13 gennaio 2025
a cura di Federica Micarelli
Con la sentenza depositata il 17 dicembre 2024, n. 203, la Corte costituzionale ha fatto nuovamente il punto sul conflitto tra autorità di pubblica sicurezza e autorità giudiziaria, in relazione all’adozione della misura del foglio di via obbligatorio. Un dissidio che si palesa spesso, e che si innesta in una tematica più ampia di controllo dell’autorità giurisdizionale sugli atti della Pubblica Amministrazione. Più precisamente, la decisione concerne la legittimità della disposizione che regola tale misura di prevenzione personale, ossia l’art. 2 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).
Va premesso che il foglio di via obbligatorio è una misura di carattere amministrativo, disposta nei confronti di soggetti considerati socialmente pericolosi e che si trovano in un comune diverso dai luoghi di residenza o di dimora abituale. Tali soggetti vengono diffidati a lasciare il comune, con l’obbligo di non farvi rientro per un periodo non superiore a quattro anni. La disposizione in parola prevede che sia il Questore, con provvedimento motivato, ad ordinare a persone pericolose di lasciare il territorio del comune interessato.
Nello specifico, la questione di legittimità è stata sollevata dal GIP di Taranto, nell’ambito di un procedimento avviato, ai sensi dell’art. 76 comma 3 del d.lgs. 159/2011, nei confronti di un soggetto che aveva fatto più volte ritorno nel Comune pugliese, dal quale era stato allontanato mediante foglio di via. Secondo il giudice per le indagini preliminari, il suddetto art. 2 attribuisce esclusivamente al Questore la titolarità del potere di varare la misura del foglio di via obbligatorio, escludendo, pertanto, l’adozione o la necessità di una successiva convalida da parte dell’autorità giurisdizionale. In questo modo, il giudice penale potrebbe intervenire solo qualora il soggetto interessato dalla misura sia imputato per la violazione degli obblighi stabiliti dal provvedimento. La scelta in questione ricadrebbe unicamente sull’autorità amministrativa, e l’autorità giudiziaria sarebbe soggetta al giudizio effettuato a monte dall’amministrazione, senza possibilità di mettere in atto un ulteriore bilanciamento degli interessi in gioco.
Per il GIP, ciò contrasterebbe con l’art. 13 della Costituzione, in quanto il foglio di via costituirebbe una misura limitativa della libertà personale e, come tale, dovrebbe rispettare la riserva di giurisdizione prevista da tale disposizione. Nonostante non comporti una coazione fisica in senso stretto, infatti, il foglio di via comprometterebbe comunque la libertà morale del soggetto e gli procurerebbe una c.d. “degradazione giuridica”, termine utilizzato dalla giurisprudenza costituzionale per indicare una sua separazione dalla collettività.
In subordine, il giudice a quo palesa un contrasto anche con l’art. 3 Cost., evidenziando la disparità di trattamento rispetto alla misura di sicurezza del divieto di soggiorno, alla misura cautelare del divieto di dimora, e alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale.
Ancora in rapporto di subordinazione, in riferimento al solo art. 3 Cost., il GIP lamenta che al foglio di via non si applichi la disciplina del DASPO urbano, misura sostanzialmente analoga e modellata sul medesimo procedimento di convalida giurisdizionale previsto per il DASPO sportivo con obbligo di firma, di cui all’art. 6 comma 2 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive).
Il provvedimento in esame consegue all’adozione di una scelta discrezionale dell’amministrazione, che effettua una ponderazione delle esigenze più rilevanti, valuta i parametri per l’adozione della misura e, se del caso, emette il foglio di via. A tal fine, l’amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine alla pericolosità del soggetto, effettuando un giudizio prognostico sulla probabilità che, in futuro, questo commetta reati che offendano o mettano in pericolo la tranquillità e la sicurezza pubblica. Giudizio, questo, cui è associata una valutazione discrezionale negativa delle qualità morali e della socialità dell’individuo.
Ciò che il GIP di Taranto lamenta è, per l’appunto, l’attribuzione in via esclusiva al Questore, anziché all’autorità giudiziaria, del potere di effettuare tale bilanciamento o, in via subordinata, l’assenza di una successiva convalida. Tanto l’ordinanza del rimettente, quanto l’opinione depositata dall’amicus curiae, sottolineano infatti il rischio di una “potenziale arbitrarietà” nell’uso di tale misura e propongono, per fronteggiare tale pericolo, un controllo preventivo del giudice penale, quale organo chiamato all’obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza ed imparzialità.
Si tratta di un antagonismo tra autorità amministrativa e autorità giudiziaria già registrato più volte su questo tema, e sul quale la Corte costituzionale consolida il proprio orientamento.
I giudici costituzionali, nello specifico, rispondono all’interrogativo che riguarda la limitazione o meno della libertà personale da parte del foglio di via. Secondo la Corte, infatti, il problema concerne l’individuazione di una linea di confine tra libertà personale, tutelata all’art. 13 Cost., e libertà di circolazione, oggetto, invece, del successivo art. 16 Cost. Entrambe le disposizioni prevedono una riserva di legge ma, quando viene in gioco la libertà personale, la disposizione stabilisce anche una riserva di giurisdizione: ogni misura che incide su tale libertà deve essere disposta dall’autorità giudiziaria, ovvero, nei casi di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge, può essere disposta dall’autorità di pubblica sicurezza, salva comunque la necessità di una convalida da parte dell’autorità giudiziaria entro le successive novantasei ore. Il quesito, in altre parole, è se la misura in parola comporti realmente una limitazione della libertà personale così come tutelata dall’art. 13 Cost. Se così fosse, infatti, il potere di disporre o convalidare la misura apparterrebbe all’autorità giurisdizionale, e l’art. 2 del d.lgs. 159/2011, che attribuisce tale titolarità esclusivamente al Questore, potrebbe presentare profili di incostituzionalità.
Tuttavia, la Corte costituzionale dissente sull’applicazione dell’art. 13 in relazione al foglio di via obbligatorio, delineata, invece, nell’ordinanza a quo. Per i giudici, le garanzie di cui all’art. 13 si applicano qualora la misura sia idonea a produrre una “coazione sul corpo” della persona, ovvero comporti obblighi determinanti una “degradazione giuridica” del destinatario, tali da poter essere equiparati ad un vero e proprio assoggettamento del soggetto all’altrui potere.
Rispetto al primo criterio, la Consulta ritiene che la coazione comporti un evidente assoggettamento fisico della persona ad un potere pubblico, in grado di vincere con la forza ogni sua volontà, e ricomprenda, inter alia, la coazione della persona a rimanere in un determinato luogo, come il suo arresto o fermo, la detenzione, ispezioni e perquisizioni, ma anche la traduzione forzata dell’interessato nel luogo di residenza ovvero davanti all’autorità di polizia. La degradazione giuridica, fulcro dell’ordinanza a quo, determina invece una “menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona”, ossia uno “stigma morale”.
A differenza delle considerazioni svolte dal GIP, i giudici costituzionali ritengono che tale trattamento debba incidere sulla libertà di movimento della persona in maniera significativa anche dal punto di vista quantitativo, per cui le misure imposte devono essere di tale intensità da risultare sostanzialmente equivalenti alle restrizioni attuate mediante l’uso della coazione fisica. Per quanto gravoso possa risultare l’obbligo stabilito con il foglio di via, una volta che l’interessato abbia eseguito l’ordine iniziale di lasciare il territorio del comune dal quale è allontanato, questo si risolve nel mero divieto di farvi ritorno, il che lascia libero il soggetto di recarsi in qualunque altro luogo desideri. Pertanto, la Corte costituzionale riconduce la misura in parola all’area di tutela dell’art. 16 Cost., confermando la propria giurisprudenza in materia.
L’ultimo rilievo della Consulta attiene alla possibilità di un controllo giurisdizionale ex post sulla misura disposta dal Questore, eventualità stigmatizzata dal giudice a quo, secondo il quale, in questo modo, il sindacato del giudice penale sarebbe relegato ad una mera casualità successiva. Al contrario, la Corte costituzionale evidenzia gli strumenti idonei a un controllo effettivo della legittimità del provvedimento, in primis tramite il ricorso al giudice amministrativo, che assicura tutela immediata ed effettiva contro provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato.
In secondo luogo, la Corte conferma che, nell’ambito di un eventuale procedimento penale, sussista il potere-dovere del giudice di procedere ad una verifica incidentale della legittimità del provvedimento del Questore, quaestio su cui a lungo dottrina e giurisprudenza si sono avvicendate. In entrambi i casi, lo scrutinio sulla legittimità del provvedimento comprende una valutazione di proporzionalità tra le finalità perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, oltre che sull’intera gamma dei diritti fondamentali su cui si riflette il provvedimento.
In effetti, il ruolo del giudice penale, e del suo sindacato, in relazione al foglio di via obbligatorio è un tema ricorrente, che si inserisce nella mai sopita querelle tra potere amministrativo e giustizia penale, e nella possibile interferenza tra due aree che, di frequente, si trovano ad entrare in contatto. La giurisprudenza, ormai, è ferma nel ritenere che tale sindacato debba riguardare la verifica della conformità del provvedimento alle prescrizioni di legge, senza tuttavia tradursi in una rivalutazione del giudizio espresso dall’amministrazione al momento di adozione della misura, oggetto del potere discrezionale in materia, appartenente all’autorità amministrativa. Il giudizio di pericolosità effettuato a monte dall’amministrazione e cristallizzato nel provvedimento, infatti, stride con la possibilità che un’autorità esterna vada ad incidere su tale bilanciamento di interessi e, potenzialmente, invada il “recinto sacro”, come spesso è stato definito, della discrezionalità amministrativa.