di Fatima Maria Pizzati
06/11/16
Il cambiamento del clima della terra a seguito di attività umane che, direttamente o indirettamente, hanno alterato la composizione dell’atmosfera planetaria ha reso necessaria l’introduzione di una serie di regole da cui ha preso le mosse l’idea di Emission trading nel contesto dell’Unione Europea e accolta prontamente dalla Commissione. La realizzazione di un sistema di Emission Trading risente del ruolo svolto da parte degli Stati Membri i quali possono occupare una posizione di supporto, opposizione o, addirittura, indifferenza rispetto alla questione. Sin dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, alcuni paesi come Regno Unito, Danimarca e Olanda si sono distinti per le attezioni attribuite agli strumenti di semplificazione previsti e, in particolare, all’emission trading.
A partire dagli anni 90 il Regno Unito ha seguito una linea molto attiva nel campo delle politiche climatiche nazionali e internazionali e il suo impegno è stato consacrato dall’introduzione di un ET domestico, fortemente voluto e sostenuto non solo dal governo, ma anche da parte dell’industria in cerca di una soluzione alternativa a una carbon/energy tax. Nel 1998 il Comitato Consultivo del governo per le imprese e l’ambiente si è pronunciato a favore dell’ingresso di un sistema ET da parte del governo e, l’anno seguente, la British Industry Association ha istituito il c.d Emission Trading Group al fine di realizzare un progetto in grado di garantire il funzionamento del sistema. Una volta completato, il progetto è stato supportato dal Primo Ministro inglese e il suo lancio è stato previsto per il novembre del 2001 anche se, a causa di ritardi, fu operativo solo a partire dall’anno successivo.
L’impegno britannico è apparso chiaro e rilevante, ma legato ai confini nazionali in quanto il Regno Unito, pur potendo utilizzare a tale scopo la posizione di presidenza del Consiglio dei Ministri assunta da gennaio a giugno 1998, non ha mostrato interesse per l’introduzione di un ET a livello comunitario. Le priorità della presidenza inglese furono occupazione, criminalità e ambiente con particolare riguardo al cambiamento climatico e all’inquinamento atmosferico. In merito al cambiamento climatico, una delle questioni principali fu legata all’Emission Trading Scheme nella prospettiva del coinvolgimento di settori privati al fine di creare sistemi nazionali. La presidenza inglese, dunque, si concentrò essenzialmente sull’inquinamento atmosferico e sul settore dei trasporti e non mosse alcun passo per introdurre un EU ETS. La preferenza del Regno Unito per un sistema decentralizzato venne affermata anche nel commento inglese al Libro Verde della Commissione sul cambiamento climatico. Nonostante ciò, il sostegno inglese all’ET fu ugualmente importante per l’influenza che riuscì a esercitare su altri Stati Membri meno favorevoli alla sua introduzione e questo giustifica una riflessione sulle ragioni che hanno permesso al Regno Unito di vestire i panni di capogruppo. Già dai primi anni 90 si è sviluppato un nuovo trend nella politica oltremanica in netta opposizione rispetto all’eredità britannica così il governo ha iniziato a sperimentare accordi volontari e strumenti basati sul mercato al pari di altri paesi. Inoltre, il favore per l’ET fu tanto forte quanto l’opposizione a una carbon tax europea per cui l’insofferenza a una tassazione a livello comunitario ha reso il Regno Unito più disponibile ad aprirsi a strumenti alternativi e sostenuti da gruppi quali la Foundation for International law and development e la Confederation of British Industry.
Secondo solo alla Danimarca, l’Emission Trading Scheme inglese ha preso avvio nell’aprile 2002 e avrebbe dovuto essere operativo sino al 2007. L’introduzione dell’EU ETS ha generato delle tensioni tra l’Europa e il Regno Unito, oppostosi prontamente al sistema comunitario obbligatorio e profondamente diverso rispetto a quello domestico. Il c.d UK ETS includeva i sei maggiori gas a effetto serra e molti ambiti non coperti dall’EU ETS, ma escludeva il settore dell’elettricità e dei generatori di calore; era un sistema volontario in modo da garantire flessibilità e contava ingenti incentivi finanziari per incoraggiare i partecipanti. La prima mossa del Regno Unito fu tentare di convincere la Commisione a sviluppare un modello in linea con quello inglese senza, però, avere successo per cui, in ultima istanza, il governo inglese dovette accettare un sistema differente rispetto a quello elaborato. Per facilitare la transizione dal modello made in UK a quello comunitario, l’art 27 della Direttiva 87/2003/ce ha previsto l’esclusione temporanea di taluni impianti fino al 31 Dicembre 2007 a determinate condizioni e con l’adozione di misure volte a garantire che non vi siano distorsioni del mercato interno. Occorre comunque rendere merito al Regno Unito di avere rispettato anche abbastanza bene le scadenze previste per il primo periodo per l’adozione del NAP- National Allocation Plans nonostante un’estenuante battaglia combattuta con la Commissione per aumentare il suo cap (Skjaerseth, Birger Wettestad/ EU Emissions Trading : Initiation, Decision-making and Implementation/ Routledge March 2008)
Da questa analisi emerge chiaramente come l’impegno britannico contro i cambiamenti climatici sia innegabilmente consacrato non solo dalla primaria creazione di un Emission Trading casilingo, ma anche dall’istituzione del Department of Energy and Climate Change nel 2008 su iniziativa del Labour Party. Tuttavia, rimane da chiedersi quale sarà il futuro di una questione rilevante non solo dal punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale nel regno di Her Majesty all’alba di un evento storico come la Brexit. Il Regno Unito ha assicurato la continuità delle politiche relative ai cambiamenti climatici perciò l’abolizione del Department of Energy and Climate Change tra i primi atti del governo di Theresa May ha rappresentato una shocking new capace di scatenare ire e polemiche. Le competenze sono state spostate al Department for Business, Energy and Industry Strategy e le personalità di maggiore spicco hanno ravvisato in questo gesto un declassamento del climate change che potrebbe portare a una battuta d’arresto del percorso compiuto dal Regno Unito dal momento che un’azione efficace ha bisogno di essere coordinata all’interno di un dipartimento con un’agenza che abbia priorità su questo tema. Di segno opposto risulta il recente intervento alle Nazioni Unite della leader dei Tory la quale ha affermato l’impegno del suo governo nella lotta ai cambiamenti climatici tanto da assicurare la ratifica dell’Accordo di Parigi del 2015 entro la fine dell’anno. Il Regno Unito aveva partecipato alle trattative come membro dell’Unione Europea e dovrà assumere una riduzione delle emissioni sulla base di una ripartizione degli oneri a livello comunitario (Rowena Mason, Adam Vaugh https://www.theguardian.com/world/2016/sep/20/theresa-may-uk-ratify-paris-climate-change-agreement-this-year) Il futuro della lotta ai cambiamenti climatici oltremanica è ad oggi in bilico tra la ritirata e il consolidamento della posizione di leader assunta in precedente e a segnare il capitolo successivo di questa pagina della storia inglese saranno fatti concreti e non solo propositi.