MATTEO PULCINI
10/01/2019
- Il sovraffollamento a cinque anni dalla sentenza Torreggiani
Gli ultimi dati rilasciati dal Ministero della giustizia riguardanti le presenze di detenuti nelle strutture penitenziarie per adulti, relativi al 31 dicembre 2018, segnano un preoccupante ritorno dell’emergenza del sovraffollamento carcerario. A fronte di una capienza regolamentare di circa cinquantamila posti sono detenuti nelle carceri italiane più di cinquantanovemila detenuti, di cui solo trentanovemila con condanna definitiva, per un tasso di sovraffollamento del 117,94 percento.
Sono dati, per ora, ancora lontani da quelli che portarono alla condanna dell’Italia, da parte della Corte EDU, con la sentenza 8 gennaio 2013 Torreggiani e altri c. Italia. La Corte ritenne che uno spazio pro capiteinferiore ai tre metri quadri costituisse trattamento inumano e degradante contrario all’art. 3 della convenzione. Effettivamente al 31 dicembre 2012 la situazione carceraria presentava numeri sproporzionati, con circa sessantacinquemila detenuti a fronte di quarantacinquemila posti regolamentari. Fu proprio il fatto che il sovraffollamento prescindesse dalla situazione dei singoli ricorrenti essendo «strutturale e sistemico», come dichiarato anche dallo stesso Governo italiano (allora il dato sul sovraffollamento segnava 151 percento) con d. p. c. m. 13 gennaio 2010 a far ritenere che andassero introdotti rimedi preventivi e risarcitori per detenzione contraria all’art. 3 CEDU. Perciò venero emanati i decreti legge 23 dicembre 2013, n. 146 e 26 giugno 2014, n. 92 che introdussero gli artt. 35-bise 35-terdando ai detenuti gli strumenti preconizzati dalla Corte. Già dal 2010 si erano introdotte norme penali e di procedura penale che, tra le altre cose, puntavano a deflazionare gli ingressi in carcere di breve durata (le c.d. porte girevoli) e ad aumentare l’utilizzo delle misure alternative (senza tuttavia ottenere risultati utili, il sovraffollamento scese infatti solamente al 148 percento tra il 2010 ed il 2012).
- Il piano carceri
Il citato decreto fu poi seguito dall’ordinanza del 19 marzo 2010 n. 3861 che incaricava un commissario per la realizzazione del “piano carceri”. Con una dotazione straordinaria di oltre 500 milioni di euro ed eccezionali poteri derogatori al codice dei contratti pubblici (d. lgs. 163/2006), ci si prefiggeva l’obiettivo di mettere a disposizione del DAP ulteriori ventunomila posti tramite la realizzazione di nuovi padiglioni in istituti già esistenti e di nuove case di reclusione.
L’esito fu però fallimentare. La data di scadenza dei lavori venne fissata per il 31 dicembre 2012, poi prorogata al 2013. Più si rinviava più si abbassavano gli obiettivi di capienza. La direzione del piano, inizialmente affidata al Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria quale commissario straordinario, poi passata al prefetto Angelo Sinesio, ritornò nel 2014 al DAP (in collaborazione con il MIT) proprio per una gestione commissariale giudicata non funzionale ed efficace (se non addirittura poco trasparente). Proprio nel 2014 il nuovo guardasigilli Andrea Orlando esprimeva contrarietà alla gestione commissariale ritenendola non in grado di fornire soluzioni a un problema complesso e conferente non solo alla funzione amministrativa della distribuzione e gestione dei detenuti ma anche alla cultura della pena che si voleva trasmettere all’opinione pubblica e agli addetti ai lavori. Tale visione fu poi confermata dalla Corte dei conti che con deliberazione n. 6/2015/G diede conto degli scarsi risultati del piano carceri: dei cinquecento milioni stanziati solo cinquantadue risultavano utilizzati e con tempistiche di ultimazione previste che arrivavano al 2018. Si notava inoltre come non bastasse la nomina di un commissario a risolvere problemi relativi l’ordinaria azione amministrativa. Lo stesso Orlando con un esposto in procura fece poi scattare un’indagine sulla gestione dell’ex commissario Sinesio per presunte irregolarità nell’affidamento degli appalti e degli incarichi concernenti il piano.
- Prospettiva attuale
Ad oggi, trascorsi circa otto anni dal varo del piano carceri, sono stati recuperati alla piena funzionalità circa cinquemila posti utilizzando parte dei fondi nel frattempo tornati ai Ministeri interessati (MGG e MIT). Nel frattempo si registra un lento, se paragonato ai tassi di crescita della popolazione carceraria precedenti al 2010, ma costante incremento dei detenuti ed un’edilizia penitenziaria ferma nei fatti ma probabilmente prossima ad una nuova “primavera”.Il Ministro Alfonso Bonafede, al margine dell’audizione davanti al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) del 9 gennaio, ha ribadito l’intenzione, già espressa nel documento programmatico per il 2019, di effettuare interventi importanti dal punto di vista dell’edilizia penitenziaria, creando un nucleo stabile che gestisca gli interventi di manutenzione (straordinaria ed ordinaria),non escludendo la costruzione di nuove carceri. Tuttavia bisogna registrare come una politica penale tesa ad aumentare le fattispecie di reato, unitamente al mancato esercizio della delega ex l. 103/2017 art. 1 co. 85 lett. b), c) ed e) riguardanti le misure alternative e gli automatismi penitenziari non fa ben sperare per una futura soluzione di questa disfunzione, che affligge le carceri italiane da quando esiste la pena detentiva. Soluzione che ovviamente non può essere trovata solo nella costruzione di nuove carceri. Ben vengano, chiaramente, le iniziative tese a fornire spazi adeguati al trattamento penitenziario e rispettosi della dignità del detenuto, come quella caldeggiata nel 2016 dall’allora ministro Orlando sulla dismissione delle carceri più antiche (Regina Coeli, Poggioreale e San Vittore) per realizzare strutture più funzionali e con minori costi di gestione. Utile potrebbe anche essere la prospettiva di realizzare edifici penitenziari mediante la finanza di progetto, posto che in tal modo si realizzino effettive economie per l’amministrazione. Si ricorda, infatti, che uno dei primi progetti del genere, riguardante il carcere di Bolzano, è fermo ormai da diversi anni (i lavori dovevano concludersi nel 2016) a causa dell’amministrazione straordinaria cui è sottoposta la società vincitrice del bando, Condotte Spa, sebbene gli amministratori si siano detti, a fine 2018, intenzionati a portare a termine l’opera.
Tuttavia si deve rimarcare come nelle cicliche crisi di sovraffollamento la mancanza di strutture adeguate sia solo causa secondaria, quando non effetto. A politiche penali caratterizzate da un abuso della pena detentiva sono sempre seguiti provvedimenti clemenziali (come l’indulto del 2006, che ridusse la popolazione penitenziaria al di sotto delle quarantamila unità) che, lungi dal risolvere il problema, lo nascondono. Questi provvedimenti destano inoltre allarme sociale, peraltro facilmente strumentalizzabile, cui il legislatore spesso risponde con nuove politiche, potremmo dire, utilizzando il termine coniato da Loïc Wacquant, di “iperincarcerazione”. Si pensi che per tornare ai livelli pre-indulto (cinquantottomila detenuti) bastarono soli due anni. Al di là, quindi, della non utilità ai fini della risocializzazione ed alla rieducazione del condannato, cui qui si accenna solamente, il dualismo diritto punitivo – diritto clemenziale dovrebbe essere superato, anche solo da un punto di vista che tenga al buon andamento ed all’efficienza dell’amministrazione penitenziaria, in favore di una politica penale e penitenziaria che miri alla minimizzazione dell’utilizzo dello strumento carcere, favorendo quanto più possibile l’accesso a misure alternative. Con tali presupposti, e con un diritto penale non pervasivo ma mirato e puntuale, si potrebbero evitare dispendiosi piani di edilizia carceraria e si potrebbe effettivamente puntare ad un abbassamento del tasso di recidiva, concreto obiettivo del trattamento penitenziario.