di NICCOLÒ ANTONGIULIO ROMANO
20/09/2017
La parte IV del testo unico ambientale, così come riformato dal d.lgs. n. 205/2010, si occupa tra le altre cose di chiarire la distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è. In proposito, l’art. 184 ter afferma che “la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica di rifiuto”. A differenza del passato, in cui prevaleva la tendenza ad allargare quanto più possibile le maglie della nozione di rifiuto, si è andato ad affermare nel corso degli anni un orientamento opposto, che ha avuto una duplice conseguenza: da un lato ha consentito di sottrarre, a determinate condizioni, dalla categoria dei rifiuti alcune sostanze ed oggetti, denominati sottoprodotti, dall’altro lato ha permesso di riqualificare come materie prime secondarie sostanze od oggetti prima classificati come rifiuti[1].
La nozione comunitaria, recepita nel nostro ordinamento dall’art. 184 bis, descrive il sottoprodotto come una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante ma non scopo primario. Tale sostanza od oggetto, per ottenere la qualifica di sottoprodotto, dovrà essere con certezza ulteriormente utilizzata nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, soddisfacendo per l’utilizzo specifico tutti i requisiti pertinenti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente. La norma prevede poi al comma 2 che, sulla base di tali condizioni, il Ministero dell’Ambiente possa adottare misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare, affinché specifiche tipologie di sostanze od oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. Per opinione pressoché unanime della dottrina e della giurisprudenza, l’opportunità di attribuire la qualifica di sottoprodotto ad alcune tipologie di residui produttivi, risulta oramai essere un imperativo (quasi morale) per giungere allo sviluppo di una economia finalmente circolare. C’è tuttavia da dire che una simile soluzione si è scontrata sino in tempi recenti con interpretazioni della magistratura fin troppo conservatrici, volte a considerare in modo restrittivo sia la condizione di certezza dell’utilizzo della sostanza od oggetto destinati ad assumere la qualifica di sottoprodotto, sia la nozione di “normale pratica industriale”. La necessità di una corretta interpretazione di tale ultimo concetto scaturisce dalla volontà di identificare i trattamenti che è possibile effettuare su tali materiali, evitando che essi vengano considerati rifiuti. Una certa dottrina[2] farebbe rientrare nel contesto della “normale pratica industriale” tutti quei processi dell’industria che possono alternativamente utilizzare un sottoprodotto o una materia prima senza che ciò comporti qualsivoglia aggravio (economico o ambientale). Dal canto suo, la Cassazione penale ha certamente escluso, con sentenza n. 17453 del 2012, che la “normale pratica industriale” possa ricomprendere attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura.
L’interesse degli operatori del settore per l’emanazione di una normativa di dettaglio in tema di sottoprodotti, è stato di recente soddisfatto con il decreto del Ministero dell’Ambiente n. 264/2016, in vigore dal 2 marzo 2017, intitolato “Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”. Il quesito, si spera legittimo, che in proposito ci si pone, è il seguente: si tratta di un regolamento esaustivo che pone le basi per una reale innovazione del settore? Dell’attitudine universale di tale regolamento, si potrebbe dubitare già solo leggendone l’art. 1, nel quale si afferma che all’interno del decreto sono definite “alcune modalità” con le quali il detentore può dimostrare che sono soddisfatte le condizioni generali di cui all’articolo 184-bis del t.u. ambientale; ciò lascia quindi intuire che ne esistano altre con le quali si può giungere allo stesso risultato. Se si guarda poi all’Allegato 1 del decreto, ci si accorge come questo abbia ad oggetto esclusivamente le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione, suggerendo pertanto che le disposizioni in esso contenute siano vincolanti solo per gli operatori di tale specifico settore.
Scarsa innovatività presentano le successive disposizioni dell’art. 2 (“Definizioni”), che ripropone le nozioni di “prodotto”, “residuo di produzione” e “sottoprodotto”, e dell’art. 3, che chiarisce l’ambito di applicazione del decreto. Per ciò che concerne l’art. 4 (“Condizioni generali”), esso introduce invece un elemento di novità, prevedendo al comma 3 l’iscrizione (senza alcun onere economico) di produttori ed utilizzatori di sottoprodotti ad apposito elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti. Si tratta, senza dubbio, di un utile strumento per favorire l’incontro tra domanda ed offerta di sottoprodotti, che va a beneficio degli operatori del settore e favorisce la svolta verso la circolarità economica. Una buona dose di innovazione è altresì portata dall’art. 5, il quale tenta di estendere la portata del concetto di “certezza dell’utilizzo”, sinora (come già si è detto) relegato ad interpretazioni restrittive che hanno spesso impedito di considerare come sottoprodotti ampie varietà di residui produttivi. Il comma 1 di tale articolo dispone che “il requisito della certezza dell’utilizzo è dimostrato dal momento della produzione del residuo fino al momento dell’impiego dello stesso”. A tali fini, il produttore e il detentore assicurano, ciascuno per quanto di propria competenza, l’organizzazione e la continuità di un sistema di gestione che consente l’identificazione e l’utilizzazione effettiva del sottoprodotto.
A norma poi dei successivi commi 2 e 3, si prevedono le modalità con le quali dimostrare la certezza dell’utilizzo di un residuo nell’ambito del medesimo o di un diverso ciclo produttivo. Nel primo caso, la certezza viene provata “dall’analisi delle modalità organizzative del ciclo di produzione, delle caratteristiche, o della documentazione relative alle attività dalle quali originano i materiali impiegati ed al processo di destinazione, valutando, in particolare, la congruità tra la tipologia, la quantità e la qualità dei residui da impiegare e l’utilizzo previsto per gli stessi”; nel secondo caso, invece, la certezza dell’utilizzo di un residuo in un ciclo di produzione diverso da quello da cui è originato “presuppone che l’attività o l’impianto in cui il residuo deve essere utilizzato sia individuato o individuabile già al momento della produzione dello stesso”. Ai fini di tale individuazione, costituisce elemento di prova ai sensi del comma 4, “l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori”, dai quali emergano le informazioni relative alle caratteristiche tecniche dei sottoprodotti, alle relative modalità di utilizzo e alle condizioni di cessione (che devono risultare vantaggiose e assicurare la produzione di una utilità economica o di altro tipo). Nel caso in cui tale documentazione mancasse, si prevede al comma 5 che il requisito della certezza possa essere dimostrato anche attraverso la predisposizione di una “scheda tecnica” contenente le informazioni indicate all’Allegato 2 del decreto, riguardanti le caratteristiche tecniche dei sottoprodotti, nonché il settore di attività o la tipologia di impianti idonei al loro utilizzo. Dubbi ermeneutici, solleva da ultimo l’art. 6 (“Utilizzo diretto senza trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”) del regolamento, ancora incapace di fornire una adeguata interpretazione del concetto di “normale pratica industriale”[3].
A districare la matassa ci pensa, in parte, la recente circolare ministeriale (prot. 7619) del 30 maggio scorso. In tale documento, si afferma che il regolamento non aspira ad innovare la disciplina generale del settore, ne tantomeno a predisporre un elenco di materiali senz’altro qualificabili come sottoprodotti o un elenco di trattamenti ammessi sui medesimi, dovendo comunque essere rimessa la valutazione del rispetto dei criteri indicati ad una analisi caso per caso. Si legge, infatti, che la finalità del decreto “non è quella di irrigidire la normativa sostanziale del settore, quanto, piuttosto, quella di consentire una più sicura applicazione di quella vigente”. Allo scopo poi di fornire una corretta interpretazione del concetto di “normale pratica industriale”, la circolare chiarisce che “le operazioni svolte sul residuo non devono essere necessarie a conferire allo stesso particolari caratteristiche sanitarie o ambientali che il residuo medesimo non possiede al momento della produzione”. Finalità precipua dell’art. 6 è quindi quella di scongiurare il pericolo che, qualificando come “normale pratica industriale” un’attività ad esempio finalizzata a ridurre la concentrazione di sostanze inquinanti o pericolose, possano essere di fatto eluse le disposizioni in materia di gestione dei rifiuti. Resta salva, in ogni caso, la possibilità di qualificare come “normale pratica industriale” eventuali operazioni necessarie a rendere il residuo idoneo all’utilizzo, anche sotto il profilo ambientale e sanitario, a condizione che queste siano effettuate nel medesimo ciclo produttivo. La circolare, infine, fa presente che il decreto non ha la velleità di prevedere strumenti probatori “necessari” al fine di dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per la qualifica di una sostanza od oggetto come sottoprodotto. Viene così lasciata all’operatore, mediante adesione volontaria, la facoltà di scegliere autonomamente i mezzi di prova, anche diversi da quelli previsti dal regolamento, ferma restando la vincolante applicazione delle relative norme di settore[4].
Alla luce di queste considerazioni, si ritiene che il d.m. 264 del 2016 possa essere senza dubbio considerato un provvedimento che si muove nella giusta direzione di favorire il mercato dei sottoprodotti e la circolarità economica. L’auspicio, necessario, è che in tempi brevi si possa arrivare all’elaborazione di un provvedimento a vocazione più universale, che funga da riferimento della materia e lasci da parte le disposizioni di dettaglio, le quali rischiano inevitabilmente di complicare un quadro normativo di già non facile interpretazione.
[1] Rossi G., Diritto dell’ambiente, Giappichelli, 2015, pag. 312.
[2] Cerulli Irelli V., Clemente di San Luca G. (a cura di), La disciplina giuridica dei rifiuti in Italia – vol. 1, Editoriale Scientifica, 2012, pagg. 16-17.
[3] Muratori A., D.M. n. 264/2016: criteri realmente “indicativi” per riconoscere i sottoprodotti? in Ambiente & sviluppo 4/2017.
[4] Balossi M. V., Sottoprodotti: la nuova Circolare esplicativa del MinAmb in TuttoAmbiente, 2017.