Emanuel Silvestri
26/03/2021
Tra i temi più dibattuti a livello di dottrina e giurisprudenza che l’emergenza Covid19 ha portato alla luce c’è sicuramente quello relativo alle limitazioni che atti di natura amministrativa hanno recato a diritti fondamentali, costituzionalmente protetti, come la libertà personale e la libertà di circolazione.
In questo ambito si colloca una recente sentenza del 15 marzo 2021, n.54/2021 del Tribunale di Reggio Emilia, che ha fatto molto discutere per le conseguenze in tema di rapporti tra diritto amministrativo e diritto penale nel contesto della situazione emergenziale generata dal diffondersi dell’epidemia di coronavirus.
Il fatto ha riguardato la richiesta del Pubblico Ministero della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia, al Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.), di un decreto penale di condanna, ai sensi degli art. 459 e ss. C.p.p., nei confronti di due soggetti per il reato di falso ideologico ex art.483 c.p., avendo gli stessi attestato falsamente nell’autocertificazione presentata ai Carabinieri in sede di controllo, di trovarsi fuori dalla propria abitazione, in contrasto con quanto stabilito dal D.P.C.M. 8 marzo 2020, per recarsi presso il locale Ospedale ad eseguire accertamenti clinici. Da una successiva attività di verifica delle forze dell’ordine, emergeva come non vi fosse stato alcun accesso dei pazienti nella data indicata, per cui il verbale con la notizia di reato veniva trasmesso alla competente Procura per l’ulteriore corso del procedimento culminato con la richiesta del P.M. procedente di condanna a mezzo di decreto penale.
Il GIP, tuttavia, ha respinto la richiesta dell’accusa pronunciando sentenza di proscioglimento ex art.129, attestando che la violazione contestata trova quale presupposto l’obbligo di compilare l’autocertificazione imposto in via generale con atto del Presidente del Consiglio dei Ministri, e che, in via assorbente, tale atto debba ritenersi “illegittimo”, nella parte in cui prescrive che “allo scopo di contenere il contagio da coronavirus, le misure del Dpcm 8 marzo (obbligo di autocertificare i movimenti) sono estese a tutto il territorio nazionale” così come con le misure specifiche riguardanti la Regione Lombardia e tutta un’altra serie di Province, specificatamente indicate, finalizzate in particolare (Art.1) ad “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità, ovvero spostamenti per motivi di salute”. Secondo il giudice, un divieto generale e assoluto di spostamento, seppur con importanti eccezioni, configurerebbe un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare al pari della sanzione restrittiva della libertà personale per alcuni gravi o particolari reati in fase cautelare, giudiziale o esecutiva, irrogata dal giudice penale in base a rigidi presupposti di legge coperti da riserva. Nella sentenza si evidenzia come situazioni meno coercitive dell’obbligo di permanenza domiciliare come la disciplina del Testo Unico sull’immigrazione in tema di accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera oppure di trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.), siano da considerarsi protette dal medesimo approccio garantista affidate al controllo di un giudice sulla sussistenza dei relativi presupposti di legge. Il richiamo nella sentenza analizzata all’articolo 13 della Costituzione in merito alle misure restrittive personali da adottare “solo per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”, impedirebbe ad una fonte meramente regolamentare di rango secondario come il DPCM di imporre simili limitazioni. Per di più, il giudice sottolinea come neanche un atto primario come la legge o l’atto avente forza di legge possa prevedere in via generale e astratta l’obbligo di permanenza domiciliare disposto su una pluralità indistinta di cittadini, stante la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, disciplinata dall’art.13, rendendo sempre necessario un provvedimento individuale diretto nei confronti di uno specifico soggetto. Va peraltro esclusa qualsiasi possibilità di rimessione della questione alla Corte costituzionale, essendo il Dpcm un atto di natura amministrativa e pertanto non soggetto alla questione di legittimità costituzionale.
Da meno, non può spostarsi il problema per rendere il Dpcm conforme a Costituzione facendo riferimento alle limitazioni della libertà di circolazione ex art.16 piuttosto che alla libertà personale ex art.13. Si rammenta infatti come la stessa Corte costituzionale (sent.n.68/64) abbia circoscritto la libertà di circolazione “all’accesso a determinati luoghi perché ad esempio, pericolosi o infetti” mentre un obbligo generalizzato di permanenza domiciliare come in questo caso riguardi le persone e non specifichi luoghi, tale da palesarsi come una vera e propria limitazione della libertà personale “in forma assolutizzante” impedendo di fatto al cittadino di recarsi in luoghi diversi dalla propria abitazione.
Infine, la fattispecie criminosa per cui sono stati imputati i soggetti, falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico ex art.483 c.p., evidenzia come gli stessi siano stati “costretti” al reato, cioè sottoscrivere un’autocertificazione mendace, sulla base di un atto presupposto da considerarsi illegittimo. Da ciò deriverebbe la non punibilità della contestata condotta di falso per esclusione di antigiuridicità in concreto determinandosi il c.d. “falso inutile” configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere. Visto il contrasto con l’articolo 13 Cost., il giudice ordinario ha il dovere di disapplicare tale provvedimento amministrativo ai sensi dell’art.5 della Legge n.2248 del 1865, All. E, portando a ritenere che il conseguente falso ideologico ravvisato nell’autocertificazione sia pertanto da considerarsi innocuo o inutile in modo che la richiesta di decreto penale di condanna non possa trovare accoglimento perché il fatto non costituisce reato.
Sebbene è vero come al giudice ordinario sia riconosciuto un potere generale di disapplicazione di fronte ad un atto amministrativo reputato illegittimo, non può non evidenziarsi come il GIP di Reggio Emilia abbia agito come un vero e proprio giudice amministrativo nel sindacato dell’atto presupposto, anche oltre il necessario per la risoluzione della controversia in esame. Per dovere di completezza, va ricordato come diversi altri giudici, chiamati ad affrontare le medesime questioni, siano addivenuti a considerazioni diametralmente opposte circa la legittimità dei Dpcm per imporre limitazioni alla libertà personali. Certamente, non può essere sottaciuto un problema che nella prima fase dell’emergenza ha spinto il legislatore a stigmatizzare per il tramite del ricorso esclusivo alla sanzione penale qualsiasi violazione che potesse pregiudicare il contenimento del virus, creando non pochi circa la legittimità dell’atto presupposto per farlo.
Quanto detto è stato peraltro confermato dal “cambio di rotta” adottato dal decisore politico con il Decreto-legge 25 marzo 2020, n.19 che, se da una parte inasprisce il quadro punitivo introducendo la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 per il mancato rispetto delle norme previste con Dpcm, dall’altro circoscrive il ricorso al diritto penale ai soli casi più gravi, salvo che il fatto costituisca reato. In tal modo, si è voluto evitare che il diritto penale divenisse lo strumento principale ed esclusivo in grado di perseguire violazioni imposte con atto amministrativo generando non solo un problema di materiale sostenibilità del sistema penalistico ma anche di stretta legalità costituzionale.