di Marianna Moscarelli
07/07/16
1. Il modello societario e la sua neutralità
Con il passaggio da uno Stato imprenditore a uno Stato regolatore, gli enti chiamati ad erogare determinati pubblici servizi devono rispettare le regole del libero mercato. Quest’ultimo viene considerato lo strumento più efficace per il soddisfacimento degli interessi pubblici.
Negli ultimi anni il legislatore ha sempre più frequentemente fatto ricorso al modello della società per azioni per soddisfare gli interessi pubblici, dettando una disciplina singolare o speciale rispetto a quella generale contenuta del codice civile. Si sono così diffusi soggetti che, al di là della loro veste formale, hanno manifestato numerosi aspetti di assoluta originalità a causa delle specifiche finalità da seguire e della disciplina loro applicabile. Infatti la pubblica amministrazione con il tempo si era impegnata nella diffusione di una molteplicità di forme organizzative, usufruendo sempre più spesso di modelli di derivazione privatistica.
Il fenomeno delle società pubbliche – la dottrina in questi casi parla di società legali poiché vengono costituite tramite fonte normativa primaria in luogo dell’atto di autonomia privata – ha preso il sopravvento durante gli anni Novanta con i vari processi di privatizzazione che hanno trasformato gli enti pubblici in società per azioni in cui lo Stato (o gli enti pubblici) possiedono delle partecipazioni ma, a causa della frammentarietà e contraddittorietà dei vari processi di privatizzazione è stato difficile ricollegare questo fenomeno con il diritto societario.
A causa di questo “disordine” lo stesso termine di “società a partecipazione pubblica o società pubblica” è di incerta definizione: vengono ricondotte sotto questo concetto sia quelle società previste direttamente da discipline speciali, caratterizzate da deroghe rispetto al regime societario, sia quelle società i cui tratti si risolvevano nella presenza dell’azionista pubblico con il generale rinvio alla disciplina contenuta nel codice civile.
L’affermarsi delle società pubbliche ha portato con sé la diatriba circa la definizione, la natura e il regime applicabile a questi nuovi tipi di società che formalmente sono società di diritto civile, ma agiscono sotto un regime derogatorio e speciale rispetto a quello del codice.
Questi temi si collegano direttamente con quello della compenetrazione tra diritto civile e diritto amministrativo e quindi sulla possibilità di far convivere nella società pubblica l’attività d’impresa e l’attività pubblica. Stabilire infatti la natura della società a partecipazione pubblica è fondamentale per capire se questa è soggetta alle disposizioni fallimentari o per comprendere la normativa applicabile agli atti di nomina e revoca degli amministratori. La peculiarità degli enti a cui viene attribuita la personalità giuridica pubblica, oltre che nell’attrazione dei controlli pubblici, è nel semplice fatto di essere titolari potenziali di potestà pubblica (l’attribuzione sia della personalità che dell’interesse da curare viene fatta solo dalla legge).
Ed è proprio ai fini della applicabilità delle procedure concorsuali a queste società legali, che analizzerò brevemente le varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali sulla natura delle partecipate alla luce del decreto attuativo della riforma Madia ( legge 124/2015) che, tra le varie previsioni, introduce l’astratta possibilità di fallimento.
2. La trasversalità della disciplina. Dottrina e Giurisprudenza
Per quanto riguarda la legislazione in tema di società pubbliche bisogna far riferimento oltre al codice civile anche alle varie leggi speciali che disciplinano le varie società senza dimenticare la riforma societaria del 2013.
Il codice civile, da cui si evince una comunicabilità tra strumento societario e pubblica autorità, all’art. 2449 evidenzia come lo Stato può riservare la nomina di alcuni amministratori e sindaci all’ente pubblico socio.
Sancisce poi all’art. 2451 la possibilità di applicare le norme del capo VI, ovvero quelle societarie, anche a quelle società per azioni di interesse nazionale, solo se compatibili con le disposizioni delle leggi speciali che disciplinano per tali società «la gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli amministratori, dei dirigenti».
Entrambi gli articoli sono stati modificati dalla riforma societaria in base alla quale si è previsto la chiusura ex lege del capitale sociale ai privati, la definizione dell’interesse pubblico come unico oggetto sociale e l’attribuzione di rilevanti poteri di definizione delle politiche societarie allo Stato azionista che comporta una diminuzione di autonomia dell’organo amministrativo. Inoltre la disposizione di chiusura, inserita alla fine dell’art. 1449, che poneva l’accento sulla preminenza in ogni caso delle leggi speciali è stata ritenuta dalla maggior parte della dottrina come superflua, dal momento che stabiliva nuovamente un rapporto di specialità.
Viste le caotiche previsioni normative, dottrina e giurisprudenza, tramite posizioni alterne, hanno cercato di risolvere il problema della natura giuridica di tali società in modo da applicare disposizioni privatistiche o pubblicistiche.
Le questioni sulle “società legificate” ruotano principalmente attorno a due elementi diversi, ma collegati tra loro: il primo riguarda la compatibilità dello scopo di lucro con le società a partecipazione pubblica, il secondo fa riferimento alla natura del soggetto e di conseguenza quale regime si applica a questi tipi di società.
Per quanto riguarda la compatibilità dello scopo di lucro con il modello delle società partecipate, dottrina e giurisprudenza si sono divise. La teoria dei fautori della compatibilità la considerava possibile usufruendo del principio della neutralità delle forme giuridiche – in questo caso del modello societario – in quanto la necessità di soddisfare gli interessi pubblici ha determinato il superamento dello scopo lucrativo. Il modello delle società commerciali è diventato quindi uno strumento neutro utilizzabile per finalità diverse.
In questo filone si inserisce la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui l’interesse pubblico perseguito dalle società pubbliche sarebbe compatibile con lo scopo lucrativo, dovendosi ritenere che l’interesse sociale non abbia una connotazione unitaria e omogenea dal momento che ci si trova da una parte, di fronte agli interessi che fanno capo ai soci e dall’altra a interessi diversi riferibili a soggetti terzi. Sostanzialmente «l’interesse pubblico non ha la forza di alterare il tipo societario e quindi si ha semplicemente la configurazione di una società diversa da quella contemplata dal codice civile» .
Sull’opposto versante si trovano coloro che non reputano compatibile il modello societario con la gestione di interessi pubblici. I fautori di questa tesi si basano sul fatto che la scelta da parte della pubblica amministrazione di avvalersi della società commerciale comporta automaticamente quello di sottoporsi al regime societario privatistico, comprendendo la necessità di perseguire un fine lucrativo.
Secondo questa concezione, la società di capitali privatistica non può essere considerata neutra nemmeno rispetto ai fini perseguiti da coloro che la costituiscono, poiché caratterizzata dal fatto che il fine deve essere quello dell’acquisizione e ripartizione degli utili tra i soci (lo scopo di lucro).
Tenuto conto delle diverse posizioni, si può affermare che l’attività pubblica esercitata da queste società non è totalmente contrapposta all’elemento imprescindibile dello scopo di lucro, questo finché l’azionista pubblico non la utilizzi solamente per fini pubblici. In tal caso si avrebbe infatti una società ‘anomala’.
Per quanto riguarda il secondo problema esistono numerose posizioni: da Carlo Ibba, che sosteneva una natura in ogni caso privata di tali società, a Maria Renna, secondo la quale se una società nasceva ex lege la disciplina da applicarsi doveva essere eminentemente pubblicistica.
Sostanzialmente esse si basano su due grandi differenze: coloro che guardano alla forma e quelli invece che prendono in considerazione l’attività effettivamente esercitata dalla società. Questo porta ad un risultato abbastanza frastagliato perché il problema viene risolto caso per caso, e la decisione nel caso concreto spetta all’interprete.
A tal proposito è fondamentale richiamare la sentenza 26283/2013 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite in cui è stato affrontato il tema della giurisdizione del giudice ordinario o contabile in caso di responsabilità, per mala gestio (con conseguenza di un danno erariale nei confronti della società), di quei soggetti titolari di funzioni amministrative o di controllo all’interno di società di capitali costituite e partecipate da enti pubblici. Il caso di specie, in particolare, è segnato da una peculiarità: la società partecipata danneggiata è una società in house (considerate longa manus dell’amministrazione), ma il principio che si ricava è applicabile a tutte le società partecipate.
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sul ricorso per cassazione della sentenza di secondo grado.
La decisione si basa sull’applicazione del principio di neutralità della forma giuridica, ampiamente sostenuta, come si è visto, in dottrina e in giurisprudenza. Da un lato esso afferma l’indifferenza della proprietà (pubblica o privata) di un ente, ai fini dell’individuazione della disciplina che gli si applica. Dall’altro esso comporta l’irrilevanza della forma giuridica, pubblicistica o privatistica di un ente, in quanto ciò che conta è il regime giuridico che ad esso si applica, nei diversi campi in cui può operare.
Le Sezioni Unite applicano il principio di neutralità delle forme, affermando l’irrilevanza della natura privatistica della società a partecipazione pubblica e la rilevanza, al contrario, del regime giuridico al quale essa è in concreto assoggettata.
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L’applicabilità delle procedure concorsuali
Visto brevemente il panorama giurisprudenziale e dottrinale, si può evincere come le procedure concorsuali, previste nella normativa privatistica, non siano automaticamente applicabili alle partecipate.
L’unica procedura prevista, sia nel codice civile che in alcune leggi speciali, è quella della liquidazione coatta amministrativa a cui sono assoggettate determinate categorie di imprese. In particolare è prevista per le imprese bancarie (quelle di assicurazione nonché le SGR) le società di gestione del risparmio.
Le leggi speciali, oltre a prevedere questa procedura, determinano anche i casi in cui la stessa può essere disposta. Infatti la liquidazione viene disposta non solo in caso di insolvenza della società, ma anche quando siano violate delle norme di legge o regolamentari e quando vi sono gravi irregolarità di gestione.
Oltre ai casi previsti dalla legge esistono società partecipate prive di una previsione speciale in materia. Per questo società si è difficilmente determinata l’assoggettabilità alle procedure concorsuali in quanto, rispetto all’interesse creditorio, ne emerge uno costituzionalmente più importante: la pubblicità del servizio svolto dalla società che assicura la continuità dell’attività pubblica.
Un caso recente in tema di fallimento è quello della Risco Pescara, in cui la Corte d’Appello dell’Aquila ha revocato il fallimento dell’ex concessionario della riscossione tributi di Pianella, la società in house Risco Pescara di proprietà dei Comuni di Pianella, Loreto, Nocciano e Catignano.
Il fallimento era stato dichiarato dal tribunale dopo che i Comuni avevano messo in liquidazione la società per inadempienze riscontrate dall’amministrazione di Pianella nel servizio tributi. In particolare, a far optare la giunta del sindaco Sandro Marinelli per la procedura fallimentare, era stato un buco di 430mila euro, un saldo negativo tra le attività di riscossione e recupero tributi effettuate dalla Risco e i soldi versati nelle casse municipali. Il fallimento non è stato ammesso perché le imprese in house pur essendo istituite sotto forma di impresa di diritto privatistico sono assimilate alla pubblica amministrazione e di conseguenza non soggette alla legge fallimentare.
Data l’esistenza del fenomeno delle partecipate utilizzate ampiamente per motivi di economicità ed efficienza, risulta necessario creare una disciplina comune per evitare che società esercenti servizi pubblici sfuggano a disposizioni volte alla tutela dei creditori e dei dipendenti stessi di tali società.
Nascondersi dietro l’attività di pubblico servizio, se da una parte garantisce la continuità del servizio, dall’altra asseconda comportamenti irregolari che devono essere in qualche modo fermati per la garanzia del servizio e degli investitori. Mi auguro che tra i vari obiettivi della riforma Madia si dia spazio alla realizzazione di una disciplina fallimentare omogenea così come previsto dalla legge delega.