di Alessandra Marzioni
18/01/16
Il 2015 si è chiuso con la Conferenza internazionale sul clima a Parigi (COP 21), un evento la cui risonanza mediatica ha riacceso i riflettori sulla problematica del surriscaldamento climatico e delle sue conseguenze disastrose.
I punti fondamentali dell’accordo sono il contenimento dell’aumento della temperatura sul pianeta, finanziamenti da 100 miliardi di dollari da destinare ai paesi in via di sviluppo (meccanismo Loss & Damage), revisioni quinquennali dei piani nazionali per il taglio dei gas serra, e un obiettivo di raggiungimento del picco delle emissioni in un termine breve per poi procedere a rapide riduzioni.
Salutato da molti come un momento storico, non convince altri che sottolineano il carattere non vincolante delle dichiarazioni e delle promesse dei 195 paesi intervenuti. In effetti i meccanismi previsti per il funzionamento dell’accordo sono ancora in via di definizione e la strada da percorrere è lunga.
Gli accordi per contrastare il riscaldamento globale non sono di certo una novità. Nel 1992 durante la Conferenza sullo Stato dell’Ambiente di Rio de Janeiro, organizzata dalle Nazioni Unite, venne riconosciuta per la prima volta la dimensione globale dei cambiamenti climatici e fu ratificata la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Convenzione UNFCCC).
Successive tappe importanti a livello mondiale sono state nel 1997 l’adozione del Protocollo di Kyoto e nel 2002 il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile (WSSD) di Johannesburg.
I Sustainable development goals definiti dalle Nazioni Uniti abbracciano tematiche ulteriori rispetto alla preoccupazione strettamente ambientale: riduzione della povertà e della fame nel mondo, miglioramento delle condizioni di salute, qualità dell’istruzione, uguaglianza tra i sessi e riduzione delle discriminazioni, sviluppo delle energie pulite, tutela del lavoro e crescita economica, industrie e infrastrutture sostenibili, consumo e produzione responsabili, azione climatica, diffusione dei valori di pace e giustizia.
L’Europa ha dimostrato negli ultimi anni una particolare sensibilità alla questione del cambiamento climatico e ha fatto dello sviluppo sostenibile uno dei suoi obiettivi chiave, sia in sede di negoziazione internazionale che nell’impostazione delle politiche comunitarie.
Nel 2010 con “Europa 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” [COM (2010)2020] viene definito un approccio strategico con cui l’Unione Europea si prefigge di favorire la ripresa economica attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dell’innovazione, un’economia più verde e una gestione delle risorse più efficiente e competitiva, la promozione di occupazione e coesione sociale e territoriale.
La sfida consiste nel conciliare il miglioramento del benessere e degli stili di vita con la tutela dell’ambiente: riuscire a soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere quelli delle generazioni future, gestendo in modo più responsabile le risorse naturali e il loro utilizzo.
Per fronteggiare i problemi del riscaldamento globale, dell’inquinamento, dell’esaurimento delle materie prime e dello sfruttamento intensivo delle risorse si deve partire da un cambiamento delle modalità di produzione e consumo. Infatti, anche se inizialmente le politiche ambientali si sono concentrate sulle grandi fonti di inquinamento puntuali – come le emissioni industriali o i problemi relativi alla gestione dei rifiuti – è ormai palese la necessità di adottare a complemento una politica che prenda in considerazione il ciclo di vita del prodotto completo di tutte le sue fasi, evidenziandone gli impatti ambientali, economici e sociali.
Si rende quindi indispensabile un quadro giuridico ed economico in grado di promuovere sviluppo ed acquisto di prodotti più ecologici, che è possibile creare attraverso imposte, sovvenzioni, accordi volontari e normativa sugli appalti pubblici.
Una rivoluzione ecologica necessita infatti della cooperazione tra settore pubblico e privato per favorire l’innovazione verde: solo con l’intervento di uno Stato che sappia agire incentivando scelte sostenibili è possibile realizzare progressi rapidi nelle energie pulite.
Nel processo per rendere l’economia dell’Unione Europea più verde un ruolo decisivo spetta alle amministrazioni pubbliche, la cui spesa per rifornirsi di beni o servizi rappresenta quasi il 20% del PIL dell’Unione. Acquisti più verdi da parte degli enti pubblici possono contribuire ad aumentare la domanda di servizi e prodotti che promuovono un uso efficiente delle risorse, oltre che orientare il mercato verso una maggiore sostenibilità.
Gli Appalti pubblici verdi (Green Public Procurement, GPP) nascono in seno alla Politica Integrata dei Prodotti (Integrated Product Policy, IPP), uno strumento della strategia europea intesa a rafforzare le politiche ambientali sulla produzione in un’ottica di valutazione dell’intero ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA).
L’approccio IPP prevede inoltre il coordinamento tra i vari strumenti ambientali per favorire un miglioramento continuo, la collaborazione con il mercato, il coinvolgimento di tutti gli attori interessati e la molteplicità dei mezzi di azione per indirizzare produttori e consumatori sulla via del miglioramento ambientale.
Processi di produzione più verdi e sistemi di gestione ambientale migliori possono non solo ridurre in maniera significativa l’inquinamento, i rifiuti, il consumo di acqua e di altre risorse, ma si rivelano anche più efficienti economicamente.
Il Green Public Procurement consiste nell’inserimento di considerazioni di carattere ambientale nel processo di acquisto da parte delle pubbliche amministrazioni, che si impegnano a scegliere beni, servizi e opere con un impatto ambientale ridotto e che soddisfino criteri ambientali comuni.
Si tratta di uno strumento di politica ambientale volontario che intende favorire la riduzione degli impatti ambientali e la tutela della competitività, dare stimolo all’innovazione e alla razionalizzazione della spesa pubblica, migliorare l’immagine della p.a. e accrescere le competenze degli acquirenti pubblici, diffondere modelli di consumo e acquisto sostenibili.
La Commissione, promotrice a livello europeo dei GPP, ha selezionato i settori prioritari di intervento, ha predisposto una serie di strumenti di informazione, tra cui il “Manuale sugli appalti pubblici verdi” (Buying green!) del 2011, e ha invitato gli Stati membri ad adottare dei Piani di azione nazionale.
Successivamente, anche sulla scorta di alcune pronunce della Corte di Giustizia, la Direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, la Direttiva 2014/24/UE sugli appalti, e la direttiva 2014/25/UE sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali – il cui recepimento imminente è un’occasione importante per modernizzare il sistema italiano degli appalti pubblici – hanno dato un significativo supporto giuridico al GPP.
Gli appalti verdi sono stati già utilizzati in diversi Paesi dell’Unione ed è quindi possibile e auspicabile approfondire i punti di forza dell’istituto attraverso l’analisi delle good practices. In particolare, il Regno Unito si è dimostrato intenzionato ad assumere un ruolo preminente nell’elaborazione delle strategie pubbliche per lo sviluppo sostenibile.