di Matteo Manocchio
22/10/15
A seguito della crisi finanziaria del periodo 2007-2009 si sono verificate numerose insolvenze bancarie che hanno comportato conseguenze sulle economie e sui sistemi finanziari dei Paesi occidentali. La riforma dei sistemi di gestione delle crisi bancarie e quella della supervisione bancaria perseguono così lo scopo di rimediare alle carenze poste in luce da questi eventi patologici. L’obiettivo del nuovo quadro normativo-istituzionale, che va sotto il nome di Unione Bancaria Europea o UBE, è di creare un solido apparato per la risoluzione delle distorsioni dei sistemi bancari e la creazione di un effettivo mercato dei servizi finanziari. In realtà, l’esigenza di una soluzione strutturale di regolamentazione bancaria cominciò a manifestarsi già prima della crisi. Nel dibattito internazionale, infatti, le eventuali patologie e turbolenze finanziarie si erano già previste. Con il caso Lehman Brothers, la prima banca sistemica americana fallita, assistiamo a gravi effetti disgregativi ma ancor più a un episodio di insolvenza abbandonata al proprio destino dove le autorità americane non intervengono con salvataggi per mezzo del denaro dei contribuenti. Il processo di riforma del sistema finanziario è stato così avviato in una fase meramente teorica. Lo scopo dei policy makers non era solo quello di fronteggiare la situazione di dissesto arricchendo lo strumentario istituzionale, ma era anche quello di individuare istituti idonei a evitare fenomeni patologici di carattere sistemico. Si inzia, così, a rafforzare sia il momento cd.fisiologico della prevenzione della crisi, attraverso regole prudenziali più stringenti e controlli di viglianza più penetranti, sia quello cd. patologico con la realizzazione di regole di modalità di gestione delle crisi bancarie.
Ciò che è importante sottolineare fin da subito è che, nel nuovo modello istituzionale la viglianza bancaria e il crisis management si svolgono sullo stesso piano: quello europeo. Diversamente, infatti, si sarebbe assistito a una dicotomia tra la responsabilità della supervisione, inquadrata a livello europeo, e la gestione delle crisi su base nazionale, con grave distorsione nei processi decisionali e di intervento (“Banks will no longer be European in life but National in death” Michael Barnier, membro della Commissione Europea). La portata dell’Unione Bancaria Europea è molto ampia poiché investe l’intera architettura istituzionale della supervisione bancaria e della gestione delle crisi, toccando i poteri delle autorità, gli strumenti dell’azione amministrativa, con implicazioni su vari profili di diritto commerciale e fallimentare. Ma andiamo con ordine…
Quando si verifica una crisi si ha una rottura dell’equilibrio dell’attività economica che essa investe. Il primo passo che si compie è quello di ricercare le cause che hanno prodotto l’evento patologico, valutandone la portata e gli effetti, e i possibili rimedi. Gli interventi comportano inevitabilmente dei cambiamenti al fine di evitare le carenze, le disfunzioni e gli errori che hanno determinato la crisi stessa. Il sistema finanziario non è esente da questo iter di intervento-cambiamento. Le crisi bancarie, però, richiedono di prendere provvedimenti con misure che non sono solo in grado di incidere sugli effetti ma capaci di modificare realmente i fattori di fondo della patologia. Con la crisi del 2008 ci si è domandati come sia potuto accadere che un dissesto che ha interessato un segmento del sistema finanziario americano, i mututi ipotecari, si sia potuto estendere in maniera così pervasiva e contagiosa fino al mondo occidentale. Si chiama così in causa il fenomeno delle cartolarizzazioni e dei prodotti derivati su di esse: invece di adattare un modello “originate to hold” in cui le banche mantenevano nei propri bilanci gli attivi, esse preferivano adottare un modello “originate to distribuite” basato sulla creazione di crediti successivamente ceduti in una prospettiva di trasferimento del rischio di insolvenza. Questo assetto ha messo in luce la fragilità del sistema negli aspetti di supervisione bancaria, regolamentazione prudenziale e nell’operato istituzionale di gestione delle crisi. Sul piano della teoria economica, l’approccio sostenuto era quello che viene chiamato light touch regulation, ossia una regolamentazione che si basa sull’importanza del libero mercato e la capacità autocorrettiva, con la riduzione al minimo dell’intervento pubblico. Ma questo approccio, puramente teorico, non può andar bene in relazione a una crisi di un mercato di dimensioni sistemiche, come quello bancario e finanziario. Così, anche la teoria economica ha rivisto le proprie convinzioni passate. Infatti, gli interventi pubblici di salvataggio hanno sottolineato i limiti del light touch regulation di matrice liberista, che avrebbe comportato l’abbandono a se stesse delle banche insolventi (vd. Caso Lheman Brothers), senza ricercare il loro successivo bail-out con l’uso di denaro pubblico. Perciò nel contesto della crisi sistemica del sistema finanziario siamo di fronte a una doppia possibilità: far fallire le banche lasciandole al proprio destino o, intervenire per salvarle. I governi europei hanno scelto la seconda via e, l’unico modo di intervento e salvataggio delle banche è stato intrapreso attraverso interventi pubblici a carico dei contribuenti (cd. bail.out).
Ma la crisi non si è esaurita con questi salvataggi. Si è verificato quanto annunciato da chi ha mostrato sin da subito diffidenza verso il sistema di bail-out, parlando infatti delle le insolvenze bancarie come traduzioni in “una socializzazione delle perdite a carico dei contribuenti, mentre quando gli affari vanno bene i profitti sono solo a vantaggio dei privati”. Nel 2011 gli effetti della crisi si sono trasferiti così a livello reale dando luogo a fenomeni di disoccupazione e conseguenze sociali per ampie fasce della popolazione. Dopo la prima fase di emergenza ci troviamo a fronteggiare la crisi dei debiti sovrani di molti Paesi occidentali. Queste crisi hanno determinato una frammentazione del mercato bancario e una differenziazione delle condizioni di accesso ai mercati finanziari da parte dei sistemi bancari nazionali.
La strada da seguire è stata così individuata nel dibattito europeo verso un’armonizzazzione massima e accentramento a livello europeo delle fondamentali funzioni di vigilanza bancaria e gestione delle crisi. Prende corpo il progetto di Unione Bancaria Europea che costituisce proprio la risposta normativa-istituzionale ai fenomeni di dissesto appena analizzati. Tre pilastri ne sono a fondamento:
1- Sistema Unico di Viglianza Europeo (Single Supervisory Mechanism)
2- Sistema Unico di Risoluzione delle Crisi (Single Resolution Mechanism), accompagnato da un Fondo unico di risoluzione (Single Resolution Fund)
3- Sistema unico di garanzia depositi
L’unicum di regole è costituito dal Single Rule Book formato da 28 interventi normativi che perseguono lo scopo di creare questa nuova architettura cercando un equilibrio tra competenze europee e nazionali declinate secondo i principi di sussidiarietà e proporzionalità sanciti dal TUE, art.5.
Entrano così nel panorama degli ordinamenti europei e nazionali nuovi concetti giuridici; la risoluzione è costituita da un armamentario di strumenti nuovi e poteri volti a evitare situazioni di dissesto (bail-in, non più bail-out; cessione dell’impresa; separazione good bank – bad bank in cui confluiscono gli attivi deteriorati; bridge-bank). Si fronteggia la crisi finanziaria del 2008 ma rimangono comunque alcuni interrogativi sulla completezza delle misure adottate. Come ha osservato Ignazio Visco in un intervento all’Accademia Nazionale dei Lincei “Quando si verifica una discontinuità rispetto al passato, i cambiamenti dei modelli comportamentali degli agenti possono essere di vasta portata e le dinamiche passate non sono più in grado di fornire un riferimento per comprendere il presente, men che meno il futuro”. In sostanza, nel dibattito economico-giuridico ci si domanda se le misure adottate dall’UBE sono tali da esaurire tutte le risposte e le preoccupazioni non solo europee, ma anche nazionali.
«Quasi tutti conoscono la storia del tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada. Di solito le barzellette non sono immediatamente comprensibili ovunque. È raro che l’umorismo attraversi le frontiere e in genere resta connotato a livello nazionale. Ma in questo caso potrebbe avere a che fare con una caratteristica inerente alla natura umana: cercare di vederci chiaro, che si parli di vista o di riflessione” Con queste parole Jean Paul Fitoussi, professore presso Sciences Po a Parigi, professore presso l’Università LUISS di Roma, e membro del Center on Capitalism and Society della Columbia University, introduce la sua brillante analisi della crisi economica dei Paesi occidentali. Gli studiosi di ogni campo, spiega, sono coloro che scelgono cosa occorre illuminare, i fenomeni da analizzare e i sistemi di misurazione da utilizzare. Ma cosa accade se compaiono fenomeni nuovi, o se ne riemergono altri che pensavamo appartenere al passato? Se continuiamo a cercare alla luce dei vecchi lampioni, allora, come l’uomo che ha perso le chiavi, perdiamo ogni possibilità di vederci chiaro. Ecco l’errore commesso, secondo Fitoussi, nell’odierna politica economica: «illuminare» dove non serve. Cercare soluzioni che possono anche essere giuste, ma che rispondono alle domande sbagliate.
«Se le nostre scelte non sono pertinenti, – scrive Fitoussi – le nostre ricerche saranno infruttuose. Nell’ambito dell’agire politico questo può avere conseguenze gravi, perché gli errori possono accumularsi: errori nella definizione dell’obiettivo, nella sua valutazione, nella scelta degli strumenti utilizzati in funzione dei fini ricercati, vale a dire nella teoria o dottrina che presiederà all’azione».