Il livello di collaborazione tra pubblico e privato nel settore urbanistico ha raggiunto livelli di complessità degli strumenti e di molteplicità degli attori, decisamente inediti. Una delle casistiche più attuali ed interessanti, riguarda i fenomeni di dismissione del patrimonio statale, in particolare della difesa. Il patrimonio pubblico immobiliare sito in Italia ammonta infatti ad un valore stimato di circa 340 miliardi di euro, tra amministrazioni centrali e locali. Questo patrimonio copre dunque, astrattamente, il 15% del debito nazionale, e soprattutto lo fa con un totale di cespiti che in molti casi non hanno più alcuna funzione o utilità pubblica, e come tali possono essere dismessi senza lesioni degli interessi pubblici ai quali tali immobili erano originalmente destinati. Tra questi beni prendono una identità specifica, anche dal punto di vista di conformazione urbanistica, i beni nati per uso militare, in capo al ministero della difesa. Non ci occupiamo per il momento dell’analisi delle procedure amministrative di cessione del singolo immobile, ci concentreremo bensì sugli aspetti urbanistici conseguenti alla dismissione stessa. L’insieme delle caserme e degli edifici ad uso militare, formatisi nel corso di decenni di sviluppo edilizio, rappresenta un patrimonio immobiliare non solo di grande dimensione, oltre 30.000 tra immobili e terreni censiti nel 2007, ma di eccezionale valore economico, essendo rappresentato da edifici di elevato valore storico, e talvolta architettonico, e perlopiù posizionati in aree ormai divenute centrali in molte città. Lo Stato centrale ha cominciato a metà degli anni 2000 a ponderare una dismissione quantitativamente rilevante di questo patrimonio, tramite politiche che ne potessero sfruttare al meglio il valore edilizio-urbanistico, e dunque economico. È il processo che porterà anche all’approvazione delle leggi sul federalismo demaniale, d.lgs. n. 85/2010, accessorio al fenomeno del federalismo fiscale, previsto dalla legge 42/2009, poi perfezionato, per ciò che ci interessa, dall’articolo 56-bis d.l. n. 69/2013, che ha introdotto procedure semplificate per il trasferimento agli enti territoriali di immobili. Dobbiamo innanzitutto notare che, come ormai spesso accade, le previsioni ad impatto urbanistico riguardanti tali dismissioni sono contenute comunque in normali leggi finanziarie, di fatto affermando la subalternità della pianificazione territoriale alle necessità economiche. Le prime forme di valorizzazione passavano direttamente dalla cessione delle aree, sia tramite la creazione di società di gestione di fondi, costituiti proprio con tali beni immobiliari, sia utilizzando la procedura di cartolarizzazione dei beni. La legge finanziaria 2007, l. 296/06, istituisce la concessione di valorizzazione di lungo periodo, che prevede la possibilità di mantenere la proprietà pubblica tramite una concessione lunga fino a cinquanta anni, ad enti pubblici e privati, che riutilizzano l’immobile per fini sociali ed economici. Nella stessa legge però, terminato il censimento di tutto il patrimonio in capo al Ministero della Difesa, si stabilisce anche una quantità precisa di beni da trasferire ad altri usi, quantificabile in circa mille tra immobili e terreni, per oltre 4 miliardi di euro di valore stimato, che passano così alla gestione dell’Agenzia del Demanio, e si fissano quattro tranche di cessione di detti beni ai futuri concessionari. L’Agenzia del Demanio, al quale è affidata la gestione dei beni in vista della cessione, promuove per questo fine la conclusione di accordi di programma e protocolli di intesa, con comuni, province e regioni, anche col concorso di privati, nell’ambito dei piani di sviluppo integrati di riqualificazione urbana e territoriale. La legge 133/2008 introduce una ulteriore novità, attribuendo al Ministero della Difesa la possibilità di procedere direttamente alla vendita degli immobili, alla valorizzazione o alla permuta con enti territoriali, società a partecipazione pubblica o altri soggetti privati. La legge finanziaria 2010 istituisce dunque la società per azioni “Difesa Servizi Spa”, a cui è affidato il compito di attivare, secondo gli indirizzi e i programmi del Ministero della Difesa, piani di valorizzazione e gestione degli immobili militari. Agli strumenti tradizionali si aggiunge così, proprio nell’ottica di una valorizzazione più redditizia, uno strumento nuovo, il programma unitario di valorizzazione territoriale. Questo, introdotto dall’articolo 27 del dl 201/2011, è un piano urbanistico finalizzato alla promozione dello sviluppo locale attraverso il recupero e riuso di immobili pubblici, tra cui i beni militari, nell’ambito di un progetto unitario. La legge che per prima anticipa tali programmi, la finanziaria del 2007, prevedeva che: L’Agenzia del demanio può individuare, d’intesa con gli enti territoriali interessati, una pluralità di beni immobili pubblici per i quali è attivato un processo di valorizzazione unico, in coerenza con gli indirizzi di sviluppo territoriale, che possa costituire, nell’ambito del contesto economico e sociale di riferimento, elemento di stimolo ed attrazione di interventi di sviluppo locale. Quando nel 2011 vengono ripresi tali programmi, si individua, fin dall’inizio del comma 2 dell’articolo, l’elemento essenziale nel consenso delle diverse istituzioni coinvolte, che devono tutte ugualmente partecipare alla formazione della volontà di valorizzazione, al fine di avviare un percorso di utilizzazione unico della categoria degli immobili considerata, in coerenza con gli indirizzi di sviluppo territoriale ed economico determinati. Centrale è dunque proprio la molteplicità, e la consensualità, degli attori coinvolti: l’attività dei Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni e dello Stato, anche ai fini dell’attuazione del presente articolo, si ispira ai principi di cooperazione istituzionale e di copianificazione, in base ai quali essi agiscono mediante intese e accordi procedimentali. L’idea dei programmi unitari di valorizzazione è dunque quella di considerare intere categorie di immobili come un settore unitario di pianificazione urbanistica, nel quale l’amministrazione procedente, ad esempio nel caso dei beni della difesa sarà l’agenzia del demanio, tramite protocolli d’intesa programma una pianificazione unitaria, concordata con tutte le amministrazioni locali. Il regime giuridico al quale ogni bene è sottoposto, ad esempio quello di bene demaniale o indisponibile, non rappresenta un aspetto rilevante, dal momento che l’inclusione nel bene nelle liste di valorizzazione lo riclassifica automaticamente come patrimonio disponibile. È interessante notare due aspetti principali dello strumento: da un lato infatti parrebbe tornarsi ad un tipo di pianificazione pubblica ove l’interesse delle amministrazioni locali è sufficientemente rappresentato e ove la dimensione di perseguimento degli interessi urbanistici riesce a bilanciare la sola necessità di reperimento di risorse economiche. Dall’altro lato, però, va notato come il funzionamento effettivo di tali piani sia eccessivamente macchinoso, e indirizzato comunque in via principale al maggior ritorno economico. Infatti, già il comma 1 dell’articolo, che prevede le forme di valorizzazione generale dei beni pubblici, definisce quasi esclusivamente i contenuti di tipo economico-gestionale delle valorizzazioni, peraltro concedendo larghissimo spazio ai privati e all’uso di strumenti societari e commerciali. Il comma 2, che invece dovrebbe definire la procedura di valorizzazione urbanistica, si concentra però anch’esso sulla dimensione strettamente economica e contabile della cessione, per quanto incardinata nel PUV. Già dalle finalità del piano risulta evidente come l’ordinato assetto dei suoli, fine tradizionale dell’urbanistica, non sia neanche preso in considerazione, bensì si crei questo strumento al fine, dichiarato dallo stesso comma, di contribuire alla stabilizzazione finanziaria, nonché alla promozione di iniziative volte allo sviluppo economico e alla coesione sociale e in generale per garantire la stabilità del Paese. Si prevede dunque che qualora il piano determini una modifica degli strumenti urbanistici vigenti, questa debba essere senza maggiori costi per la finanza pubblica, e gli enti pubblici interessati dalla trasformazione possano richiedere una cifra compresa tra il 5% e il 15% del ricavato della trasformazione. Se invece l’immobile è destinato alla locazione potranno richiedere tra il 50% e il 100% del contributo per il rilascio del permesso di costruzione. Considerando inoltre come tale pluralità di attori possa determinare un dilatazione dei tempi e dei passaggi talmente gravosa da portare lo stesso strumento all’inutilizzabilità, si prevede che l’iter di approvazione del programma debba essere scandito da tempi certi, anche per l’attuazione, in modo da garantire anche agli eventuali privati interessati all’investimento nella trasformazione, l’applicazione di tempi certi. In tal modo si possono riassumere i fini dello strumento: coniugare i temi della garanzia di conservazione dei beni tutelati con la loro valorizzazione economico-funzionale. Validare le ipotesi di rifunzionalizzazione degli stessi, tenendo conto della sostenibilità economico-finanziaria dell’operazione. Definire i limiti e i tempi entro cui anche il soggetto privato può intervenire, per consentire a questo di valutare al meglio l’opportunità dell’investimento. La natura orientata al ritorno economico è sottolineata anche dalla possibilità di accedere, durante la valorizzazione, all’intervento finanziario del fondo integrato del dl 98/2011, art. 33, e dei fondi territoriali dello stesso dl, art. 33-bis. La normale pianificazione urbanistica è invece non solo non citata, ma esplicitamente derogata, dal comma 6 dell’introdotto articolo 3-ter al dl 351/2001, in modo che qualora sia necessario riconfigurare gli strumenti territoriali e urbanistici per dare attuazione ai programmi di valorizzazione, l’amministrazione procedente, promuove la sottoscrizione di un accordo di programma per procedere alla variazione di detti strumenti di pianificazione, al quale partecipano tutti i soggetti, che sono interessati all’attuazione del programma. La cosa è ancor più preoccupante nel momento in cui di fatto si configura una variazione alla pianificazione consueta tramite un iter non partecipativo, estremamente ridotto formalmente, e di fatto limitato ad un solo accordo di programma. Si può notare a questo punto che se in apparenza il PUV sembrava un programma di ritorno alla normale pianificazione urbanistica, in realtà la disciplina ha una dimensione esclusivamente orientata a definirne gli aspetti economici-finanziari, come se fosse un normale investimento, e perlopiù finalizzata formalmente ad incentivare l’ingresso dei privati nella pianificazione. Si deve altresì notare però che tali piani hanno avuto un successo modesto, a fronte di strumenti urbanistici anche più vecchi, ma di maggiore efficacia. È evidente ad esempio che rispetto ad un Piano Integrato di Intervento, al netto della classificazione del bene come disponibile, il PUV mantenga un struttura ben più gravosa, fatta di interventi di molteplici attori territoriali. E in effetti, seguendo il piano di dismissione proprio del Ministero della Difesa, ci si accorge che la prima strada è quella principalmente seguita, quando non si preferisce la dismissione diretta con vendita all’asta: basterebbero citare i quattro protocolli d’intesa con i comuni di Milano, Torino, Firenze, Roma, e Agenzia del Demanio, firmati tra aprile e agosto 2014 per la dismissione di beni per oltre un milione di metri quadrati. In tali casi, che astrattamente sarebbero i casi ideali di approvazione di un PUV, avendo più beni simili da ripianificare contemporaneamente all’interno di uno stesso centro urbano, continuano ad utilizzarsi strumenti più risalenti, non unitari, bensì legati al singolo bene. Diventa chiaro che rispetto ai PUV anche un sistema, apparentemente non meno complesso, basato su un accordo di programma tra amministrazione territoriale, dismettente, e privato investitore, che tramite un programma integrato curi la pianificazione e la proponga come variante al PRG, si dimostra in realtà vincente. Il motivo è evidente, a seguire l’evoluzione di tutta la strumentazione urbanistica recente: il PUV ha infatti la finalità di attrarre investimenti, ma lo fa con una gestione che è perlopiù pubblica, peraltro aggravata dalla lunga sequenza di soggetti amministrativi coinvolti. Se però si vuole attrarre il privato, bisogna permettere a questo di intervenire direttamente e con maggiore semplicità, potendo condurre in prima persona la fase della trattativa e dello sviluppo territoriale. Il problema è talmente sentito da portare L’ANCI, a metà 2014, a predisporre una lettera d’intenti per predisporre nuove norme urbanistiche per la semplificazione della materia e l’attribuzione di premialità ad interventi simili. Di questa esigenza peraltro, anche il legislatore nazionale era perfettamente conscio, tanto da affiancare ai PUV altre norme di incentivo all’investitore privato. Per facilitare, ad esempio, il trasferimento di degli immobili dalle amministrazioni locali ai privati, il decreto cd. del fare, d.l. n. 69/13, e il decreto cd. sblocca Italia, d.l. n. 133/14, introducono infatti nuovi snellimenti nelle procedure di cessione. Non solo infatti è previsto all’articolo 20 di tale secondo decreto il conferimento di poteri di deroga all’Agenzia del Demanio, che potrà procedere alla dismissione dei beni anche in assenza dei piani dei ministri competenti per immobile, ma per semplificare la procedura è altresì prevista una esenzione per lo Stato e gli altri enti pubblici, o società di cartolarizzazione, dall’obbligo di consegnare al momento di cessione le dichiarazioni di conformità catastale degli immobili; anche l’attestato di prestazione energetica potrà essere acquisito successivamente agli atti di trasferimento. Inoltre si prevede, per le società di investimento immobiliare quotate, una facilitazione all’accesso al regime fiscale di favore previsto dall’articolo 1 l. 296/06 per i fondi immobiliari, e si inseriscono ulteriori agevolazioni ed esenzioni fiscali sulle plusvalenze immobiliari da locazione. Gli aspetti legati alla così detta finanziarizzazione dell’edilizia saranno anch’essi trattati in lavori futuri, ma è stato utile richiamare brevemente queste modifiche normative, per sottolineare l’attenzione che il legislatore dedica principalmente alla fase dell’investimento, senza però aggiornare la strumentazione urbanistica che dovrebbe pianificare il territorio in seguito a tali operazioni. In tal senso, la struttura dei PUV testimonia il tentativo del legislatore di riformare anche gli strumenti strettamente urbanistici, in coerenza al progetto politico di fondo, ma anche lo scarso interesse a questo aspetto, che lo porta a creare uno strumento che sembra tornare verso l’antica urbanistica autoritativa, o dei piani generali, ormai da tempo superata.
17/7/15 Federico Spanicciati