22/07/2024
A cura di Marta Nigrelli
Il Consiglio di Stato, con la sentenza 20 giugno 2024, n. 5514, si è espresso sul risarcimento dei danni per violazione dei principi di buona fede e correttezza da parte di una amministrazione.
Correttezza e buona fede sono principi espressamente inseriti all’interno del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 36/2023), ma che discendono direttamente dalla Costituzione (art. 2) e dal Codice civile (artt. 1173, 1176 e 1337) e che devono guidare sempre l’amministrazione pubblica nella stipulazione degli accordi con i privati.
Con questa pronuncia viene condannata al risarcimento dei danni l’amministrazione comunale che, avendo stipulato un accordo con il privato, imponendo obblighi ben precisi (anche di natura economica), abbia ingenerato un legittimo affidamento in ordine alla possibilità di realizzare un impianto di trattamento dei rifiuti che, tuttavia, la successiva (e prevedibile) attività di pianificazione urbanistica territoriale, ancorchè legittima, ha reso irrealizzabile.
L’amministrazione, dunque, viene condannata al risarcimento dei danni per violazione dei principi di buona fede e correttezza, nei limiti dell’interesse negativo commisurato alle spese sostenute.
Nel caso in esame, a fronte di un accordo intervenuto tra un comune e una società per la realizzazione di un impianto di trattamento dei rifiuti all’interno di un complesso immobiliare ex industriale, era stata successivamente approvata, ad opera della unione di comuni, una variante normativa da recepirsi all’interno dei singoli strumenti urbanistici degli enti locali interessati che, con riferimento alle aree a destinazione industriale, vietava la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero di rifiuti in prossimità di siti Unesco e di altri elementi naturali di pregio, con ciò precludendo la realizzazione del progetto imprenditoriale.
L’amministrazione aveva stipulato un accordo che prevedeva la bonifica dall’amianto di un’area e che avrebbe consentito alla società di individuare nel sito un’area per la installazione di un impianto per il recupero dei fanghi prodotti dai processi di depurazione delle acque reflue.
Conformemente agli impegni assunti, la società appellante, dopo aver acquisito l’area, versava al Comune le somme concordate e si impegnava a bonificare l’area e l’amministrazione comunale rinnovava la sua non contrarietà ad ospitare nel proprio territorio l’impianto di trattamento dei rifiuti.
L’accordo tra il Comune e la società veniva impugnato dinanzi al TAR da alcuni Comuni vicini e da alcuni cittadini contrari alla realizzazione dell’impianto industriale.
Con una successiva deliberazione dell’Unione di Comuni, cui faceva parte anche il Comune che aveva stipulato l’accordo, veniva adottata una variante urbanistica di tipo normativo.
La variante urbanistica veniva definitivamente approvata dall’Unione dei Comuni, con il conseguente divieto assoluto di realizzazione di nuovi impianti di trattamento e di recupero dei rifiuti sull’intero territorio del Comune.
Il Consiglio di Stato conferma la variante urbanistica normativa, che concerne tutti i Comuni facenti parte dell’Unione e che prevede l’inserimento nelle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale dell’art. 39-bis, a norma del quale nelle aree destinate ad insediamenti industriali, commerciali, artigianali e terziari non sono consentiti nuovi insediamenti o interventi di trasformazione di aree o edifici esistenti che comportino attività insalubri o nocive, inquinanti o moleste.
È la stessa società appellante a riconoscere la legittimazione dell’Unione dei Comuni ad adottare la variante alla strumentazione urbanistica, in quanto Amministrazione legittimamente delegata all’esercizio in forma associata delle funzioni di pianificazione urbanistica di competenza comunale.
L’accordo sottoscritto tra il Comune e la società appellante non compromette la legittimità degli atti impugnati di modifica della disciplina urbanistica delle aree industriali del territorio comunale, che sono espressione delle legittime prerogative istituzionali del Comune: tuttavia, esso assume rilevanza sotto il profilo risarcitorio.
Il Consiglio di Stato ravvisa, infatti, una responsabilità civile per lesione dei principi di buona fede e affidamento, anche in relazione ai doveri di informazione, che devono essere rispettati anche nell’ambito di un rapporto pubblicistico.
L’accordo stipulato con il privato prevedeva degli specifici obblighi sia a carico del Comune che a carico della parte privata: conformemente agli impegni assunti, la società appellante, dopo aver acquisito l’area, ha versato al Comune le somme concordate ed è intervenuta con atti di bonifica dell’area, in previsione della realizzazione dell’impianto di smaltimento dei rifiuti nell’ambito del complesso immobiliare denominato “ex Fornace”.
La successiva modifica delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale del Comune ha di fatto vanificato gli impegni pattiziamente assunti dal Comune stesso, precludendo alla società appellante la possibilità di realizzare l’impianto di trattamento dei rifiuti.
I giudici di secondo grado hanno ricordato i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, che sono espressione del dovere costituzionale di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.
Nel caso di specie, la variante urbanistica approvata dall’Unione dei Comuni discende da una deliberazione regionale precedente all’accordo, mediante la quale era stato avviato un percorso per il riconoscimento della zona quale sito Unesco, con la conseguenza che il Comune non avrebbe dovuto ingenerare nella società un legittimo affidamento nella possibilità di realizzare l’impianto di trattamento dei rifiuti che poi sarebbe divenuto prevedibilmente irrealizzabile.
Il Consiglio di Stato, quindi, ha condannato il Comune al pagamento in favore della società appellante delle spese effettivamente sostenute prima dell’adozione della variante urbanistica: in particolare, per i compensi professionali corrisposti dalla società ai legali del Comune e somme versate a vario titolo al Comune in esecuzione dell’accordo (non recuperate dalla società o non recuperabili); per le spese sostenute dalla società per la rimozione dell’amianto e la bonifica dell’area oggetto dell’accordo; per le spese sostenute per la presentazione di istanze amministrative e/o per la redazione di elaborati tecnici, finalizzati alla realizzazione dell’impianto di smaltimento dei rifiuti. Non sono ristorabili le spese relative alla acquisizione dell’area (che comunque costituisce un incremento del patrimonio aziendale della società) e le spese alle quali non sia allegata la relativa documentazione giustificativa anche di natura contabile e fiscale, nonché le spese che non siano espressamente previste nell’accordo o che non siano conseguenza immediata e diretta dell’accordo o che siano state effettuate dopo la deliberazione di adozione della variante urbanistica.