di Andrea Renzi
07/10/16
Il Responsabile della prevenzione e della corruzione: l’istituto
La necessità di ridurre le possibilità di corruzione ha portato il legislatore negli ultimi anni ad accelerare le attività di prevenzione di tale fenomeno. Il cambio di rotta è segnato particolarmente dal fatto che in passato la lotta al fenomeno corruttivo era limitato ad un intervento “ex post”, volto principalmente al sanzionamento del reo e alla capacità di deterrenza della pena. Si sono però oramai osservati i limiti di tale attività, rispetto al fatto che intervenendo ad attività già compiuta, il danno nei confronti della pubblica amministrazione si era già verificato e l’intervento in via di risarcimento, seppur utile per mitigare gli effetti, sarebbe intervenuto comunque a notevole distanza di tempo e con tutte le difficoltà insite alla quantificazione dell’offesa subita.
Fin dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. Legge Severino) si è voluto invece ampliare lo spettro degli interventi prevedendo a carico delle amministrazioni una serie di obblighi posti proprio ad impedire il crearsi dell’humus necessario al verificarsi del fenomeno corruttivo. Uno di questi obblighi è quello della nomina del Responsabile della Prevenzione della corruzione e della trasparenza, con lo scopo di una maggior centralizzazione e responsabilizzazione sull’adempimento di quanto previsto dalla normativa vigente in tema di prevenzione e di lotta alla corruzione. Tale nuova carica dovrà di norma essere individuata ad opera dell’organo di indirizzo tra i “dirigenti di ruolo in servizio”, disponendo le eventuali modifiche necessarie all’organizzazione per permettere lo svolgimento corretto di tale incarico; negli enti locali invece il Responsabile è preferibilmente individuato nel segretario o nel dirigente apicale ed una eventuale diversa determinazione dovrà essere adeguatamente motivata.
Veniamo ora ai compiti attribuiti a tale individuo: questi dovrà segnalare all’organo di indirizzo e all’organismo indipendente di valutazione qualsiasi disfunzione relativa all’applicazione della normativa in materia di prevenzione alla corruzione e trasparenza e dovrà inoltre segnalare agli organi preposti alla comminazione di sanzioni disciplinati i nominativi dei dipendenti inadempienti agli obblighi su descritti. Altri compiti previsti in capo a tale organo sono quelli di proposta e di modifica, nei confronti dell’organo di indirizzo, del Piano triennale per la prevenzione della corruzione e della attuazione efficace dello stesso, così come quello di definizione delle procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione. Il Responsabile deve inoltre verificare l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività maggiormente a rischio di infiltrazioni corruttive, per evitare il fenomeno delle cd. porte girevoli, ed individuare il personale da inserire nei programmi di formazione presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (prima Scuola Superiore della pubblica amministrazione).
L’attribuzione di tali compiti in capo ad uno specifico individuo dovrebbe permettere l’immediato riconoscimento di colui il quale debba gestire l’intera vicenda preventiva, senza permettere caotiche frammentazioni che impediscano, di fatto, una risposta immediata ed efficiente ad eventuali errate o mancanti applicazioni della normativa.
Tale architettura amministrativa trova il suo compimento poi nelle attribuzioni poste in capo a tale responsabile in caso di fallimento dell’opera preventiva. Infatti è immancabilmente prevista all’interno della c.d. Legge Severino la previsione di come il Responsabile risponderà in sede disciplinare non solo in caso di mancato adempimento dei propri obblighi ma anche nel caso di accertamento di commissione all’interno della amministrazione di un reato corruttivo, in senso ovviamente amministrativo, con sentenza passata in giudicato.
Danno erariale e danno all’immagine
A tale responsabilità si deve aggiungere l’imputabilità per il danno erariale e per il danno all’immagine della pubblica amministrazione salvo che il dirigente non riesca a dimostrare di aver predisposto un piano di prevenzione alla corruzione con le osservazioni prescritte dalla legge e di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del piano. Tale inversione dell’onere della prova pone delle particolari questioni in quanto, prendendo a modello il ragionamento seguito dalla giurisprudenza in diversi ambiti riguardo alla violazione di piani di prevenzione, lo stesso verificarsi della patologia potrebbe essere interpretato come una mancanza di diligenza nella vigilanza. Per quanto riguarda invece la quantificazione del danno all’immagine, essendo sempre complesso stabilire l’ammontare effettivo di tale lesione ed ancor più in ambito amministrativo essendo così rilevante e diffusa tale funzione, la normativa interviene con una quantificazione “pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”. Quest’ultima previsione è stata chiaramente utilizzata per porre fine agli oscillamenti giurisprudenziali che avevano precedentemente caratterizzato tale tipologia di danno di natura non patrimoniale.
Rispetto alla quantificazione del danno erariale da parte della Corte dei Conti occorre invece soffermarsi su due fondamentali criteri: L’utilità percepita e il potere riduttivo dell’addebito. Per quanto riguarda il primo elemento bisogna volgere lo sguardo all’art. 1-bis, della l. N. 20 del 1994 così come novellata nel 1996, il quale stabilisce come il giudice contabile debba necessariamente considerare qualsiasi vantaggio conseguito dall’amministrazione anche se derivante dalla condotta illecita del proprio dipendente, tale previsione risulta imprescindibile nella trattazione teorica nonostante non poche decisioni hanno ritenuto di non opporre tale compensazione per attività compiute contro la legge.
Invece rispetto al secondo elemento, cioè il potere riduttivo dell’addebito, bisogna osservare come secondo la prevalente dottrina questo debba essere considerato uno dei principali elementi di “specialità della disciplina della responsabilità amministrativa”. In base a tale principio il giudice deve tener conto del danno addebitabile al convenuto, cioè la possibilità di ridurre secondo prudente apprezzamenti l’entità del danno accertato ed imputabile al dipendente pubblico autore della condotta. Questa previsione se da un lato permette alla magistratura contabile di tenere in considerazione qualsiasi elemento, anche soggettivo, per correttamente calibrare attribuibilità del danno all’individuo dall’altro se utilizzata in maniera automatica e indiscriminata rischia di limitare eccessivamente la responsabilità con conseguente impossibilità di riparazione del danno subito.
Conclusioni
Come vediamo questo sistema è volto a risolvere due problemi. Da un lato vuole rafforzare gli strumenti di prevenzione della corruzioni mediante la forza deterrente tipica dell’accountabilty e dall’altro la centralizzazione della responsabilità renderà più facile, sempre in linea teorica, l’esercizio del potere in questo campo, superando il carattere complesso dell’organizzazione amministrativa. Nonostante ciò però non risulta privo di criticità, infatti oltre alle sopra esposte problematiche di quantificazione e discrezionalità giudiziaria, l’imputazione in carico del dirigente di una pluralità di titoli di responsabilità, provoca un elevato numero di sovrapposizioni, le quali possono generare il rischio di un diritto più manipolabile.