di Federico Spanicciati
26/10/15
In questi giorni, presso la competente commissione della Camera dei Deputati, è in lettura e approvazione il DDL di riforma della RAI, n. 1880/15, approvato in prima lettura dal Senato della Repubblica nello scorso luglio.
La parte più corposa della riforma, art. 2 previsioni di conferimento di delega di cui art. 4, si concentra su un nuovo modello di governance dell’emittente pubblico italiano. Nelle intenzioni dei riformatori gli obiettivi principali da raggiungere con questo intervento si possono sintetizzare in: maggiore indipendenza dell’azienda dalla politica, e dunque dall’azionista di maggioranza; maggiore governabilità interna per il vertice, che diviene un AD a tutti gli effetti; maggiore capacità di spesa dell’AD senza il controllo diretto del CDA, e dell’azienda rispetto al Codice dei contratti pubblici; maggiore capacità imprenditoriale e dunque maggiore competitività anche rispetto ai competitors internazionali.
Ad una analisi del testo approvato dal Senato, si può ragionevolmente suggerire come tali obiettivi non siano raggiungibili, se non parzialmente, dalla riforma in corso.
Il punto centrale di tutta la riforma è infatti il primo, cioè la garanzia di una indipendenza effettiva tra gestione imprenditoriale dell’azienda e direzione politica. Solo da questo punto possono discendere maggiore competitività, maggiore capacità di governo dell’AD per questioni che non siano di pura amministrazione ma di direzione industriale/commerciale e dunque miglioramento del servizio e delle performance.
La necessità di indipendenza tra politica, che di fatto detiene la RAI tramite il pacchetto azionario del MEF, e azienda, è affermata ormai da decenni dai molti osservatori che hanno trattato la questione, fino a considerarla quasi l’attributo che dovrebbe connotare il servizio pubblico. Valgono in tal senso già le lontane sentenze del 1974 della Corte Costituzionale, due risoluzioni del Parlamento europeo del 2008 e 2010, una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 2012 e molteplici prese di posizioni del Parlamento e della Commissione di Vigilanza apposita. Sappiamo che la riforma Gasparri e il testo unico del 2005 non risolvono la questione, ma anzi perpetrano il controllo della politica sulla gestione del servizio pubblico.
L’attuale riforma, all’articolo 2, cerca di superare l’empasse con una nuova modalità di elezione del CDA, del nuovo AD, e del Presidente. Il primo, diminuito a 7 membri da 9, si prevede venga composto da quattro soggetti diversi: due membri eletti dal Senato, due dalla Camera dei Deputati, 2 nominati dal CDM, e uno eletto dai lavoratori RAI. Si supera così la lottizzazione palese di una elezione affidata per intero alla Commissione di Vigilanza parlamentare, notoriamente formata sulla base del peso dei vari gruppi parlamentari, e dunque espressione proporzionale del peso dei partiti. Ma a ben vedere non basta questa nuova modalità di composizione del CDA per assicurarne una qualsiasi indipendenza dalla politica: 6 membri su 7 non sono infatti espressione della maggioranza di governo, che li nomina o elegge con le proprie esclusive forze?
Allora più che garantirne l’indipendenza se ne garantisce l’uniformità politica, passando da un sistema di elezione necessariamente proporzionale ai gruppi parlamentari, ad un sistema controllabile interamente dalla maggioranza parlamentare. Forse si supera una lottizzazione che rendeva la gestione interna macchinosa e conflittuale, ma di certo non si assicura indipendenza.
È anche vero che la riforma si preoccupa di prevedere la necessità di requisiti elevati di professionalità e onorabilità del singolo consigliere d’amministrazione, anche tramite la pubblicazione dei curricula in fase di scelta dei nuovi consiglieri. Ma anche in questo caso è difficile rilevare come questi possano essere politicamente indipendenti. Oltre a dover essere nominati da maggioranze politiche, mantengono una durata di mandato molto corta, appena 3 anni a fronte dei 5 delle corrispettive tv di Francia o Germania, 6 di Belgio e Austria e assenza di vincoli nel caso della BBC inglese. Inoltre i consiglieri d’amministrazione sono revocabili dall’assemblea degli azionisti, che di fatto è limitata al solo Ministero delle Finanze, come proprietario del 99.6% del capitale sociale. A ciò va aggiunto l’obbligo per il CDA di subire comunque i controlli della mantenuta in vita Commissione Parlamentare di vigilanza.
Perché non sono stati invece introdotti requisiti di indipendenza personale simili a quelli di altre autorità indipendenti? Tempi di mandato slegati dalle legislature, incompatibilità con cariche ricoperte o future, distacco totale dal controllo successivo parlamentare. Qui sembra si vogliano fondere due modelli, quello della normale SPA con quello di un ente pubblico, prendendone le facoltà di controllo di ambedue, come soggetto amministrativo e come azionista.
Non dissimili sono i vincoli gravanti sul nuovo AD e sul Presidente. Si effettua qui uno slegamento formale dell’elezione di queste due figure apicali dagli organi politici, tramite le previsione che ad eleggerli sia il CDA. Ma, tolto il fatto che il CDA resta comunque un organo a composizione politica, si deve notare che il Presidente deve poi essere confermato con il voto di 2/3 della Commissione di Vigilanza, mentre l’AD è proposto al CDA dall’assemblea degli azionisti, che ad oggi rimane monopolio del MEF. Forse si potrà avere una attenuazione di un simile regime in caso di vendita di quote azionarie a nuovi soggetti privati, ma ad oggi questa rimane solo una possibilità, peraltro già evasa in passato, seppur espressamente prevista come obbligo dalla legge Gasparri.
Discorso parzialmente diverso può essere fatto per gli altri obiettivi posti, che comunque subiscono il pesante vincolo della mancanza di indipendenza. Sicuramente un CDA formato da una maggioranza parlamentare avrà più uniformità e più chiarezza degli scopi perseguiti, con aumento di efficienza, a scapito però di una eventuale pluralità ed imparzialità politica. Alla stessa maniera il nuovo AD avrà poteri più estesi rispetto al vecchio DG, nonché una procedura di nomina che ne rafforza il ruolo. Ma realisticamente, aldilà degli aspetti positivi, ciò non potrà essere sufficiente a raggiungere quel livello di qualità e produttività tali da rendere la RAI competitiva con gli altri emittenti pubblici europei. Questo avverrà per almeno tre motivi palesi.
Il primo è che comunque una forma di lottizzazione sarà necessaria, sia per la nomina del presidente, sia all’interno della stessa maggioranza parlamentare, spesso eterogenea. Il secondo motivo è rappresentato dal controllo di gestione, rimesso sia al CDA, politico, sia alla Commissione di Vigilanza, che rimane un organo pesantemente politicizzato, dove l’efficienza economica e la qualità del servizio sono solo dei parametri di valutazione paritetici ad altri. Il terzo motivo è che fin quando ci sarà un azionista solo, e un sistema di entrate legato ad una imposizione para-fiscale fissata dalla legge, non ci sono reali stimoli a migliorare le performance del gruppo.
È invece centrato parzialmente l’obiettivo di rendere la gestione finanziaria interna più indipendente dal controllo politico del CDA, tramite la possibilità assegnata all’AD di spendere in autonomia cifre fino a 10 milioni di euro, dai 2.5 precedenti, e comunque di escludere dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici le spese di produzione, commercializzazione e acquisto di prodotti radiotelevisivi.
In definitiva la riforma in corso di approvazione lascia interdetti rispetto agli obiettivi dichiarati.
Forse, in aggiunta a questa impostazione ormai scelta, l’unica vera strada per raggiungere una maggiore efficienza di gestione e produzione di un servizio di qualità consiste nella separazione tra azionista principale e soggetto pubblico che effettua le nomine, anche in tema di risorse finanziarie. Certo è che ci si potrebbe domandare chi sia disposto ad investire in una società che poi non può controllare se non in maniera macchinosa e compromissoria, ma questo è un tema più ampio.
Parlando di concorrenza con gli altri paesi, e citando altre nazioni come esempi di servizi pubblici televisivi di alta qualità e competitivi in tema di produzioni verso il mercato internazionale, si arriva ad una domanda centrale: il livello raggiunto da queste aziende pubbliche estere, al quale noi vorremmo arrivare, è dovuto a motivazioni culturali, economiche, storiche, o deriva anche da un modello di governance funzionante?
Il modello francese assomiglia a quello italiano. A norma della legge 86/1067 del 1986 e modifiche successive, vi è una grande società di diritto privato, soggetta alle norme delle società anonime eccetto talune deroghe previste dalla legge, posseduta completamente da un azionista pubblico: è France Televisions. Questa ha un CDA formato da 14 membri e un Presidente: 2 sono parlamentari eletti dalle commissioni cultura dei due rami legislativi, 5 sono rappresentanti dell’azionista statale, 5 sono nominati dall’autorità indipendente preordinata alla vigilanza del sistema radiotelevisivo, e 2 sono rappresentanti del personale. Il presidente è nominato con decreto del Consiglio dei Ministri francese, con parere positivo dell’autorità indipendente di cui sopra, il Conseil Supérieur de l’Audiovisuel, e delle due commissioni cultura del parlamento. France Televisions funziona di fatto come una holding, che detiene a sua volta le società che gestiscono le singole emittenti. I CDA di tali società sono composti da 7 membri, di cui 2 di nomina parlamentare, 2 di nomina statale, un membro del CDA di France Televisions e 2 delegati dei lavoratori. Il presidente è lo stesso della holding per tutte le società. I direttori generali di ogni singola emittente sono nominati dal CDA della Holding, su proposta del presidente.
Se non bastassero i criteri di nomina dei vertici per sottolineare come anche la tv pubblica francese sia pesantemente controllata dal sistema politico, si considerino altri particolari, previsti sempre dalla stessa legge che regola il settore.
Il governo francese ha il potere di approvarne gli statuti costitutivi e approva periodicamente, con decreto, dei Cahier des charges, che fissano le obbligazioni di qualità e produzione gravanti sul gruppo, i criteri di responsabilità interna e i parametri a tutela del pluralismo. Il parlamento del resto approva il bilancio delle società, e decide dove e come destinare i proventi del canone vigente in Francia, tra i vari attori del servizio radiotelevisivo francese.
Diverso il caso tedesco. I due consorzi televisivi che compongono il complesso della tv pubblica tedesca, ARD e ZDF, godono di ampie forme di autonomia e separazione dal potere politico. La legislazione è perlopiù rimessa ai singoli lander di appartenenza, ma ci sono degli accordi stato centrale e land, i Staatsverträge, che uniformano buona parte della disciplina. Ogni emittente che costituisce i due consorzi ha tre organi di direzione: un Direttore Generale, un Consiglio per l’emittenza audiovisiva e un CDA.
Il Consiglio Audiovisivo è formato da un numero di membri oscillante, che rappresentano i tanti gruppi di interesse presenti sul territorio in base al loro peso: ad esempio vi sono rappresentanti dei governi locali, delle chiese, delle università, dei lavoratori etc. questo garantisce che l’emittente rispetti la legge e gli obiettivi posti da ogni land, inoltre elegge il direttore generale.
Il Direttore Generale, in carica solitamente per 4 anni, amministra e rappresenta l’emittente. Il Consiglio audiovisivo elegge anche il CDA, che però ha di norma poteri molto limitati e perlopiù ancillari alla funzione del DG.
Questo è finalmente un modello diverso dalle molte ipotesi tentate in Italia, ove il potere politico trova solo un accesso in un Consiglio di base, unitamente a molti altri gruppi di potere. Probabilmente in un sistema simile si potrebbe comunque assistere ad una lottizzazione di tipo politico, ma questa sarebbe resa molto più difficile da una necessaria mediazione direttamente con la società civile.
Il modello inglese è invece spesso ritenuto uno dei modelli che più garantiscono l’indipendenza di gestione e l’elevata qualità del prodotto, seppure non è facile capire come queste due cose siano legate.
La BBC è governata da due fonti normative: una Royal Charter e un contratto di servizio. La prima è un atto regio rinnovato con cadenza decennale tramite una procedura che, seppur non disciplinata rigidamente, è ormai per prassi da considerarsi basata su una necessità di dibattito pubblico, col sistema delle public consultation. Va detto che la natura regale dell’atto esclude interventi del governo e del parlamento. Il contratto è invece un semplice accordo tra emittente e ministero competente, che deve ottenere la doppia approvazione parlamentare, e serve a definire, insieme alla Carta, le finalità istituzionali, i parametri di indipendenza editoriale, le fonti di finanziamento e i compiti di servizio pubblico.
Al vertice della BBC è posto un trust, seppure tale termine è da interpretare il senso a-tecnico, formato da un Presidente, un Vicepresidente e 10 membri ordinari, di cui 4 a rappresentanza delle regioni che compongono il Regno Unito. I trustee, che durano in carica 5 anni, sono nominati con decreto regio su proposta governativa. Il trust ha tra i compiti principali la definizione delle priorità strategiche e la vigilanza sul perseguimento delle finalità di pubblico interesse e sul mantenimento dell’indipendenza.
Accanto ad esso c’è un Executive Board, preposto alla gestione e alle attività operative della società in conformità agli indirizzi del trust, che vigila su di esso e ne nomina il presidente. Il board è formato da membri con poteri esecutivi e membri privi di tali poteri, il cui numero è deciso dal board stesso con approvazione del trust. Le funzioni del board sono tipicamente operative, ed esercitate al di sotto della sorveglianza e dell’indirizzo generale dato dal trust.
La BBC subisce altresì i controlli della OFCOM, l’autorità indipendente di controllo delle comunicazioni che ne garantisce imparzialità e rispetto delle norme, quelli del Parlamento, che ne ispeziona il bilancio annuale, e soprattutto quelli del Ministro competente, che oltre ad approvarne il bilancio ne definisce il finanziamento e la ripartizione dello stesso.
In definitiva, anche in questo caso il potere dell’esecutivo sull’emittente nazionale è pervasivo, seppur in parte rimesso al Monarca. Il Governo infatti nomina il trust, definisce il contratto di servizio, approva il bilancio, e tramite il trust controlla il board. È dunque curioso rilevare come la BBC sia considerata una delle migliori emittenti pubbliche al mondo, per servizi e qualità, e che spesso la governance sia considerata uno dei motivi di tale successo, anche se poi, ad analizzarla, si dimostra non molto più indipendente di altre, e sicuramente meno di quella tedesca.
In definitiva, quello che si ritiene di poter dire, è che a fare la differenza non è tanto il tipo di governance, a tratti simili anche per livelli qualitativi molto lontani, quanto probabilmente l’ambiente socioculturale nazionale, e i fini che si pone il governo nella gestione dell’emittente.
Sicuramente, in Italia, si può salutare come un bene il passaggio da un governo dell’emittente rimesso al controllo proporzionale dei gruppi parlamentari, ad un sistema più marcatamente diretto dall’esecutivo, esperienza peraltro comune in quasi tutti i modelli europei. Ma che questo, da solo, possa portare a maggiore indipendenza, o così ad un niveau qualitativo superiore, è sinceramente una conseguenza che appare priva di base logica.
Probabilmente sarà dunque necessario, se si vorrà procedere in tale direzione, discutere anche di una dismissione di parte del capitale sociale, meglio ancora se con una frammentazione tra attori sociali diversi, e una revisione complessiva anche dei metodi di finanziamento e della stessa struttura delle reti, sia per dimensione che per servizio che si vuole offrire.