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La seconda chance: una rivisitazione dei ricorsi amministrativi per una reale alternativa al processo

di Filippo Maria Longhi

13/03/16

Sommario:
1. Introduzione. Ricorsi amministrativi: nessuna speranza
2. L’amministrazione in funzione giustiziale
3. Una nuova concezione dell’autotutela
4. I ricorsi amministrativi nel nostro ordinamento
5. Un caso di ricorso gerarchico improprio: l’istanza alla Commissione per l’accesso
6. L’esempio inglese: gli administrative tribunals
7. Conclusione. Una rivisitazione radicale dei ricorsi amministrativi e le commissioni indipendenti

1. Introduzione. Ricorsi amministrativi: nessuna speranza

Se il diritto amministrativo italiano fosse un museo, lo immaginerei come un museo di storia naturale, come quelli dei film americani. Penso che un piano, o forse di più, sarebbe dedicato alla risoluzione delle controversie tra la pubblica amministrazione e i privati. Lì, in quegli spazi, troveremmo tante grandi sale dedicate alla giustizia amministrativa: le origini, lo sviluppo, l’evoluzione… con tanto di racconti sul contenzioso amministrativo, la sua legge abolitiva, l’istituzione della sezione giurisdizionale del consiglio di Stato e così via, fino al nuovo codice del processo amministrativo. Ecco, in quello stesso piano, in una stanza – ampia, per carità, ma magari impolverata e scarsamente illuminata – dovrebbero venire accolti anche alcuni relitti, delle ricostruzioni con tanto di ossa, di qualcosa che ormai è considerato defunto e sepolto: i ricorsi amministrativi. Rappresenterebbero i dinosauri di questo museo di storia naturale.

Non è un’esagerazione. Se si mette mano ai manuali di diritto amministrativo (prendiamone uno a caso: quello di Guido Corso, VI edizione), su 600 pagine dedicate alla materia, circa 140 sono riservate alla giustizia amministrativa, e 4 (dico: 4) ai ricorsi amministrativi: 2 a quelli interni all’amministrazione e 2 al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

Escludiamo questa seconda ipotesi, sulla cui natura amministrativa o giurisdizionale si è scritto molto, e forse non tutto. Concentriamoci sui ricorsi amministrativi ordinari.
Tipicamente, gli Autori descrivono in poche righe di cosa si tratti, di quanto potrebbero essere utili, di quanto siano inutili. ‘L’amministrazione (cattiva) che si fa’ giustizia da sé’, e questo non piace. Il cittadino ora libero da questi strumenti, frutto di sistemi del passato, ormai superati e dimenticati in forza del ricorso giurisdizionale.

Sbattuti fuori dalla porta, i ricorsi amministrativi non potrebbero rientrare neppure dalla finestra. Nel senso che anche in chiave di alternatività alla giurisdizione, e quindi di analisi degli strumenti di a.d.r., c’è chi mette le mani avanti, escludendoli a priori, forse con motivazioni condivisibili: “Nei ricorsi amministrativi, così come normativamente configurati, è assente quella logica partecipativa e consensuale, che porta a favorire soluzioni condivise, propria invece degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. Ma soprattutto nei ricorsi amministrativi ordinari, anche in quelli gerarchici impropri, manca l’ulteriore tratto caratteristico degli strumenti alternativi, ossia la terzietà e la neutralità del soggetto risolutore o facilitatore della risoluzione rispetto agli interessi in gioco. Essi seguono la differente e tradizionale “logica dell’autotutela amministrativa”, che rispecchia una concezione autoritaria della pubblica amministrazione”i.

Sembra quindi che non ci sia alcuna speranza di ripresa, per i nostri ricorsi amministrativi. E che siano da relegare a quell’ala del museo in cui le scolaresche non passeranno mai, o che forse attraverseranno con la curiosità di chi osserva i relitti di un passato ormai superato.

2. L’amministrazione in funzione giustiziale

Forse un’ancora di salvezza c’è. Parte della dottrinaii si premura di sottolineare i caratteri fondamentali dell’amministrazione in funzione giustiziale, nettamente distinta dall’amministrazione che solitamente ci immaginiamo dedita a concedere, negare, autorizzare, regolamentare, espropriare (ovvero l’amministrazione attiva). L’amministrazione giustiziale sarebbe quella dedicata esclusivamente alla risoluzione, al proprio interno, dei conflitti con il cittadino, in modo imparziale e obiettivo, evitando il ricorso al potere giurisdizionale.

I ricorsi amministrativi, alla fin fine, nascevano dall’idea che l’amministrazione avesse i titoli per fare giustizia, risolvendo le liti. Il problema stava nell’esclusività di questo strumento, data la mancanza (in passato) di un sistema giurisdizionale, e in una certa impostazione del rapporto tra amministrazione e cittadino: un rapporto autoritativo, da potere sovrano a suddito.
Oggi la visione autoritativa è venuta meno. Lo Stato e la sua amministrazione sono a servizio del cittadino. E non a caso la materia dei servizi pubblici è all’ordine del giorno, e si parla di “utente sovrano” che prende il posto, con specifici diritti agli standard qualitativi della prestazione, del precedente mero destinatario dell’attività amministrativa.

Quella giustiziale sarebbe una funzione di tutela affidata all’amministrazione, attraverso però – questo l’elemento chiave – soggetti in posizione del tutto indipendente rispetto a quelli deputati all’amministrazione attiva, il cui operato è oggetto di contestazione per iniziativa del privato. Non si tratterebbe di concedere la grazia al suddito, ma di esercitare un dovere di fare giustizia all’interno dell’amministrazione.

L’indipendenza, quindi, rappresenta un requisito cardinale per poter configurare un’attività di questo tipo. La sua sussistenza, prima ancora di incidere sull’efficacia di questa attività (la naturale diffidenza a rivolgersi al complice del “colpevole” scoraggerebbe ogni cittadino dal sollevare denuncia o ricorso), determina la possibilità di una configurazione teorica. Separazione, quindi, tra amministrazione attiva e amministrazione giustiziale.

Avendo presente come l’interesse dell’amministrazione attiva sia in realtà un interesse di parte (rispondente al massimo con l’interesse della maggioranza dei cittadini; senz’altro non della totalità) che si scontra con l’interesse di parte del privato, l’amministrazione giustiziale sarebbe invece titolare di un diverso interesse pubblico, e – questa volta sì – generale: quello alla giustizia nell’attività amministrativaiii.

3. Una nuova concezione dell’autotutela

Come dicevamo, il diritto amministrativo attuale ha superato quasi totalmente le barriere che tentavano di proteggere l’autoritarismo e i connessi privilegi della pubblica amministrazione di un tempo. L’interesse pubblico affidato ad un organo di amministrazione attiva non è più una bacchetta magica in grado di giustificare qualunque intervento. Oggi il cittadino è sempre più protagonista, e l’amministrazione si evolve in linea con l’idea di servizio e non di supremazia nei confronti dell’amministrato.

Seguendo questa evoluzione epocale, la funzione giustiziale si potrebbe fondare sull’autotutela, com’è naturale immaginare, ma un’autotutela totalmente rivisitata. Non quella “che rispecchia una concezione autoritaria della pubblica amministrazione”iv (che potremmo definire come autotutela spontanea, legata al riesame delle decisioni da parte dello stesso soggetto che le ha emanate). Concordiamo infatti con la constatazione del fatto che un’autotutela fondata sull’auctoritas non sarebbe idonea a fornire tutela al privato. I ricorsi amministrativi più tipici, quelli gerarchici, denotano una incapacità strutturale di fare giustizia nell’interesse del cittadino: quasi mai il superiore gerarchico sarà disposto a sconfessare l’operato del suo sottoposto…

Non quella, dunque, ma un’autotutela con un fine diverso (e che potremmo definire autotutela contenziosa). In entrambi i casi, si tratta sempre di attività amministrativa, ma con due finalità ben diverse: nel primo caso, l’amministrazione attiva è per legge tenuta a perseguire solo e soltanto lo specifico interesse pubblico affidatole; nel secondo caso, l’amministrazione giustiziale, nel giudicare un provvedimento amministrativo, non ricerca più l’interesse pubblico originario, sotteso all’atto, bensì – come detto – un ulteriore, diverso e questa volta generale interesse alla giustizia nell’amministrazione. L’interesse generale da soddisfare è quello alla revisione dell’azione viziata, e non quello perseguito con il provvedimento oggetto del ricorso.

4. I ricorsi amministrativi nel nostro ordinamento

Utilmente ridefiniti, i ricorsi amministrativi potrebbero dunque salvarsi, andando a rappresentare l’espressione di questa funzione giustiziale: una funzione più rapida, economica e tecnicamente competente rispetto a quella giurisdizionale. Potrebbero essere lì ricondotti, rappresentando un canale di tutela decisivo, come avviene in altri sistemi, quale quello inglese, che citeremo in seguito.

I ricorsi amministrativi, nel nostro ordinamento, hanno rappresentato fino all’introduzione del sistema giurisdizionale (avvenuta nel 1889) l’unica possibilità di contestare l’operato del potere pubblico. Malgrado ciò, i ricorsi rimasero centrali sulla scena dato il loro necessario esperimento: l’ordinamento richiedeva infatti la definitività del provvedimento amministrativo quale condizione per la sua impugnazione dinanzi al giudice; e la definitività era appunto conseguenza della conclusione del procedimento sorto dal ricorso amministrativo.

Contestualmente alla legge TAR 1034/1971, si eliminò questa condizione dal ricorso giurisdizionale. Per la maggioranza dottrina, si trattò di un necrologio: seppure spediti ed economici, i ricorsi amministrativi erano ormai inutili, eliminati – quale zavorra – dal percorso verso la vera, piena tutela fornita dal giudice amministrativo. Questa dottrina non considerava però la funzione giustiziale.

I ricorsi sopravvivono, quindi, e la loro disciplina è contenuta nel DPR 1199/1971, dedicato alla semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi.
Essi sono così nominati e distinti: ricorso gerarchico proprio, ricorso gerarchico improprio, ricorso in opposizione, ricorso straordinario al Capo dello Stato. Come anticipato, su quest’ultimo la discussione è accesa, e parte della dottrina ritiene che l’intervento legislativo operato dall’art. 69 della l. 69/2009 (confermato, secondo certa interpretazione, dall’art.112 del codice del processo amministrativo) l’abbia ormai collocato in ambito giurisdizionale, e quindi estraneo a questa trattazione, mentre altri – sulla scia della sentenza n. 73/2014 della Corte Costituzionale – ritengono invece che si tratti proprio di un rimedio giustizialev. Occorre guardare ai ricorsi ordinari, e provare a trarne qualche elemento di compatibilità (e quindi di salvezza) con la funzione giustiziale descritta sopra.

Il problema dei ricorsi amministrativi per come attualmente previsti sembra infatti risiedere nella loro competenza: essa è attribuita, solitamente (cioè per il ricorso principale, il modello, ovvero quello gerarchico c.d. “proprio”) alla stessa amministrazione che ha deciso, seppure in grado superiore. Un meccanismo tale da scoraggiare qualunque contestatore. Addirittura, nel caso del ricorso in opposizione, si rinvia alla stessa esatta amministrazione decidente. Insomma: un rimedio forse utile per correggere la propria attività, ma non certo per fornire tutela agli amministrati.

Proprio per questo, uno spunto interessante è dato invece dal ricorso gerarchico improprio. In realtà esso non è gerarchico: attribuisce infatti la competenza a decidere ad un’amministrazione appartenente ad un plesso diverso rispetto a quella che ha agito (riguarda ministri, enti pubblici, organi collegiali – indicati all’art.1 del DPR – : soggetti privi di rapporti di subordinazione, e quindi di un superiore gerarchico al quale ricorrere con un ricorso c.d. “proprio”): la caratteristica è proprio la mancanza della gerarchia. Esso è inoltre un rimedio eccezionale, che richiede l’espressa previsione di una norma particolare e speciale.
E qui si da’, appunto, – almeno in nuce – quell’elemento di indipendenza necessario per la funzione giustiziale, e che potrebbe garantire la sopravvivenza, l’utilità – a seguito di debita rivisitazione – dell’istituto del ricorso amministrativo. Vedremo cosa andrebbe modificato, a questo scopo. Sicuramente, dovrebbe riguardare solo i vizi di legittimità: vedevamo, infatti, che l’amministrazione giustiziale si distingue nettamente dall’amministrazione attiva, e quindi non avrebbe alcun senso una competenza circa il merito: essa risiede nell’amministrazione attiva, nel superiore gerarchico, per esempio, che è pur sempre la stessa amministrazione che ha agito, e che quindi può rivedere i provvedimenti.
Come detto, il ricorso gerarchico improprio è attualmente un rimedio speciale. Previsto dall’art. 1 co. 2 del DPR 1199/1971, esso è limitato ai soli casi di legge. Vediamone uno, di cui si è molto parlato.

5. Un caso di ricorso gerarchico improprio: l’istanza alla Commissione per l’accesso

L’art. 25 della legge 241/1990 ha infatti introdotto la possibilità di rivolgersi ad un organo pubblico distinto dall’amministrazione nei cui confronti si è esercitato del diritto di accesso e dalla quale si è visto opposto un diniego. La norma disciplina l’istanza alla Commissione nazionale per l’accesso.
Il procedimento si svolge nel seguente modo: in mancanza di una risposta della p.a. entro 30 giorni dalla richiesta di accesso, o in presenza di un rifiuto, il cittadino può ricorrere al difensore civico o alla Commissione per l’accesso, che si pronunciano sulla sussistenza del diritto entro ulteriori 30 giorni; scaduti questi, il ricorso al difensore o alla Commissione si intende respinto. Nel caso in cui l’organo, invece, si pronunci sull’illegittimità del diniego o del differimento, dovrà comunicarlo all’amministrazione resistente, che ha 30 giorni per confermare con motivazione il rifiuto iniziale; in mancanza di questo atto, l’accesso è consentito.

Un esperimento di portata significativa, senz’altro; ma ancora non si può parlare ancora di funzione giustiziale pura. Gli elementi problematici sono diversi: il silenzio rigetto Commissione o difensore (quando si dovrebbe invece prevedere un dovere di concludere con provvedimento espresso); oppure l’inquadramento (ex art. 27 l.241) nell’ambito della Presidenza del Consiglio e la nomina con decreto del Presidente del Consiglio; nonché la sua composizione, che prevede l’affidamento della presidenza della commissione al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, in contrasto con la richiesta indipendenza dell’organo. Inizialmente non era neppure previsto un contraddittorio con i contro-interessati. Infine, mancano poteri coercitivi: il procedimento si conclude con una comunicazione che può essere disattesa entro trenta giorni, con pronuncia motivata.
Insomma, un procedimento di stimolo, più che di contenzioso. La norma prevede che, al termine dei trenta giorni dalla comunicazione del diritto di accesso alla p.a., se questa non provvede in maniera motivata confermando il provvedimento originario, l’“accesso è consentito”. Ma il privato non ha alcun rimedio nel caso di ulteriore ostruzionismo da parte dell’amministrazionevi.

6. L’esempio inglese: gli administrative tribunals

A questo punto, risulta interessante constatare come, da un lato, il sistema di common law stia virando sempre più verso la giurisdizionalizzazione delle controversie con la p.a. (mentre un tempo si aborriva l’idea stessa di una giustizia amministrativa), e, dall’altro, i sistemi continentali siano alla ricerca di rimedi extraprocessuali, riconoscendo una soluzione intrigante nell’istituzione di commissioni neutrali e dedite alla risoluzione delle controversie, o più semplicemente in una sorta di contenzioso interno all’amministrazione.

In questo campo, l’esempio inglese è maestrovii. Gli administrative tribunals recentemente riformati in Regno Unito rappresentano appunto il soggetto terzo, facente parte dell’amministrazione e non della giurisdizione, in grado di valutare i ricorsi dei cittadini contro i provvedimenti. Un soggetto indipendente, distinto dall’amministrazione attiva, dotato di grande competenza nel rispettivo settore (in linea con le attuali tendenze all’appropriate dispute resolution) e in grado di fornire tutela per casi che non giustificherebbero il ricorso al giudice. Con l’importante conseguenza di ridurre drasticamente il contenzioso giudiziario, che in Inghilterra è decisamente inferiore rispetto al lavoro svolto dai tribunals.

7. Conclusione. Una rivisitazione radicale dei ricorsi amministrativi e le commissioni indipendenti

Insomma, uno scenario nuovo e positivo, in termini di deflazione e soprattutto di integrazione della tutela del cittadino, può aversi proprio da una riforma del sistema dei ricorsi amministrativi. In due modi: con una riforma complessiva di quanto già presente (i ricorsi di cui si è parlato), o con un disegno inedito per la pubblica amministrazione italiana, attraverso l’istituzione di soggetti che svolgano questa attività di amministrazione giustiziale.

Nel primo indirizzo, la proposta è presto fatta: 1) conferma del ricorso straordinario, correggendo le eventuali incoerenze; 2) soppressione del ricorso gerarchico proprio, di fatto inutile; 3) generalizzazione, con limitazione ai vizi di merito, del ricorso in opposizione (definibile “ricorso amministrativo di merito”), con lo scopo di perfezionare le decisioni dell’amministrazione attiva; 4) generalizzazione, con limite ai soli vizi di legittimità, del ricorso improprio (riclassificabile come “ricorso amministrativo di legittimità”).viii
Nel risolvere i problemi dei ricorsi, si dovrebbe intervenire sulla completezza del contraddittorio (pieno e soddisfacente, non limitato qual è quello procedimentale) e sulla terzietà del soggetto competente. Rimarrebbe la piena assoggettabilità dell’esito del ricorso al potere giurisdizionale.
Il legislatore dovrebbe fornire alla decisione una forza in grado di imporsi al comportamento elusivo o inerte dell’amministrazione attiva. Mentre la limitazione dei vizi di legittimità di cui si parlava sarebbe conseguenza naturale della netta separazione tra un organo neutrale deputato alla risoluzione delle controversie e gli altri apparati di amministrazione attiva.

La ripresa dei ricorsi amministrativi coinciderebbe con quanto promosso dalla Raccomandazione 9 (2001) del Comitato Ministri del Consiglio d’Europa sui rimedi alternativi di risoluzione delle controversie con la pubblica amministrazioneix. Questo atto di stimolo nei confronti degli ordinamenti europei riconosce agli internal reviews un ruolo decisivo di deflazione del carico dei tribunali e di ampliamento della tutela dei cittadini. Nel nostro caso, protagonista sarebbe il ricorso gerarchico improprio, per la sua idoneità sopra esposta.

Circa il secondo indirizzo di riforma, possiamo aderire a questa conclusione: “lo sviluppo di nuove ipotesi di ricorsi c.d. gerarchici impropri, al fine di rivitalizzare la funzione amministrativa giustiziale, appare certamente auspicabile. È tuttavia possibile pensare anche alla istituzione all’interno delle amministrazioni di apposite commissioni, dotate di sufficiente indipendenza, incaricate di decidere i ricorsi diretti contro gli atti amministrativi e più ampiamente le controversie fra amministrazioni e privati.”x
La strada del cambiamento può quindi passare, da un lato, per la riforma dei ricorsi amministrativi nel loro complesso, e, dall’altro, per la creazione di apposite commissioni (come nel caso del diritto di accesso), sull’esempio dell’efficace sistema inglese dei tribunals.

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