imposte.
Qualora al termine delle valutazioni venga riscontrata la sussistenza delle condizioni e dei presupposti previsti, il Ministero provvede a comunicare contestualmente all’istante e al soggetto gestore l’avvenuto riconoscimento della priorità. In forza di ciò, la domanda di accesso al Fondo salvaguardia imprese o al Patrimonio rilancio è avviata ad istruttoria con priorità rispetto all’ordine solitamente seguito.
Parimenti, ai sensi dell’articolo 5, entro 2 anni dalla data di comunicazione del decreto di esercizio dei poteri speciali, le imprese possono altresì presentare istanza di accesso prioritario agli strumenti agevolativi dei Contratti di sviluppo e degli Accordi per l’innovazione, corredata dalle dichiarazioni in merito alla sussistenza delle condizioni previste dall’articolo 3. Anche in questi casi, accertata l’idoneità, le istanze vengono valutate con priorità.
In conclusione, l’accesso agli strumenti di sostegno economico deve in ogni caso considerarsi subordinato alla disponibilità delle risorse finanziarie e all’effettiva apertura dei termini per la presentazione delle domande da parte dei soggetti beneficiari. Inoltre, l’articolo 3, co.3, chiarisce che, ai fini dell’accesso a tali misure, le imprese devono comunque essere in possesso dei requisiti previsti dalla disciplina di riferimento. Da ultimo, il decreto non manca di precisare che “il riconoscimento della priorità…non determina il maturare di alcuna pretesa ai fini dell’accesso alle misure né deroga alle condizioni stabilite dalla disciplina di riferimento”. Il considerevole aumento dell’esercizio dei poteri speciali relativo all’ultimo triennio ha suscitato non poche perplessità nel tessuto industriale italiano, il quale si è visto più volte limitato nella propria autonomia privata. Le mancate opportunità di crescita e valorizzazione per le imprese derivanti dall’esercizio del Golden Power non possono certamente considerarsi compensate dalla predisposizione di una serie di strumenti di politica industriale di non facile attivazione.
4. LA RICERCA DELLA QUALITA’ DELLE PRESTAZIONI COME ASPETTO SOSTANZIALE DEL RISULTATO a cura di Cristiana Traetta
Con sentenza n. 11322 del 29/12/2023 il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello avverso la decisione del TAR Piemonte n. 664/2023 con cui veniva respinta la richiesta di annullare la revoca dell’aggiudicazione a favore della società reclamante, risultata alla fine esser priva dei certificati ambientali per la prova di una gestione a ridotto impatto ambientale.
Il Comune di Torino bandisce una gara per l’affidamento del servizio di ristorazione delle mense di asili nido, scuole d’infanzia statali e comunali. Tra i requisiti di idoneità allo svolgimento dell’attività vi è quello del necessario e congiunto possesso dei certificati ISO 14001 e EMAS, in un’ottica di tutela dei c.d. interessi sensibili che soggiacciono dietro simili prestazioni. Se in un primo momento l’aggiudicazione era avvenuta a favore dell’appellante, a seguito dell’attività di verifica dei requisiti da parte del Dirigente, questa le viene revocata: in particolare viene constatato il difetto del possesso delle due certificazioni.
Il Collegio conferma la decisione del Giudice di primo grado per quanto riguarda l’infondatezza circa l’asserita violazione della lex specialis di Gara, dell’art. 87 d. lgs. 50/2016 e del principio del favor partecipationis e si sofferma in particolare sul principio del risultato, richiamato dalla difesa della ricorrente per sostenere la formalità del requisito in questione e dunque la sua inidoneità nel determinare l’inefficacia dell’aggiudicazione.
L’appellante infatti lamenta che la sentenza gravata violerebbe il principio di tassatività delle cause di esclusione e dell’art. 97 Cost di cui l’art. 1 del D. Lgs. costituisce espressione, come chiarito in altre occasioni dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato e ritenuto applicabile anche alle procedure avviate sotto la vigenza del precedente codice. Viene sostenuto che se in un primo momento l’assistita era risultata l’offerente migliore, tanto da aggiudicarsi il bando “appare in tutta la sua chiarezza il mero formalismo della vicenda da coniugare in termini di falsa applicazione del principio del risultato”. La difesa ricostruisce il principio del risultato come strumento che ha come scopo anche quello di scardinare l’approccio formalistico dell’attività dell’amministrazione, vincolato da tante regole che hanno poco a che vedere con la finalità di erogare un servizio nei confronti della collettività. Il giudice ritiene improprie tali argomentazioni in primo luogo sulla base del ruolo ormai pacificamente riconosciuto, anche da parte della Giurisprudenza comunitaria, ai contratti di appalto pubblici, i quali costituiscono uno strumento a plurimo impiego” funzionale all’attuazione di politiche pubbliche ulteriori rispetto all’oggetto negoziale immediato: in altre parole, uno strumento plurifunzionale di politiche economiche e sociali, con conseguenti ricadute sulla causa del provvedimento di scelta del contraente. Come evidenziato prima facie dalla stessa lex specialis, non si ricercava solo di soddisfare l’esigenza del servizio di ristorazione scolastica bensì anche quello di efficientamento del sistema di gestione ambientale dei processi aziendali di produzione del servizio di ristorazione collettiva. Non può ritenersi un mero cavillo formalistico il difetto di tali certificati se la stazione appaltante li richiede espressamente nell’ambito della sua discrezionalità. Un’offerta può essere ritenuta la migliore in termini economici rispetto alle altre solo a parità di standard qualitativi. Il Consiglio di Stato replica che il problema della dimostrazione del requisito qualitativo è un problema non di forma bensì di sostanza, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente.
Il richiamo alla nozione di risultato integra i parametri di legittimità dell’azione amministrativa con riguardo ad una categoria che implica verifiche sostanziali di effettività del raggiungimento degli obiettivi di merito o di metodo. Nel caso di specie il risultato sotteso alla commessa riguarda, per precisa scelta dell’amministrazione committente, non la prestazione del servizio di ristorazione scolastica in quanto tale, ma quella relativa ad un servizio caratterizzato dalla conformità a politiche ambientali per lo sviluppo sostenibile.
L’offerta non solo non può considerarsi la migliore, ma il giudice precisa che essa non poteva fin dall’inizio essere ammessa in gara.
Dal ragionamento del Collegio emerge che la previsione che richiedeva i certificati è posta a presidio della sostanziale corrispondenza tra quanto domandato dalla s.a. e quanto offerto. Il fatto che la pubblica amministrazione abbia interesse ad incentivare la partecipazione alle gare di soggetti particolarmente qualificati, che garantiscano elevati standard qualitativi al fine di svolgere al meglio le prestazioni sembra un dato da accogliere positivamente. Pertanto il principio del risultato non è volto ad assicurare unicamente la rapidità ed economicità delle procedure di evidenza pubblica consentendo di salvare un qualunque esito solo perché ormai già raggiunto. Inoltre esso, saldato con il principio della fiducia di cui all’art. 2 del rinnovato codice appalti, valorizza l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici non solo affinché le procedure siano meno condizionate da sottigliezze formali e da continui blocchi, ma soprattutto per consentire di agire nel modo più rispondente agli interessi della collettività, massimizzandone il benessere. D’altronde il principio del risultato non può trasformarsi in pretesto per sindacare le valutazioni riservate dalla legge alla s.a. Residua uno spazio per domandarsi se il perseguimento di politiche ulteriori possa avvenire indistintamente attraverso il mercato della contrattazione pubblica a prescindere dall’oggetto dell’appalto, soprattutto alla luce degli obiettivi di efficientamento da raggiungere: questione da risolvere positivamente nel caso della prestazione del servizio di ristorazione visto gli interessi in gioco, ma forse non in ogni situazione.
5. CONTROLLO, MONITORAGGIO E REVISIONE DEI CONTRATTI DI PARTENARIATO PUBBLICO PRIVATO: IL RUOLO DEL DIPE E DEGLI ENTI CONCEDENTI a cura di Antonio Iuliano
Il 15 dicembre 2023, il DIPE (Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica della Presidenza del Consiglio dei ministri) e Cassa depositi e prestiti hanno pubblicato -in collaborazione con l’Istituto per il credito sportivo, il Mef (Ragioneria generale dello stato) e Sport e Salute S.p.A.- un Manuale operativo a supporto dell’utilizzo del PPP nella realizzazione e gestione degli impianti sportivi.
Tale manuale si compone di due parti, una generale dedicata all’istituto del PPP nel nuovo Codice dei contratti pubblici e una speciale, dedicata al PPP nel settore degli impianti sportivi. Ai fini della presente trattazione, che intende soffermarsi sull’attività di controllo e monitoraggio sull’esecuzione dei contratti di PPP -nonché sull’eventuale revisione- si farà riferimento soltanto alla prima parte.
La pubblicazione del manuale rappresenta l’occasione per chiarire il ruolo del DIPE in materia di Partenariato Pubblico Privato, cui il Codice dei contratti pubblici (D. lgs. 36/2023) assegna alcune rilevanti funzioni.
Peraltro, già a seguito della soppressione – ai sensi dell’art. 1, comma 589 della legge 208/2015 – dell’Unita tecnica finanza di progetto (UTFP), le cui funzioni sono state attribuite al DIPE, quest’ultimo ha assunto compiti di supporto alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di Partenariato Pubblico Privato. Il supporto si manifesta attraverso: la prestazione di servizi di assistenza tecnica, legale e finanziaria in tutte le fasi dei procedimenti; la raccolta dei dati e il monitoraggio delle operazioni di PPP; la promozione e la diffusione di modelli di partenariato; l’attivazione di rapporti di collaborazione con Istituzioni, anche a livello internazionale, Enti ed Associazioni operanti nei settori di interesse per l’azione del DIPE in materia di PPP e Finanza di Progetto.
Venendo al Codice dei contratti pubblici, lo stesso prevede anzitutto che, ai sensi dell’art. 175, comma 3, gli enti concedenti debbano richiedere al DIPE un parere in sede di valutazione preliminare – in particolare prima della pubblicazione del bando di gara in caso di progetto a iniziativa pubblica ovvero prima della dichiarazione di fattibilità in caso di progetto a iniziativa privata – in presenza di progetti di PPP di interesse statale, o finanziati con contributo a carico dello stato, il cui valore sia ricompreso tra i 50 e i 250 milioni (per quelli di valore superiore, il parere deve essere richiesto al CIPESS).
Inoltre, ai sensi del comma 4 della disposizione citata – e al di fuori dei casi di cui al comma 3 – regioni ed enti locali possono facoltativamente chiedere il parere del DIPE quando la complessità dell’operazione lo richieda.
Infine, in caso di operazioni di PPP di importo superiore a 10 milioni di euro finanziate con fondi PNRR, le P.A. sono tenute a chiedere al DIPE un parere preventivo, obbligatorio e non vincolante (art. 18-bis, commi 3-6, del D.l. 36/2022, convertito con modificazioni in Legge 79/2022).
In secondo luogo, ed è ciò che qui particolarmente interessa, l’art. 175, comma 7 stabilisce che il DIPE esercita, assieme alla Ragioneria generale dello Stato, l’attività di monitoraggio sui contratti di Partenariato Pubblico Privato tramite l’accesso all’apposito portale (https://ppp.rgs.mef.gov.it/ppp/#/home), mediante il quale gli enti concedenti sono tenuti a trasmettere le informazioni sui contratti stipulati.
Quanto agli scopi dell’attività di monitoraggio, l’art. 44, comma 1-bis, del d.l. 248/2007, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della l. 31/2008, prevede che, al fine di consentire la stima dell’impatto sull’indebitamento netto e sul debito pubblico delle operazioni di PPP avviate dalle P.A., le stazioni appaltanti siano tenute a comunicare le informazioni relative a tali operazioni all’UTFP, ora DIPE.
Inoltre, l’art. 1, comma 626 della l. 160/2019 prevede che, ai fini del monitoraggio delle clausole di flessibilità nell’ambito delle regole del Patto di stabilità e crescita europeo, nonché per la definizione del corretto trattamento statistico e contabile delle operazioni di PPP, le P.A. siano tenute a trasmettere al Dipartimento Ragioneria generale dello stato (Mef) le informazioni e i dati relativi alle operazioni di Partenariato Pubblico Privato.
In riferimento all’attività di rendicontazione, l’art. 175 del Codice conferma poi la disciplina generale, di talché gli enti concedenti sono tenuti a dare evidenza dei contratti di PPP stipulati mediante apposito allegato al bilancio d’esercizio, indicando il CUP (codice unico di progetto), il CIG (codice identificativo di gara), il valore complessivo del contratto, la durata, l’importo del contributo pubblico e l’importo dell’investimento a carico del privato.
L’attività di monitoraggio svolta dal DIPE e della RGS differisce, sotto diversi punti di vista, dall’attività di controllo svolta dalle P.A. concedenti sull’esecuzione dei contratti, cui fa riferimento l’art. 175, comma 6.
Infatti, come specificato dal succitato manuale operativo, durante la fase di esecuzione del contratto la P.A. concedente monitora il mantenimento in capo al privato dei rischi a lui trasferiti e verifica il corretto adempimento degli obblighi contrattuali, onde adottare, se del caso, i conseguenti provvedimenti (quale ad esempio l’applicazione di una penale).
Ai fini del suddetto controllo, è necessario che l’ente concedente disponga dei dati relativi alla gestione dei lavori e dei servizi e che ne monitori periodicamente l’andamento. Per fare ciò l’amministrazione individua -all’interno del contratto- i dati relativi alla gestione che il concessionario deve rendere disponibili per l’intera durata del rapporto, ricomprendendo, tra di essi, quelli utilizzati per la definizione dell’equilibrio economico-finanziario, onde poterne rilevare eventuali scostamenti.
Il contratto di PPP deve, dunque, disciplinare detti flussi informativi, ivi comprese le modalità di trasmissione e le penali da applicare in caso di mancata comunicazione.
L’attività di controllo, quindi, è funzionale alla verifica del mantenimento, durante la vita del contratto, della corretta allocazione dei rischi ed è strettamente collegata all’istituto della revisione del contratto, corollario del principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale codificato dall’art. 9 del nuovo Codice.
Quanto alla revisione, l’art. 192 stabilisce che “al verificarsi di eventi sopravvenuti straordinari o imprevedibili, ivi compreso il mutamento della normativa o della regolazione di riferimento, purché non imputabili al concessionario, che incidano in modo significativo sull’equilibrio economico-finanziario dell’operazione, il concessionario può chiedere la revisione del contratto nella misura strettamente necessaria a ricondurlo ai livelli di equilibrio e di traslazione del rischio pattuiti al momento della conclusione del contratto“.
Peraltro, anche in questa sede, è previsto un intervento del DIPE in caso di opere di interesse statale ovvero finanziate con contributo a carico dello Stato per le quali non sia già prevista l’intervento del CIPESS. Difatti, in questi casi, la revisione è subordinata alla previa valutazione del DIPE, sentito il NARS, che emette un parere di concerto con la Ragioneria generale dello stato.
Nonostante l’importanza conferita dall’art. 9 al principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale, le disposizioni codicistiche in materia di revisione sono quanto mai scarne. Risulta dunque utile, anche sotto questo profilo, quanto previsto dal manuale operativo, che innanzitutto ribadisce come lo strumento della revisione non sia utilizzabile ogniqualvolta si verifichi uno scostamento degli indici di redditività descritti nel contratto, essendo condizione necessaria per l’avvio della procedura sia il verificarsi di una delle fattispecie legittimanti, che dovrebbero essere puntualmente indicate nello stesso contratto, sia l’incidenza significativa sull’equilibrio del PEF. Il manuale rammenta, inoltre, la corretta prassi che le amministrazioni dovrebbero seguire nella predisposizione del contratto, svolgendo una valutazione ex ante delle fattispecie idonee a incidere sull’equilibrio economico finanziario e formalizzando tale valutazione all’interno del contratto in un’elencazione da considerarsi tassativa. Si ricordi peraltro che, ai fini del riequilibrio, nel PEF devono essere modificati soltanto i valori (di costo e di ricavo) influenzati dall’evento che ha innescato l’esigenza di ripristinare l’equilibrio contrattuale e che la revisione deve avvenire mediante la predisposizione di un atto aggiuntivo che, una volta sottoscritto, costituirà parte integrante del contratto di concessione.
In conclusione, dunque, l’attività di monitoraggio del DIPE e quella di controllo delle stazioni appaltanti rispondono a differenti fini e si esercitano attraverso modalità diverse. Ai fini di una più ampia trattazione dei due istituti -in particolare da un punto di vista operativo- si rimanda a quanto previsto dal succitato manuale, alle cui previsioni solo in parte si è fatto riferimento.
6. LA RELAZIONE SULL’APPLICAZIONE DEL CODICE DI AUTODISCIPLINA DELLE SOCIETA’ QUOTATE: QUESTIONI DI INTERESSE PER LE SOCIETA’ PUBBLICHE a cura di Marta Nigrelli
Il 14 dicembre 2023 il Comitato per la corporate governance di Borsa italiana ha approvato la sua dodicesima relazione annuale contenente l’undicesimo rapporto sull’applicazione del Codice di autodisciplina.
Il Comitato ha come scopo istituzionale la promozione del buon governo societario delle società italiane quotate. A tal fine approva il Codice di autodisciplina delle Società Quotate e ne assicura il costante allineamento alle best practices internazionali.
Dalla relazione si evince un giudizio complessivamente positivo sull’adesione al Codice. Da un lato, si nota un miglioramento progressivo nell’informazione fornita sulle nuove tematiche del Codice, come l’adesione al successo sostenibile e l’attuazione del dialogo con azionisti e altri stakeholder rilevanti.
Inoltre, la relazione rileva un aumento dell’attenzione per alcune misure di flessibilità e proporzionalità offerte dal Codice. In particolare, si apprezza l’autovalutazione triennale e la maggiore possibilità di non istituire uno o più comitati endoconsiliari, assegnando le relative funzioni al plenum consiliare.
Questa scelta non implica una riduzione delle ambizioni del Codice rispetto alle best practices attese, ma mira a offrire maggiore flessibilità nella definizione delle modalità attuative specifiche per le società meno complesse organizzativamente. L’approccio tende, in sostanza, ad evitare che tali società vengano sistematicamente considerate meno conformi al Codice rispetto a quelle più grandi con modelli organizzativi più complessi: le nuove modalità attuative consentirebbero alle società “non grandi” e a quelle a “proprietà concentrata” di adottare soluzioni semplificate in base alle loro caratteristiche dimensionali e agli assetti proprietari.
Il Comitato per la corporate governance, inoltre, nella relazione incoraggia le società a fornire una divulgazione adeguata riguardo al coinvolgimento dell’organo di amministrazione nell’esame e nell’approvazione del piano industriale, nonché nell’analisi dei temi cruciali per la creazione di valore a lungo termine, così come rilevato dal Principio I del Codice, in particolare la Raccomandazione 1, lettera a).
Il Comitato richiama l’attenzione sul Principio III del Codice, in particolare sulla Raccomandazione 2, che riguarda l’introduzione del voto maggiorato. Oltre a quanto raccomandato negli anni precedenti, e considerando le evoluzioni normative in discussione in Parlamento, il Comitato evidenzia che solo meno di un quinto delle società che hanno introdotto il voto maggiorato dal 2020 rispetta completamente la raccomandazione. Le informazioni fornite sono spesso assenti o generiche, in particolare riguardo alle finalità della scelta e agli effetti attesi sulle strategie future.
Il Comitato invita le società a garantire una disclosure adeguata nelle proposte dell’organo di amministrazione all’assemblea sull’introduzione del voto maggiorato. Tale informativa dovrebbe includere le finalità della scelta, gli effetti attesi sugli assetti proprietari e di controllo, nonché sulle strategie future. In caso di mancata indicazione di tali elementi, si chiede alle società di fornire una motivazione appropriata.
Lo statuto delle società quotate, non potendo ricorrere ad azioni a voto plurimo, può solo prevedere una maggiorazione del voto (fino ad un massimo di due), per le azioni detenute per almeno due anni.
Non si tratta di una categoria speciale di azioni: la maggiorazione non è una caratteristica oggettiva dell’azione, ma è invece una caratteristica soggettiva dell’azionista, il quale, in quanto socio “fedele”, dopo un certo periodo di tempo, ottiene la maggiorazione del diritto di voto. La maggiorazione serve a rafforzare i soci interessati alla gestione, ossia coloro che hanno una partecipazione rilevante ma non tale da avere il controllo (soci di medio-lungo periodo)
La necessità di un’adeguata disclosure deriva dalla tendenza a considerare la maggiorazione del voto come un ostacolo alla scalabilità, cioè alla contendibilità del controllo, che fa sì che il prezzo delle azioni sia piu alto.
L’art. 127-quinquies del Tuf prevede, infatti, che la maggiorazione venga meno in caso di change of control (“CoC”) dell’azionista titolare di una partecipazione rilevante con voto maggiorato.
L’esigenza di consentire ai soci di medio-lungo periodo di ottenere una maggiorazione del voto (e quindi maggiori diritti sul piano amministrativo) può costituire uno strumento adeguato, all’interno delle società a partecipazione pubblica, per mantenere un bilanciamento tra controllo pubblico ed effettiva partecipazione alla gestione da parte degli azionisti privati.
Dall’analisi effettuata nella relazione emerge che l’adesione al codice è soddisfatta in particolare da società di grandi dimensioni e società pubbliche: centrali, infatti, sono le raccomandazioni relative al perseguimento del successo sostenibile.
In particolare, l’utilizzo di parametri ESG e il rispetto della parità di trattamento risultano correlati soprattutto alla grandezza e all’identità dell’azionista di riferimento.
Gli obiettivi ESG sono utilizzati più spesso da società grandi (82%) e pubbliche (86%).
Laddove la società sia partecipata dallo Stato e sia contemporaneamente ammessa la quotazione delle relative azioni su mercati regolamentati, l’adesione alle raccomandazioni per una corretta governance societaria risulta fondamentale per consentire l’incontro fra esigenze pubbliche e interessi privati alla luce dei principi di trasparenza e lealtà del mercato finanziario e dell’azione amministrativa, nonché per consentire un controllo sull’efficienza e liceità attività svolte.
In questa direzione, dunque, si muovono le discipline specifiche relative agli obblighi di trasparenza cui devono attenersi società che, per la loro originaria natura privatistica e per la simultanea connotazione pubblicista del socio di maggioranza, incidono su ambiti e interessi di rilevanza generale.
L’art. 123-bis del T.u.f., infatti, prevede la predisposizione di una relazione sul governo societario: si tratta di un momento importante dell’informazione per le società quotate, nonostante risulti in parte come una duplicazione della informazione societaria.
L’obiettivo, però, è evidentemente legato alle suddette esigenze di correttezza e trasparenza dei mercati finanziari e delle operazioni sociali, motivo per cui gli stessi principi di affidabilità sono ripresi dall’art. 6, commi 4 e 5, del T.u.s.p: attraverso la pubblicazione, alla fine di ogni esercizio, di una relazione sintetica sul governo societario, il legislatore non solo crea un modello di relazione per tutte le società, così che possano essere comparate delle informazioni standardizzare, ma permette anche al mercato di avere più o meno contemporaneamente le stesse informazioni su tutte le società quotate, senza la necessità di effettuare ricerche specifiche.
Mentre per le società quotate la relazione interviene sia in tema di assetti proprietari che di governo societario, per le società pubbliche, il rinvio opera solo limitatamente ai profili di governance, sebbene il comma 3 dell’art. 123-bis del T.u.f. consenta che le informazioni dei precedenti commi possano figurare in una relazione distinta, comunque approvata dall’organo di amministrazione e pubblicata congiuntamente alla relazione sulla gestione.
Tra le società quotate a partecipazione pubblica, un buon esempio di adesione al Codice di corporate governance è offerto da Leonardo S.p.a.: la società, infatti, è stata più volte riconosciuta tra le aziende best-in-class in termini di sostenibilità.
Leonardo S.p.a. ha preferito istituire un apposito comitato endoconsiliare, c.d.Comitato Sostenibilità e Innovazione, che funge da Modello Operativo di Sostenibilità dedicato alla gestione e al presidio delle relative tematiche, anche con riguardo alle dinamiche di interazione con azionisti e stakeholder.
La società Leonardo S.p.a., al paragrafo 2 (informazioni sugli assetti proprietari), lettera H, della Relazione sul Governo societario, indica puntualmente tutti gli accordi destinati alla modifica o estinzione in caso di CoC. Infine, è dedicato un apposito paragrafo alle politiche in materia di diversità, con indicazione delle specifiche iniziative intraprese in tema di Gender Equality, che ha consentito alla società di essere inclusa per il terzo anno consecutivo nel Gender-Equality Index 2023, con il massimo punteggio per trasparenza nelle comunicazioni, equità e parità retributiva.
7. OPERAZIONI DI AGGREGAZIONE E AFFIDAMENTI IN HOUSE: IL CASO DI ACAM S.P.A. a cura di Elena Valenti
Il Consiglio di Stato, con sentenza del 20 novembre 2023, n. 9933/2023 si è pronunciato circa la legittimità del contratto di affidamento diretto del servizio pubblico per la gestione del ciclo dei rifiuti stipulato tra il Comune di Lerici e la società derivante dall’incorporazione tra Acam S.p.A e Iren S.p.A.
Con deliberazione del 15 giugno 2005, n. 28, il Consiglio Comunale del Comune di Lerici ha disposto l’affidamento in house del servizio per la gestione dei rifiuti fino a dicembre 2028 nei confronti di Acam S.p.A, società a partecipazione pubblica il cui capitale è ripartito tra il Comune di Lerici e il Comune di La Spezia.
A seguito di pubblica gara, Acam S.p.A ha compiuto un’operazione societaria aggregativa, necessitata da uno stato di crisi irreversibile, con un altro operatore economico attivo sul mercato italiano, Iren S.p.A, società multiutility a partecipazione pubblica quotata in borsa.
In esecuzione di apposito accordo di investimento concluso il 29 dicembre 2017, i Comuni soci hanno ceduto ad Iren S.p.A le azioni Acam da loro possedute ed hanno acquistato, sottoscrivendo un aumento di capitale riservato, una quota corrispondente di azioni Iren.
Tale operazione ha comportato che le azioni Acam sono diventate azioni Iren e quest’ultima, tramite le controllate dell’Acam, divenute controllate proprie, ha continuato a gestire i servizi ad esse in origine affidate.
Il comune di Lerici aveva espresso l’intento di non approvare l’aggregazione tramite delibera consiliare del 21 febbraio 2017 n. 4, successivamente ha aderito all’accordo di investimento soltanto con riferimento alla cessione delle proprie azioni Acam alla Iren.
Parallelamente, la Provincia, con deliberazione 6 agosto 2018 n. 48, ha approvato l’aggiornamento al piano d’area per la gestione integrata dei rifiuti urbani indicando la società Acam Ambiente s.p.a. (controllata di Iren S.p.A.) quale gestore del servizio anche per il Comune di Lerici.
Il Comune di Lerici ha impugnato deliberazione provinciale ritenendo non più sussistenti i requisiti dell’affidamento in house e ha avviato una serie di procedimenti amministrativi volti a sottrarre la gestione del servizio nel proprio territorio per affidarlo tramite pubblica gara ad un terzo soggetto.
Il T.a.r. per la Liguria ha respinto il ricorso con sentenza n. 847/2019 ritenendo che l’affidamento in house del servizio per il Comune, legittimo nel momento in cui fu originariamente disposto, fosse rimasto tale anche dopo il venir meno della partecipazione dell’ente nella società divenuta affidataria.
Avverso tale sentenza il Comune di Lerici ha proposto appello al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato in accoglimento della domanda formulata dal Comune di Lerici ha rimesso la questione di pregiudizialità alla Corte di Giustizia europea al fine di chiarire la compatibilità della normativa nazionale con la direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014.
Secondo la Corte di Giustizia, che si è espressa con sentenza del 12 maggio 2022, C- 719/20, la direttiva si pone in contrasto con una normativa nazionale (o con una prassi nazionale largamente diffusa) in forza della quale l’esecuzione di un appalto pubblico, aggiudicato inizialmente ad un ente in house sul quale l’amministrazione aggiudicatrice esercitava, congiuntamente, un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi, sia proseguita automaticamente dall’operatore economico che ha acquisito l’ente, al termine di una procedura di gara, qualora l’amministrazione aggiudicatrice non disponga di un simile controllo su tale operatore.
I giudici di Palazzo Spada hanno tuttavia ritenuto che la sentenza della Corte di Giustizia non travolgesse quanto statuito dai giudici di primo grado, poiché non ha considerato un ulteriore elemento di fatto: la dismissione del pacchetto azionario da parte del Comune di Lerici è avvenuta dopo il perfezionamento dell’operazione di aggregazione, ossia quando il Comune di Lerici era ancora socio di Acam S.p.A.
La procedura di gara diretta alla individuazione dell’operatore economico con il quale la società Acam S.p.A. avrebbe dovuto aggregarsi si è conclusa con la deliberazione dell’amministratore unico di Acam s.p.a. del 23 giugno 2017, quando senza dubbio il Comune di Lerici era ancora socio di Acam s.p.a. non avendone ancora dismesso la relativa partecipazione azionaria.
Ne consegue che, al momento dell’espletamento della procedura di gara da parte di Acam s.p.a., il Comune di Lerici non poteva considerarsi estraneo ad Acam s.p.a., cui è subentrata, a seguito di gara pubblica a doppio oggetto, Iren s.p.a.
La dismissione del pacchetto azionario da parte del Comune senza successivo acquisto delle azioni Iren non è elemento idoneo a far venir meno i presupposti per la prosecuzione del servizio, in quanto al momento della individuazione del soggetto aggregatore il Comune di Lerici faceva ancora parte della compagine societaria di Acam S.p.A. e, di conseguenza, partecipava delle relative decisioni gestionali e organizzative in qualità di socio.
Se accolta nella sua interezza la tesi del Consiglio di Stato potrebbe avere come conseguenza la vanificazione del requisito del controllo analogo che si ritiene debba perdurare per tutta la durata dell’affidamento.
Il Consiglio di Stato, nel rigettare il ricorso, ha sottolineato che la procedura di gara non era solo diretta alla scelta del partner commerciale di Acam s.p.a., ma anche del miglior operatore economico presente sul mercato per la gestione del servizio, essendo a doppio oggetto.
Da ciò ne deriva che ogni operatore economico del settore è stato messo in condizione di partecipare alla procedura di gara, conseguentemente non è ravvisabile alcuna arbitraria discriminazione degli operatori economici e alcuna elusione delle regole del mercato.
La sussistenza dei presupposti per l’affidamento diretto deve essere valutata al momento della selezione dell’operatore economico, e non successivamente all’operazione societaria.
In questo caso, per i giudici di Palazzo Spada è dirimente la circostanza che la selezione non è avvenuta automaticamente, ma tramite gara pubblica, quando sussistevano ancora i presupposti dell’in house providing.
Dunque, gli atti di diritto privato di gestione della società, quali fusioni o incorporazioni, non travolgono automaticamente la legittimità dell’affidamento diretto.
Tale principio è ribadito dall’art. 3 – bis, comma 2 – bis, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, il quale dispone che l’operatore economico succeduto al concessionario iniziale a seguito di operazioni societarie effettuate con procedure trasparenti, comprese fusioni o acquisizioni, fermo restando il rispetto dei criteri qualitativi stabiliti inizialmente, prosegue nella gestione dei servizi fino alle scadenze previste.
È utile mettere in evidenza come la tendenza delle società a partecipazione pubblica di compiere operazioni societarie di incorporazione con società a partecipazione pubblica quotate nel mercato di borsa è giustificata dalla maggior competitività delle società a partecipazione pubblica quotate che dispongono di maggiori risorse, grazie agli investimenti degli azionisti.
La sentenza del Consiglio di Stato appare inoltre in linea con l’atteggiamento del legislatore sul tema della crisi e insolvenza delle società a partecipazione pubblica.
L’art. 14 del Testo unico sulle società a partecipazione pubblica, d. lgs. 175 del 2016, assoggetta tali società alle norme sul fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione straordinaria.
È utile mettere in evidenza come le operazioni di incorporazione o fusione delle società pubbliche con società pubbliche quotate avvengano spesso al fine di risollevare la società a partecipazione pubblica utilizzando le maggiori risorse di cui dispongono le quotate.
L’incorporazione con una società a partecipazione pubblica quotata, se selezionata tramite pubblica gara, appare non solo legittima ma anche idonea alla sopravvivenza delle società a partecipazione pubblica nel mercato dei servizi pubblici, caratterizzato da un elevato livello di competitività. Se da un lato appare opportuno che la giurisprudenza impedisca alle operazioni di diritto societario di eludere di fatto le norme a tutela della libera concorrenza, dall’altro il favor della giurisprudenza amministrativa nell’interpretazione delle operazioni societarie consente alle società partecipate di proseguire nella gestione del servizio pubblico.
8. IL SILENZIO ASSENSO PUÒ FORMARSI IN ASSENZA DEI PRESUPPOSTI SOSTANZIALI? a cura di Giulia Moscaroli
Con sentenza n. 11203 del 27 dicembre 2023, il Consiglio di Stato si è pronunciato sul ricorso proposto da alcuni residenti del Comune di Boissano avverso la sentenza del Tar Liguria, sez. II, dell’11 aprile 2023, n. 429.
La vicenda prende le mosse dall’impugnazione, da parte dei ricorrenti, del provvedimento autorizzativo formatosi per silentium sull’istanza presentata il 5 ottobre 2021 da Iliad Italia S.p.A. ai fini dell’installazione di una stazione radio base per la telefonia mobile nel citato Comune. Il Tar Liguria aveva, tuttavia, dichiarato inammissibile il ricorso per carenza di interesse ad agire.
I residenti propongono quindi appello di fronte al Consiglio di Stato, lamentando l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui considera carente l’interesse ad agire dei ricorrenti e ritiene correttamente integrata la fattispecie di silenzio assenso prevista dall’art. 87, co. 9, d.lgs. n. 259/2003.
Il Consiglio di Stato adito condivide la posizione dei ricorrenti sia in relazione alla sussistenza dell’interesse ad agire, sia nel merito.
In primo luogo, i Giudici di Palazzo Spada ritengono sussistenti le due condizioni soggettive dell’azione in materia edilizia necessarie per l’ammissibilità del ricorso alla luce della recente sentenza n. 22 del 2021 dell’Adunanza Plenaria. In particolare, i ricorrenti hanno allegato elementi sufficienti a ritenere integrato il requisito della vicinitas, essendo comprovata la contenuta distanza tra alcune abitazioni e l’area di intervento, e lo specifico pregiudizio, avendo prospettato problematiche in relazione alla nocività dell’impianto e all’alterazione della veduta dalle proprie abitazioni.
Passando all’esame del merito della questione, il Consiglio di Stato ricostruisce l’istituto del silenzio assenso disciplinato dall’art. 87, co. 9, d.lgs. n. 259/2003. Si tratta di un meccanismo di semplificazione che si inserisce nel procedimento di installazione delle infrastrutture per impianti radioelettrici, il quale, secondo la giurisprudenza amministrativa, costituisce un procedimento unico, nell’ambito del quale devono confluire anche le valutazioni edilizie, senza che sia necessaria l’attivazione di un secondo autonomo procedimento edilizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14 febbraio 2022, n. 1050).
L’art. 87 d.lgs. n. 259/2003 stabilisce che le istanze di autorizzazione si considerano accolte ove, entro il termine perentorio di novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte dell’organismo cui sono affidati compiti di controllo e non sia stato espresso un dissenso motivato da un’amministrazione preposta alla tutela dell’ambiente, del paesaggio o dei beni culturali. L’autorità procedente, inutilmente decorso tale termine, comunica l’attestazione di avvenuta autorizzazione.
La questione controversa, nel caso di specie, circa l’intervenuta formazione o meno del silenzio assenso può essere risolta solo indagando i requisiti necessari per la corretta formazione di un provvedimento tacito. Si tratta, in buona sostanza, di accertare se il provvedimento tacito di accoglimento dell’istanza consegua al mero decorso del tempo indicato dalla norma oppure se sia necessaria la concreta sussistenza dei presupposti normativi per l’attribuzione della vita. La mancata conformità della fattispecie concreta ai presupposti disciplinati e richiesti dal modello legale di riferimento può avere la duplice conseguenza di rendere solo illegittimo il provvedimento amministrativo tacito formatosi ovvero di impedire radicalmente la formazione del silenzio assenso.
Sul punto sono state avanzate due diverse tesi. Secondo una prima tesi, la formazione del provvedimento tacito è subordinata alla mera presentazione dell’istanza e al decorrere del tempo previsto dalla legge. Un diverso orientamento giurisprudenziale richiede, invece, come presupposto indefettibile ai fini della corretta formazione del silenzio assenso la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge. Il denominatore comune delle due tesi risiede comunque nel principio per cui non si può ottenere per silenzio assenso quello che non sarebbe altrimenti possibile ottenere con l’esercizio espresso del potere da parte delle pubbliche amministrazioni. La differenza, pertanto, afferisce al fatto che per la prima tesi il binomio è costituito dai concetti legittimità/illegittimità del silenzio assenso, per cui può essere un provvedimento tacito di accoglimento illegittimo, mentre per la seconda il binomio è esistenza/inesistenza del silenzio, potendo esistere, dunque, solamente un provvedimento di accoglimento tacito legittimo.
Come noto, l’istituto del silenzio assenso risponde a una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia della pubblica amministrazione equivale a un provvedimento di accoglimento dell’istanza, sicché il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo a una domanda non conforme a legge, ferma restando la possibilità di agire in autotutela e di impugnativa giudiziale per i controinteressati.
Il Collegio giudicante ritiene che, ove si aderisse alla tesi che ritiene radicalmente inesistente il silenzio assenso formatosi in assenza dei presupposti normativamente previsti, si finirebbe per sottrarre i titoli formatisi illegittimamente alla disciplina dell’annullabilità e, quindi, per vanificare le finalità di semplificazione, che costituiscono la ratio dell’istituto. Difatti, nessun vantaggio può vantare l’operatore economico se l’amministrazione inerte può disconoscere gli effetti della domanda in qualunque momento e senza gli oneri processuali legati all’esercizio del potere di annullamento in autotutela. L’amministrazione inerte potrebbe, pertanto, provvedere in ogni tempo, così contrastando le ragioni sottese all’art. 87 in esame, posto a tutela dell’interesse del privato e finalizzato a responsabilizzare la pubblica amministrazione.
Ad avviso dei giudici, la formazione di un provvedimento implicito di assenso in ragione del mero decorso del tempo dalla data di presentazione dell’istanza non determina alcuna deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione competente, che deve comunque svolgere, proprio come nell’ipotesi in cui fosse obbligata all’adozione di un provvedimento espresso, una puntuale ed esaustiva istruttoria al fine di verificare se sussistono i presupposti ed i requisiti previsti dalla legge per l’attribuzione del bene richiesto. L’amministrazione competente dunque, effettuati i necessari accertamenti, può decidere di adottare un provvedimento espresso oppure di lasciar formare un provvedimento tacito.
Diversamente, l’omesso o incompleto svolgimento dell’istruttoria da parte dell’autorità procedente costituisce una situazione patologica, considerando che rappresenta l’elemento centrale del procedimento amministrativo proprio la fase dell’istruttoria, di cui la decisione costituisce un precipitato e una conseguenza logica. Tuttavia, l’istanza deve, ai fini dell’espletamento di una corretta istruttoria, essere necessariamente corredata da tutti gli elementi necessari per l’accertamento della spettanza del bene della vita, potendosi il silenzio assenso formare solo in tali ipotesi.
Il Consiglio di Stato opta per l’interpretazione più idonea a tutelare gli interessi in conflitto. Dunque, l’assenso tacito si forma sulla domanda corredata di tutti gli elementi necessari per la valutazione dell’amministrazione allorquando sia decorso il termine di legge senza che quest’ultima abbia provveduto. Non può, invece, essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per l’accoglimento dell’istanza, ossia per contrasto di quest’ultima con la normativa di riferimento.
Diversamente, il silenzio assenso non può formarsi ove l’istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l’amministrazione destinataria sia stata impossibilitata, per il comportamento dell’istante, a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene. In queste circostanze si avrà, pertanto, un’ipotesi di inesistenza del provvedimento tacito e non di sua illegittimità. A sostegno di questa interpretazione milita la ratio dell’istituto del silenzio assenso, posto che il concetto di semplificazione non si può tradurre in una deresponsabilizzazione dell’azione amministrativa. Ricollegare all’inerzia dell’amministrazione un provvedimento tacito di accoglimento significa tutelare l’esigenza di certezza delle posizioni giuridiche dei soggetti coinvolti dal procedimento, non far venir meno l’obbligo per l’autorità procedente di accertare, nell’ambito di una corretta e articolata istruttoria, la presenza dei presupposti e requisiti richiesti dalla legge per l’attribuzione del bene della vita.
Il Collegio ritiene, conclusivamente, che l’istanza idonea a far decorrere il termine per la formazione del silenzio assenso sia esclusivamente quella corredata dalla dichiarazione di sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge previsti e necessari per il corretto espletamento della fase istruttoria da parte dell’amministrazione.
Sulla base di tali premesse, il Consiglio di Stato ritiene che, nella fattispecie in esame, il silenzio assenso non possa ritenersi validamente formato, posto che l’amministrazione competente non ha svolto correttamente il procedimento cui era preposta ai sensi dell’art. 87 d.lgs. n. 259/2003 anche per omissioni e incompletezze documentali nella domanda di Iliad. Da ciò consegue l’accoglimento del ricorso e l’annullamento del provvedimento tacito di assenso impugnato con conseguente obbligo per il Comune di riesaminare l’istanza presentata da Iliad nell’ottobre 2021. La conclusione cui giunge il Consiglio di Stato pare, ad avviso di chi scrive, la più coerente con la ratio del silenzio assenso. Si tratta infatti di un istituto giuridico alternativo al provvedimento conclusivo, non certamente allo svolgimento dell’intero procedimento. Ciononostante, se l’interessato ha attuato tutti gli adempimenti necessari affinché il procedimento possa essere dall’amministrazione compiutamente e correttamente svolto, il silenzio significativo deve potersi formare ugualmente, non potendo l’inerzia dell’amministrazione ridondare in danno della parte istante diligente, con conseguente omissione di atti d’ufficio dell’amministrazione che, pur essendo stata messa nelle condizioni di poter procedere, non ha svolto la propria attività.
9. QUALE IL CODICE APPLICABILE AGLI APPALTI PNRR E ASSIMILATI? LA QUERELLE TRA IL MIT E LA GIURISPRUDENZA a cura di Carlo Maria Fenucciu
Recentissime sentenze dei T.A.R. Reggio Calabria, Umbria e Roma dimostrano che la giurisprudenza amministrativa è coesa nel ritenere che agli appalti finanziati con fondi a valere sul PNRR e assimilati si applichi la disciplina speciale per essi prevista, integrata con il Codice dei Contratti Pubblici di cui al d. lgs. 31 marzo 2023. Tali pronunce fanno luce su di una questione ampiamente controversa, disattendendo, peraltro, le direttive del MIT, che aveva indicato, quale normativa applicabile, il Codice del 2016. La questione, tuttavia, è complessa e merita di essere approfondita.
È noto che con decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 è stato varato un nuovo Codice dei Contratti Pubblici, con contestuale abrogazione del precedente, di cui al decreto legislativo 21 aprile 2016, n. 50. Come di consueto, la nuova disciplina si applica agli appalti che non siano stati ancora indetti alla data in cui le disposizioni acquisiscono efficacia, che in tal caso è il 1° luglio ai sensi dell’articolo 229 comma 2. Le procedure indette anteriormente a tale data continueranno ad essere soggette al Codice del 2016, giusta il disposto dell’articolo 226, comma 2.
D’altra parte, però, il legislatore ha deciso di fare salva la disciplina speciale prevista per le opere finanziate, in tutto o in parte, i fondi PNRR ed assimilati, anche per i procedimenti indetti successivamente al 1° luglio. Ciò è indicato all’articolo 225, comma 8, che fa espresso riferimento al d.l. 77/2021, al d.l. 13/2022 nonché le altre legislative finalizzate a semplificare e agevolare la realizzazione degli obiettivi stabiliti dal PNRR, dal PNC nonché dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030.
La difficoltà ermeneutica sta nel coordinare tale articolo con la disposizione transitoria di cui all’articolo 226, comma 5, in virtù del quale ogni richiamo al d. lgs. 50/2016 si intende riferito alle corrispondenti disposizioni del codice [del 2023] o, in mancanza, ai principi desumibili dal codice stesso. E la normativa speciale fatta salva, chiaramente, contiene plurimi richiami al Codice del 2016. Quid iuris?
Il coordinamento può risolversi, essenzialmente, in due diversi modi. Il primo, secondo il quale le disposizioni speciali PNRR sono fatte salve con tutto il loro rinvio al Codice del 2016, che continuerà ad applicarsi: un rinvio, dunque, fisso, o recettizio. Il secondo, in virtù del quale il rinvio alle disposizioni del Codice deve essere adesso inteso al Codice del 2023 attualmente vigente, valorizzando così il disposto dell’articolo 226, comma 5: un rinvio, dunque, dinamico, o mobile.
La circolare del MIT 12 luglio 2023 chiarisce che la lettura da adottare è la prima; il problema poteva così considerarsi risolto. Tale esegesi risulta confermata dalla risposta al quesito del Servizio Supporto Giuridico del 19/07/2023, n. 2153, in cui è chiaramente e inequivocabilmente riportato che sulla base delle indicazioni di cui alla circolare del MIT del 12.07.2023 si ritiene che il nuovo codice non trovi sostanzialmente applicazione [per gli appalti PNRR e assimilati], ribadito, peraltro, nel parere del 31/07/2023, n. 2203.
Sennonché, un controverso intervento normativo torna a complicare le cose. Con d.l. 69/2023 è inserita all’interno dell’articolo 48, comma 3, d.l. 77/2021 la seguente frase: “trova applicazione l’articolo 226, comma 5 del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36”. Tale aggiunta potrebbe rimettere in discussione quanto esposto nella circolare del MIT, il quale, peraltro, non chiarisce minimamente i dubbi, nonostante vi siano quesiti del Servizio Supporto giuridico a ciò dedicati successivi a tale emenda (ad. es. Quesito del Servizio Supporto Giuridico 2295 del 19/09/2023, nonché 2165 del 21/07/2023).
Nonostante un’apparente contraddizione, le fonti possono ricondursi a coerenza come segue.
L’emendamento in questione è inserito al comma 3 dell’articolo 48, che riguarda l’applicazione della procedura negoziata senza pubblicazione di bando agli appalti PNRR e assimilati. Ciò potrebbe indicare che solo in riferimento a tale aspetto (ovvero, quale siano le norme che presiedono alla procedura negoziata senza pubblicazione) si farà riferimento al Codice del 2023. Al di fuori di questo articolo 48, si continuerà ad applicare il Codice del 2016, e dunque la circolare del MIT.
Se il quadro così ricostruito può ritenersi coerente, le sentenze in oggetto hanno nuovamente intaccato la tenuta della circolare del MIT.
La prima sentenza che si rinviene è firmata dal T.A.R. Reggio Calabria, 26 ottobre 2023, n. 782. Il collegio non prende dichiaratamente posizione in merito alla questione che si sta presentando, semplicemente regola il caso controverso -inerente a un appalto PNRR- facendo riferimento alle disposizioni del Codice 2023, dunque in contrasto con la circolare del MIT.
Affronta più direttamente la questione il T.A.R. Umbria, nella sentenza 23 dicembre 2023, n. 758, che in modo chiaro e inequivoco rinviene il bandolo della matassa nell’articolo 226, comma 5, in virtù del quale tutte le disposizioni che fanno riferimento al Codice del 2016 si intendono rinviare al nuovo Codice, per cui, sono soggette a tale previsione anche le disposizioni speciali PNRR. Tutto ciò senza, peraltro, fare neanche un accenno alla circolare del MIT del 12 luglio, la quale si orienta, come visto, in senso diametralmente opposto.
Aderisce, altresì, a tale lettura ermeneutica il T.A.R. Lazio, Sezione I-bis, con la sentenza 3 gennaio 2024, n. 134 che, al contrario dei precedenti, prende anche posizione sulla circolare di luglio 2023, sancendone, in particolare, l’illegittimità e dunque la disapplicazione. L’orientamento del MIT sarebbe in contrasto con il disposto dell’articolo 226, comma 5, il quale chiaramente afferma che i rinvii operati al Codice del 2016 si intendono effettuati al Codice del 2023. Si attenderà, dunque, un intervento nomofilattico del Consiglio di Stato per confermare definitivamente l’obliterazione della circolare MIT o, al contrario, riformare la tesi prospettata dai giudici di prime cure.
10. ALCUNE INDICAZIONI DELL’AGCM PER GLI AFFIDAMENTI DELLE CONCESSIONI BALNEARI NEL COMUNE DI JESOLO a cura di Andrea Nardone
Negli ultimi lustri l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha saputo interpretare un ruolo che non può essere ridotto al puro enforcement delle regole della concorrenza. Piuttosto, l’Antitrust si è servita del significativo strumentario di poteri di cui dispone, consultivi e di segnalazione, per svolgere un rilevante ruolo di advocacy.
Nell’ambito di tali poteri, con riferimento al mercato delle cc.dd. concessioni balneari, in data 12 dicembre 2023 l’AGCM ha reso un parere (rif. AS1930), ai sensi dell’art. 22 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, in merito alle procedure di affidamento delle concessioni demaniali marittime nel Comune di Jesolo, in connessione con il processo di revisione della disciplina comunale in atto. Quello previsto dall’art. 22 della legge n. 287/1990, in effetti, è un potere di competition advocacy di tipo preventivo (M. Ramajoli), con il quale l’Autorità offre il suo contributo nella fase ascendente della formazione delle leggi e dei regolamenti.
Con il parere, preliminarmente, l’Autorità ha salutato con favore l’adeguamento in corso ai principi pro-concorrenziali delle procedure di affidamento delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, apprezzando soprattutto la previsione della richiesta, da parte del Comune, nell’ambito del procedimento di rilascio di una nuova concessione marittima, della presentazione di un programma di investimenti e di un piano economico finanziario. In effetti, tale ultima previsione, in particolare, dovrebbe consentire di valorizzare il momento della «gestione» delle coste da parte del privato, mettendo in risalto la fase del rapporto di durata della concessione.
Nondimeno, l’Autorità ha ritenuto di sollevare alcuni rilievi rispetto a talune disposizioni del Regolamento dell’uso del demanio marittimo del Comune di Jesolo del 2015. Le prime considerazioni riguardano l’art. 27, che rinvia ad una deliberazione della Giunta la determinazione dei criteri per la valutazione dell’offerta più favorevole. Il Comune – secondo l’Autorità – dovrebbe modificare tale disposizione, indicando con maggior dettaglio i criteri di valutazione delle istanze ricevute, in linea con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE (direttiva Bolkestein) e con le indicazioni contenute nelle sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 9 novembre 2021, nn. 17 e 18. In quell’occasione, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come i criteri di selezione «dovrebbero dunque riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, essere collegati all’oggetto del contratto e figurare nei documenti di gara».
Alcune indicazioni dell’AGCM riguardano poi gli articoli 25 e 26 del Regolamento, attinenti alla selezione del concessionario nel caso di concorso di più domande di concessione. Più nel dettaglio, l’Autorità suggerisce di modificare l’articolo 25 nella parte in cui ammette alla concorrenza domande di concessione con il limite della compatibilità delle stesse ai vincoli di carattere territoriale, urbanistico, ambientale. Tali vincoli, tuttavia, non possono tradursi in un ostacolo al pieno dispiegarsi della concorrenza, dovendo piuttosto operare, se del caso, a monte delle procedure selettive. Con riferimento all’articolo 26, l’Antitrust suggerisce inoltre di espungere la disposizione del comma 1, a mente del quale è preferita la domanda di concessione delle strutture ricettive sull’arenile prospiciente. Tale preferenza sarebbe del tutto immotivata, dal momento che finirebbe per riconoscere un vantaggio a priori a determinati soggetti in virtù di una caratteristica del tutto contingente (e cioè la localizzazione vicino all’arenile) e non già in ragione di qualità delle rispettive domande, arrecando in tal maniera una limitazione alla concorrenza.
Da ultimo, l’attenzione dell’AGCM è ricaduta sulla previsione di cui all’art. 33 del Regolamento d’uso comunale, che consente il rinnovo delle concessioni su domanda del concessionario, «senza formalità di istruttoria». Rispetto a tale disposizione l’Antitrust ravvisa un contrasto con l’art. 12, comma 2, della direttiva Bolkestein, il quale vieta in ogni caso procedure di rinnovo automatico delle autorizzazioni.
Allo scadere della concessione, perciò, il Comune dovrebbe sempre indire una nuova procedura competitiva. In effetti, la previsione generale e indiscriminata di forme di rinnovo automatico delle concessioni è idonea ad arrecare un vulnus alla concorrenzialità degli affidamenti, nella misura in cui determina la chiusura del mercato alla concorrenza per un periodo aggiuntivo di dieci anni, ulteriori rispetto ai cinque originariamente previsti.
Per non vanificare il ricorso a procedure concorrenziali di assegnazione, anzi, la stessa durata originaria del rapporto concessorio dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario per il recupero degli investimenti, avendo riguardo al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa. Onde evitare, però, che brevi durate delle concessioni si traducano in un disincentivo alla realizzazione degli investimenti, l’AGCM suggerisce di introdurre la facoltà di porre a base d’asta, nelle procedure selettive, il valore di eventuali investimenti effettuati dal gestore uscente non ammortizzati e per i quali non sia possibile la vendita su un mercato secondario.
L’AGCM, dunque, ha invitato il Comune di Jesolo a comunicare, entro 30 giorni dalla ricezione del parere, le iniziative assunte con riguardo alle criticità concorrenziali evidenziate. Ad ogni modo, è il caso di evidenziare come la caratteristica precipua del parere ex art. 22 l. n. 287/1990 sia quella della sua facoltatività: le amministrazioni, ove decidano di conformarsi allo stesso, lo faranno solo in ragione dell’autorevolezza del soggetto che si è pronunciato. Tale dato spiega il limitato successo degli strumenti facoltativi e la preferenza spesso accordata agli strumenti obbligatori, come il parere ex art. 21-bis della legge n. 287/1990, che è propedeutico all’instaurazione di un’azione giudiziale da parte dell’AGCM. Eppure, l’utilizzo del parere ex art. 22 l. n. 287/1990 risulta essere una soluzione spesso preferibile. Proprio per il fatto di intervenire in una fase preventiva, il parere ex art. 22 l. n. 287/1990 dell’AGCM può infatti dispiegare una funzione autenticamente consultiva; altrettanto non può dirsi per il parere ex art. 21-bis l. n. 287/1990, il quale, a dispetto del nome, ha piuttosto la sostanza di una diffida alla rimozione postuma, in autotutela, di un atto già emanato. La forte pressione realizzata per suo tramite, peraltro, potrebbe produrre qualche attrito con la natura intimamente discrezionale del potere di autotutela (cfr. art. 21-novies l. 7 agosto 1990, n. 241). Lo strumento del parere ex art. 22 l. n. 287/1990, in quest’ottica, appare maggiormente rispettoso della discrezionalità dei decisori, aggiungendosi alla base di informazioni in loro possesso e contribuendo, in questa maniera, alla formazione delle rispettive scelte.