di GIUSEPPINA SEPE
19 Aprile 2017
Gli stranieri non sono solo i “clienti privilegiati” del carcere, ma sono anche i “clienti esclusivi” dei Centri di Identificazione ed Espulsione, rinominati Centri di Permanenza per il Rimpatrio dal decreto-legge 17 febbraio 2017 n. 13[1], approvato in via definitiva il 12 aprile 2017.
In tali strutture, istituite nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano (art. 12 della legge 40/1998), vengono trattenuti i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno in attesa di essere identificati ed espulsi.
In base all’art. 14 del d. lgs. n. 286 del 1998, c.d. T.U. Immigrazione, come successivamente modificato dalla legge Bossi-Fini (Legge n. 189/2002), dal Pacchetto Sicurezza (Legge n. 94/2009) e dal decreto di recepimento della Direttiva Rimpatri (Legge n. 129/2011), il trattenimento viene disposto dal Questore qualora non sia possibile eseguire con immediatezza il provvedimento di espulsione o di respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento; il trattenimento, una volta convalidato in sede giurisdizionale, può avere una durata di trenta giorni, prorogabile sino a novanta ed estendibile, in determinati casi, fino ad un massimo di dodici mesi.
Il trattenimento in questione rappresenta una peculiare forma di detenzione amministrativa in quanto non costituisce l’esito di una sanzione conseguente alla commissione di un reato e non è disposta al termine di un processo penale, ma, di contro, deriva da un mero status di irregolarità dello straniero che si trovi sul territorio nazionale privo dei documenti necessari volti a garantirne un regolare soggiorno, ovvero un ingresso regolare ai valichi di frontiera.
Tale forma di detenzione, da un lato, pur non configurandosi come una forma di espiazione della pena, incide sul diritto all’inviolabilità della libertà
personale, presidiato dall’art. 13 della Costituzione, il cui rispetto deve necessariamente essere garantito a tutti gli individui in quanto esseri umani, siano essi cittadini italiani, europei o stranieri, regolari o irregolari[2]; dall’altro, pur condividendo il carattere tipicamente afflittivo e stigmatizzante delle pene, è sottratta ai principi garantisti del “giusto processo” sanciti all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e trasposti, successivamente, all’art. 111 della nostra Carta Costituzionale.
Per queste ragioni tali strutture sono da sempre considerate una vera e propria anomalia del sistema giuridico detentivo e sono fortemente contestate, tanto dalle istituzioni quanto da organizzazioni non governative, per la loro inidoneità nel tutelare la dignità e i diritti delle persone in attesa di identificazione eventualmente prodromica all’espulsione.
Tralasciando l’acceso dibattito sulla loro utilità ai fini del contrasto dell’immigrazione irregolare, tra le cause delle condizioni inumane e degradanti con cui spesso vengono trattenuti gli stranieri irregolari, vi sono sicuramente i numerosi aspetti critici che riguardano la gestione dei centri stessi.
Innanzitutto, in virtù dell’art. 22 del D.P.R. n. 394/1999[3], l’autorità competente per l’attivazione e la gestione dei CIE (oggi CPR) è rappresentata dalle Prefetture: esse possono amministrare e gestire tali strutture con la possibilità di avvalersi delle prestazioni fornite da enti locali o di altri soggetti pubblici o privati che, a loro volta, possono servirsi della collaborazione di altri enti, associazioni di volontariato, cooperative sociali.
Sin da subito, le Prefetture decisero di assegnare i servizi e le funzioni gestionali di quasi tutti i CIE alla Croce Rossa Italiana e, nelle ipotesi residuali, ad associazioni con comprovata esperienza in campo umanitario.
A tali associazioni di volontariato molte Prefetture erano solite affidare tutte le funzioni amministrative relative ai singoli centri, anche di carattere non umanitario ed assistenziale, comportando il ricorso a una serie di subappalti per l’erogazione di diversi servizi, quali mensa, manutenzione degli impianti e delle strutture, pulizia dei locali ed altri.
Come in più occasioni rilevato dalla Corte dei Conti, l’inefficienza dei servizi erogati era collegata anche all’esistenza di una situazione di monopolio della Croce Rossa Italiana tale da disincentivare il miglioramento delle condizioni nelle strutture.
Per tale ragione, nel 2000, una direttiva generale del Ministero dell’Interno[4] ha previsto il ricorso a procedure concorsuali per la scelta dell’Ente gestore. Gli standard minimi di accoglienza e prestazioni erogabili sono stati specificati nel 2002 dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione[5].
Da ultimo il Ministero dell’Interno, con decreto del 21 novembre 2008, ha previsto uno schema unico di capitolato d’appalto per la gestione dei diversi tipi di centri di accoglienza, fissando i requisiti di cui dovrebbero essere in possesso i potenziali enti gestori, allineando la procedura di aggiudicazione ad una vera e propria gara d’appalto, in conformità alle modifiche apportate al Codice dei contratti pubblici da parte del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163.
Questi interventi embrionali hanno segnato la fine della condizione di monopolio della Croce Rossa Italiana nella gestione dei centri, stimolando la concorrenza tra gli aspiranti gestori, e al contempo hanno contribuito ad innalzare, seppur lievemente, gli standard di accoglienza.
Negli anni, le associazioni che partecipavano alle gare d’appalto si sono trasformate in consorzi costituiti da associazioni, imprese e cooperative sociali con comprovata esperienza in campo umanitario e nella gestione dell’immigrazione irregolare, contribuendo ad abbattere i costi derivanti dai subappalti per l’erogazione di specifici servizi.
Più di recente, il Ministero dell’Interno ha adottato un Regolamento unico (“Criteri per l’organizzazione e la gestione dei CIE”), diffuso con circolare del 25 novembre 2014[6], il quale è andato ad integrare il D.P.R. n. 394/1999 con l’obiettivo di assicurare regole e livelli di accoglienza uniformi per l’organizzazione e per l’erogazione dei servizi.
Tale regolamento prevede, all’art. 4, che i servizi previsti dal capitolato d’appalto che l’Ente gestore deve assicurare ai trattenuti, consistono nel: a) custodire gli affetti e i risparmi personali; b) garantire un servizio di mensa; c) individuare gli alloggi e, ove possibile, riservare uno spazio per richiedenti asilo; d) assicurare l’unità del nucleo familiare ove entrambi i coniugi siano trattenuti; e) assicurare la corrispondenza epistolare e telefonica; f) comunicare ai familiari il trattenimento; g) organizzare attività ricreative; h) assicurare la fornitura di un buono economico di 5 euro ogni due giorni spendibile nel centro.
Il rispetto degli standard minimi dei servizi che il gestore è tenuto a garantire ai migranti, ripropone però una questione molto dibattuta in campo amministrativo, ossia il problema del rapporto tra “controllori e controllati”, accentuato dall’inesistenza, nel caso di specie, di un organo giurisdizionale o pubblico cui rivolgersi per dolersi del mancato rispetto dei diritti garantiti dal regolamento stesso[7].
Ciò ha comportato effetti distorsivi scaturenti in disomogeneità e gestioni inefficienti dell’intero sistema.
Attualmente, le carenze della gestione posso essere fatte risalire alla mancanza di trasparenza e controlli delle procedure concorsuali, derivanti dall’inaccessibilità al pubblico dei verbali di gara, delle spese di gestione, delle convenzioni stipulate successivamente in totale assenza di dati relativi ai servizi effettivamente erogati, il cui accesso risulta negato alla stessa Corte dei Conti che, pur avendo condotto un’inchiesta negli anni 2002, 2003 e 2004, non ha avuto modo di accedere ai dati relativi alle spese e ai costi di gestione sostenuti in tali anni.
L’aspetto più preoccupante è che negli ultimi tempi si è provveduto ad effettuare le gare d’appalto per l’affidamento della gestione dei centri con la modalità a ribasso. È evidente che il bando di gara, avendo ad oggetto, nel caso di specie, servizi alla persona, non può risultare al massimo ribasso perché inevitabilmente la qualità del servizio rischia di non raggiungere il limite minimo per il rispetto della dignità delle persone trattenute.
Con un decreto del Ministro dell’Interno del 7 marzo 2017 è stato approvato un nuovo schema di capitolato riguardante la gestione e la fornitura di beni e servizi nei centri per migranti, redatto anche sulla base del parere dell’Autorità nazionale anticorruzione.
Le principali innovazioni riguardano: la suddivisione dell’appalto in quattro lotti funzionali per singole tipologie di servizi (servizi alla persona; assistenza sanitaria, sociale e psicologica; pasti; pulizia); la tracciabilità dei servizi con l’aggiudicazione dell’appalto all’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata secondo il miglior rapporto qualità/prezzo, premiando la componente qualitativa e scoraggiando gli eccessivi ribassi[8] ; il rafforzamento delle attività di ispezione e monitoraggio del Ministero dell’Interno sugli standard qualitativi dei servizi resi.
Ad ogni modo, quella delle aste a ribasso è stata la tecnica che ha permesso alla società francese Gepsa di diventare uno dei soggetti più attivi nella gestione dell’immigrazione in Italia.
Gepsa, acronimo che sta per “Gestion des établissements pénitentiares services auxiliares”, è una filiale della multinazionale Cofely (società che si occupa di energia e strutture, impianti, istallazioni di sistemi elettrici, tecnologici, informatici), a sua volta appartenente al gigante dell’energia francese Engie, l’ex Gaz de France-Suez, quarto produttore mondiale di elettricità e primo distributore in Europa di gas naturale.
Il colosso francese, dal mercato dell’elettricità è passato a quello dell’accoglienza, scegliendo come braccio operativo la società Gepsa, nata nel quadro del progetto carcerario “Plan 13000”[9] – varato dal governo francese nel 1987 per porre rimedio al sovraffollamento endemico delle carceri – e specializzata nella gestione e organizzazione di servizi in moltissime prigioni. La Francia, a differenza dell’Italia, ha già seguito Stati Uniti e Regno Unito sulla strada della privatizzazione del sistema penitenziario. E Gepsa ha attualmente la gestione di tredici carceri sparse in tutta la Francia, rivendica l’esito positivo anche del lavoro di rieducazione dei detenuti ed è considerata uno dei partner principali dell’amministrazione penitenziaria.
Nelle carceri essa si occupa direttamente, attraverso propri addetti, dei servizi più disparati: manutenzione degli impianti, pulizia delle strutture, cura degli spazi verdi, ristorazione per il personale dipendente e per i detenuti, servizio lavanderia, trasporto dei detenuti, fornitura dei kit giornalieri, servizio di custodia, animazione dei bambini figli dei detenuti e tanto altro.
E con questa esperienza si è presentata nel nostro Paese nell’affare immigrazione, stipulando un accordo con una piccola cooperativa territoriale siciliana, la Acuarinto di Agrigento, vincendo subito il maxiappalto a Milano per la gestione dell’ex CIE di via Corelli, trasformato in centro d’accoglienza.
Nel gennaio 2015 è passata, inoltre, sotto il loro controllo anche la gestione del servizio di accoglienza per i profughi in transito al mezzanino della stazione centrale di Milano; nello stesso mese Gepsa-Acuarinto sono subentrate alla Croce Rossa per la gestione del CIE di Torino, senza dimenticare che nel frattempo hanno sostituito la società Auxilium nella gestione del CIE di Roma- Ponte Galeria.
Al momento dell’arrivo di Gepsa in Italia, diversi media parlarono sbadatamente dell’arrivo di una polizia privata dalla Francia che si sarebbe occupata della gestione e della sicurezza. Niente di tutto questo.
Gepsa, anche quando si occupa di sicurezza, lo fa nei limiti dei compiti svolti, come accade nel maxi-penitenziario di Fleury-Mérogis, il più grande d’Europa, in cui l’azienda si occupa della manutenzione, dell’organizzazione e della gestione dei sistemi di video sorveglianza e di quelli informatici, in cui sono raccolti tutti i dati relativi a detenuti ed ex-detenuti. In alcune circostanze si occupa, altresì, del trasporto dei detenuti, coadiuvata dalla polizia.
Ma in Italia il ruolo di Gepsa non è legato a ciò che s’intende comunemente per sicurezza, perciò non svolge funzioni di controllo e repressione nei centri in cui opera. Tale compito resta appannaggio della forza pubblica.
Il sistema delle aste a ribasso, però, ha permesso a Gepsa e ai suoi soci di diventare il principale gestore dei CIE italiani (si pensi, ad esempio, che per Ponte Galeria si spendono circa 28 euro a persona al giorno, a fronte dei 41 euro del precedente appalto) facendo sorgere, al contempo, numerosi interrogativi sul significato della sua presenza nel panorama italiano. In particolare:
1)Perché aprire le porte proprio ad un colosso della carcerazione?
Probabilmente la risposta sta nell’efficienza che un’esperta nella gestione delle carceri può assicurare.
Ma la vittoria di numerosi appalti da parte dei francesi specializzati in carceri rischia di alzare un lungo velo di ipocrisia, in quanto rende inevitabile l’assimilazione tra la detenzione dello straniero in appositi centri e la reclusione in carcere. Assimilazione, questa, che gli stati hanno sempre tentato di scongiurare, finanche nella semantica dei luoghi di trattenimento.
Il nomen juris delle strutture per immigrati irregolari ha subìto, infatti, diverse trasformazioni, tutte volte ad enfatizzare gli aspetti umanitari e dell’accoglienza e a negare, di converso, il carattere detentivo della misura.
Tuttavia, a questo proposito, si è parlato di “mimetismo istituzionale”, “edulcorazione semantica”, “acronimi e falsi nomi” e di “accattivante definizione legislativa, impropria e fuorviante”.
È possibile allora che gli stati, attraverso un escamotage semantico, abbiano voluto in realtà sottrarsi al sistema di vincoli e garanzie che le costituzioni contemporanee e i trattati sovranazionali e internazionali impongono ogni volta che si incide sulla libertà personale degli individui?
2) Per le aziende come Gepsa, il mercato italiano della carcerazione necessita di una profonda rivoluzione giuridica, un cambiamento che lo avvicini ai modelli liberali anglosassoni o perlomeno al modello misto francese.
E sicuramente leggi repressive e draconiane sono ben viste dalle grandi aziende carcerarie in quanto, assicurando la pienezza delle strutture, alimentano il business carcerario.
È possibile allora che, dopo aver captato consensi in settori subalterni alla carcerazione ma ad essa prossimi e somiglianti, l’obiettivo della multinazionale francese sia quello di inserirsi nel mercato italiano del sistema penitenziario, ancora sottoposto ad un modello chiuso economicamente e ristretto dal controllo statale?
Quale che sia la risposta a questi interrogativi, la presenza di Gepsa nel panorama italiano dovrebbe destare una forte attenzione.
[1] Cd. “Decreto Minniti”, recante “disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale“.
Il provvedimento introduce numerose novità, tra cui: la nascita di nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio in ogni regione (per un totale di 1600 posti), l’istituzione nei tribunali ordinari di 26 sezioni specializzate in materia di immigrazione, l’abolizione dell’udienza, la soppressione del grado di appello, la riduzione dei tempi per la richiesta d’asilo e la possibilità per i richiedenti di svolgere lavori di pubblica utilità gratuiti e volontari.
[2] L’art. 2, c. 1, T.U. Imm., dispone che: “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”.
[3] Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
[4] Min. Int., Direzione centrale dei Servizi Civili, Roma, 14 aprile 2000, Prot. n. 2061/50, Direttiva generale in materia di Centri di permanenza temporanea e assistenza.
[5] Min. Int., Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, Roma, 27 novembre 2002, Prot. n. 3154/DCS 11.6, Le Convenzioni tipo e ‹‹linee guida›› per la gestione dei Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPT) e di Centri di Identificazione (CID, già centri di accoglienza).
[6] È evidente che un regolamento diffuso mediante una semplice circolare ministeriale, fonte amministrativa secondaria gerarchicamente subordinata alla legge ordinaria, non risulta rispettoso della riserva di legge assoluta prevista dall’art. 13 della Costituzione.
Le condizioni generali del trattamento penitenziario dei detenuti ordinari, invece, sono puntualmente disciplinate dalla L. n. 354 del 1975 e, per tutto ciò che non è previsto, provvede l’apposito regolamento approvato con D.P.R. n. 230/2000.
[7] È prevista infatti l’istituzione da parte del Prefetto di un servizio di segnalazione riconosciuto ai migranti, gestito però dallo stesso Ente, il quale dovrà riportare eventuali mancanze (proprie) segnalate dagli “ospiti” (art. 8).
[8] Quella dell’offerta economicamente più vantaggiosa è la regola generale per l’affidamento dell’appalto prevista, all’art. 95, dal nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50/2016.
Il comma 4 del medesimo articolo limita il criterio del minor prezzo ai lavori di importo pari o inferiore ad un milione di euro nonché ai servizi e alle forniture con caratteristiche standardizzate o caratterizzate da elevata ripetitività.
[9] Il progetto prevedeva la creazione di nuove carceri e l’ampliamento di altre già esistenti, per un totale di 13.200 nuovi posti e l’apertura del mercato della carcerazione ai privati e ad aziende specializzate nella gestione delle prigioni.
Fiutato l’affaire, Cofely fa nascere una sua nuova branca: Gepsa appunto. È noto quindi come, in Francia, l’apertura del mercato carcerario ai privati si è verificata in una situazione emergenziale, di sovraffollamento carcerario, che ha permesso, come spesso accade, di legiferare senza troppi problemi.