Fatima Maria Pizzati
16 Marzo 2017
Descritto dalla Commissione come la base della strategia europea nella lotta contro il riscaldamento globale, il c.d EU ETS ( European Union Emissions Trading Scheme) è il più ampio mercato al mondo nel suo genere e ha permesso di evidenziare sia le insidie sia i vantaggi che ha comportato il passaggio della regolazione dalle mani del potere pubblico a quelle del mercato non nascondendo una duplice natura pubblico-privata. I risultati raggiunti a livello comunitario hanno ispirati altri Paesi come Australia e California che si sono dotati di un sistema di scambio di quote operativo rispettivamente a partire dal 2015 e dal 2013. Tuttavia, mentre l’Australia ha configurato i diritti di emissioni quali diritti di proprietà, la California ha espressamente negato questa possibilità. Appare evidente come il protagonista indiscusso del sistema sia rintraciato nel diritto e emettere in atmosfera sostanze inquinanti ed è, dunque, necessario analizzare dal punto di vista legale quali sono le ragioni che permettono di giungere a risultati classificatori differenti. La letteratura accademica esistente in materia di ETS è incentrata prevalentemente sul suo studio quale strumento di protezione dell’ambiente e, di contro, la definizione dei diritti di emissione ha ricevuto scarsa attenzione. Tuttavia, la rilevanza della natura dei suddetti diritti è stata riconosciuta in prima battuta da professionisti operanti nel settore dei contratti commerciali e, inoltre, essa viene definita all’interno dell’Acid Rain Program americano. In particolare, lo stesso è stato istituito dal Congresso con la modifica del Titolo IV del Clean Air Act Amendments del 199o il quale si è proposto l’obiettivo di ridurre entro il 2010 le emissioni di NOX (ossido di azoto) di 2 milioni di tonnellate attraverso un approccio regolamentare e quelle di SO2 (biossido di zolfo) di 10 milioni rispetto ai livelli del 1980 attraverso un programma di scambio di diritti di emissione. Il titolo IV stabilisce che i permessi distribuiti alle imprese non rappresentano property rights e che il potere degli Stati Uniti di limitare o ritirare gli stessi non può essere ridotto. È evidente che il Congresso americano, in tal modo, ha voluto assicurare la possibilità di ridurre i permessi in circolazione in ragione della necessità di raggiungere i risultati ambientali (anche a seguito del progresso tecnologico e della scienza) senza temere di dovere indennizzare le imprese per aver espropriato i loro permessi di emissione. Nonostante tale definizione, la giurisprudenza ha rinosciuto alcune caratteristiche che avvicinano le quote di emissione ai diritti di proprietà. Specificamente, è possibile richiamare il caso Ormet Primary Aluminium Corporation v. Ohio Power Company del 1996 (Ormet corp. V. ohio Power co. 1996, 98 F.3d 799, 27 ELR 20302.): si tratta di un ricorso proposto da parte di un consumatore di energia elettrica per ottenere le quote di emissione stanziane dall’Environmental Protection Agency per la Generating Station Kammer. Ormet Corporation, un produttore di alluminio, ha citato in giudizio Ohio Power Company, una società elettrica, nonché le società affiliate e il personale e l’amministratore della Environmental Protection Agency- EPA, affermando che, in ragione del loro accordo contrattuale rispetto all’impianto Kammer, Ormet è diventata comproprietaria dell’impianto sotto il Clean Air Act ed è quindi in diritto a una parte proporzionale delle quote di emissione. Il caso pone la lente d’ingrandimento sulla possibilità di affermare l’esistenza di un diritto di proprietà su determinate quote di emissione. Tuttavia, la Corte ha ribadito che tali quote non si configurano come property rights in quanto possono essere negoziate all’interno del mercato al pari di ogni altra merce e ha aggiunto che le liti tra i titolari delle quote devono essere trattate al pari dei contenziosi tra privati, vale a dire davanti alle corti federali e senza il coinvolgimento dell’EPA. Questa presa di posizione suggerisce che le dispute in questione, pur non avendo ad oggetto diritti di proprietà, siano effettivamente trattate come controversie tra proprietari. Ciò chiarisce l’intenzione del legislatore statunitense di configurare i permessi di emissione come commodities: possono essere comprati e venduti ma non costituiscono property rights. Nella stessa pronuncia, inoltre, è stata evidenziata la necessità di predisporre una disciplina uniforme che regoli la natura e la titolarità dei permessi in modo da scongiurare differenti interpretazioni tra Stati che potrebbe dar vita ad incertezze nel mercato e vanificare l’efficacia del sistema. Non è chiaro fino a che punto l’EPA possa ridurre i permessi in circolazione. La legge sembra autorizzare l’Agenzia a determinare il numero di permessi necessari per migliorare la qualità dell’aria e le attribuisce la possibilità di ridurli in maniera proporzionale presso ciascun detentore se necessario per garantire che non venga superato il tetto massimo. La previsione di una facoltà di manovra così estesa potrebbe incidere negativamente sullo sviluppo del mercato: gli operatori, invero, potrebbero ritenere troppo azzardato l’investimento nell’acquisto dei permessi laddove vi sia un alto rischio di confisca e, soprattutto, ove manchi un indennizzo. Onde evitare un effetto depressivo, già sperimentato nei primi anni di applicazione del sistema emissions trading, l’EPA ha espresso la sua intenzione di trattare i permessi di emissione come effettivi property rights, salvo in circostanze eccezionali per cui, fino ad ora, il rischio di confisca è apparso remoto.
Nel delineare il sistema di Emission Trading, il legislatore comunitario ha tralasciato di indicare la natura giuridica dei diritti di emissione provocando così una lacuna di non poca rilevanza: dalla sua determinazione dipendono le
modalità di trasferimento delle quote, le garanzie che possono essere istituite sulle stesse, il trattamento contabile e fiscale nonché la revoca ed il ritiro delle quote. Le implicazioni che derivano dall’assenza di una definizione legale dei diritti di emissione emergono da esperienze concrete di cui è esempio emblematico il c.d caso Corus. Produttore leader di acciaio e alluminio in Europa, il Gruppo Corus (successivamente divenuto Tata Steel) ha dato luogo alla vendita di un proprio impianto che era stato messo fuori servizio prima della vendita, pur continuando a ricevere un consistente numero di quote di emissioni in quanto coperto dall’EU ETS. Il colosso del settore siderurgico puntava a incassare le quote e a trasferirle all’acquirente affinchè quest’ultimo ne potesse beneficiare. Tuttavia, di fronte alla poco definita natura giuridica delle quote di emissione, non era chiara l’ammissibilità di questa forma di trasferimento. In linea di principio, l’impianto messo fuori servizio prima della vendita ha ricevuto più quote rispetto alle sue esigenze produttive. Tuttavia, il governo britannico ha dichiarato che l’impianto avrebbe dovuto mantenere le sue quote di emissione per il 2010 in quanto già assegnate e costituenti “proprietà di Corus”. Espressione, tra l’altro, suscettibile di critiche a causa del riferimento alla proprietà. La scelta del governo inglese di non cancellare le quote in eccesso avrebbe indicato la volontà di non interferire con gli strumenti regolatori che hanno dato luogo effettivamente a diritti di proprietà privata in mano a singoli proprietari.
La posizione assunta dai singoli Stati membri di fronte alla dubbia natura delle quote di emissione è stata differente: in particolare, l’ordinamento italiano non si è preoccupato molto della questione, limitandosi a riproporre la definizione comunitaria alla luce della quale le quote di emissione rappresentano “il diritto ad emettere una tonnellata di biossido di carbonio equivalente nel primo periodo di riferimento o nei peridi di riferimento successivi” ( art. 3 lett. p) del D.lgs. 216/2006). I pochi autori che si sono soffermati ad analizzare lo strumento si sono limitati a evidenziare l’origine pubblica delle quote di emissione e a inquadrarle nell’ambito delle autorizzazioni o concessioni amministrative, muovendo dal presupposto che le stesse attribuiscano la proprietà dell’aria. Per quanto riguarda il legislatore britannico, quest’ultimo, pur richiamando la lacunosa definizione comunitaria, ha concesso ampio spazio alle corti sul punto. Indicazioni sulla possibile qualificazione delle quote di emissione potrebbero essere ricavate dalla decisione della Court of Appeal del 1999 con cui è stata riconosciuta la natura di property rights alle autorizzazioni al deposito di rifiuti. Invero, un parallelo tra rifiuti e emissioni sembrerebbe possibile in quanto entrambe costituiscono un prodotto residuale involontario di un’attività e sono dotati di valore economico. Tuttavia, la qualificazione delle quote come property rights non è stata condivisa dal DEFRA e da parte della dottrina in quanto contrastante con il diritto riconosciuto agli Stati di ritirare le quote di emissione in circolazione: la qualificazione delle quote come property rights comporterebbe l’estensione alle stesse della protezione prevista dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e dallo Human rights Act del 1998 che ha incorporato i principi CEDU nell’ordinamento del Regno Unito, per cui lo Stato non potrebbe ritirare le quote di emissione in circolazione se non in conformità con l’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione secondo cui nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa della pubblica autorità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Tale presa di posizione non risulta comunque essere completamente condivisa da parte della dottrina.
In conclusione, è interessante evidenziare i tentativi di confronto tra i diritti di emissioni del regime EU ETS e il c.d EU Milk Quotas, inserito tra le misure utilizzate dagli Stati Membri per intervenire sull’agricoltura. Il regime è stato introdotto nel 1984 e le quote sono state ritirate definitivamente il 31 marzo 2015. Il parallelismo con il sistema EU ETS si giustifica in base al fatto che vengono concessi diritti a privati su risorse pubbliche in modo simile a quanto accade per le quote di emissioni con la differenza che, in questo caso, è la fornitura dell’elemento “latte” ad essere limitata all’interno del mercato nonostante il sistema di scambio di quote risulti essere più articolato ( Sabina Menea, Defining emissions Entitlemnts in the Constitution of the EU Emissions Trading System).