6 novembre 2024
a cura di Federica Micarelli
Con la decisione 7 maggio 2024 n. 105, depositata a giugno, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sulla legittimità di misure governative volte ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro degli stessi da parte dell’autorità giudiziaria. Un caso in cui la Consulta si è nuovamente occupata della possibile interferenza tra potere amministrativo e giudice penale, da tempo al centro del dibattito in materia di tutela dell’ambiente.
Nello specifico, la sentenza riguarda il nuovo comma 1 bis.1 dell’art. 104 bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, introdotto dal decreto legge 5 gennaio 2023, n. 2 (recante Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale, c.d. decreto Priolo), destinato a regolare la situazione degli impianti siderurgici di Priolo Gargallo, in Sicilia, e i poteri spettanti al giudice penale. Il comma in questione disciplina il sequestro preventivo e la conseguente amministrazione di stabilimenti industriali dichiarati di interesse strategico nazionale, attribuendo al giudice penale poteri prescrittivi, tra cui l’interdizione dell’attività produttiva nel caso in cui dalla prosecuzione possa derivare un concreto pericolo per la salute o l’incolumità pubblica ovvero per la salute o sicurezza dei lavoratori.
In particolare, il quinto periodo del suddetto comma, oggetto dell’ordinanza di rimessione, obbliga il giudice penale ad autorizzare la prosecuzione dell’attività se, nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale, sono già state adottate misure per bilanciare da una parte le esigenze di continuità produttiva e salvaguardia dell’occupazione e dall’altra la tutela della sicurezza, della salute e dell’ambiente. Il giudice penale sarebbe dunque vincolato anche quando, a suo giudizio, queste misure risultino del tutto insufficienti. In pratica, questo gli precluderebbe qualsiasi potere di sindacare, inibire o anche solo condizionare l’attività produttiva a determinate prescrizioni nel bilanciamento degli interessi in gioco.
La vicenda si iscrive nella più ampia indagine per disastro ambientale ipotizzato a carico di varie aziende petrolchimiche operanti nell’area siracusana tra Augusta, Priolo e Melilli. Il sistema di depurazione presente negli impianti sarebbe inidoneo alla depurazione di rifiuti industriali, vista la mancanza di adeguati sistemi di pretrattamento e/o prevenzione di possibili effetti inattesi.
Ciononostante, il decreto Priolo, approvato a febbraio 2023, andando nella direzione opposta, aveva imposto alle imprese di raffinazione di idrocarburi, che gestiscono attività di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, di garantire la continuità produttiva. Oltre a ciò, aveva autorizzato il Governo, in caso di sequestro degli impianti, a adottare adeguate “misure di bilanciamento” (tramite decreti ministeriali o interministeriali, come nel caso di specie) al fine di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionali e l’occupazione. Di fatto, le attività potevano continuare nonostante le problematiche ambientali e di salute.
La questione di legittimità che ha dato origine alla decisione della Consulta è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari di Siracusa il quale, dopo aver disposto il sequestro preventivo dell’impianto di Priolo Gargallo e aver nominato un amministratore giudiziario, lamentava di dover comunque autorizzare la prosecuzione dell’attività, conformemente a quanto previsto dal decreto Priolo (in particolare, ex art. 6). Il GIP aveva infatti riscontrato la pericolosità della produzione in relazione alla vita, alla salute umana e all’ambiente e l’assenza di misure di miglioramento per risanare la situazione ambientale creatasi, nonché il contrasto con il programma di scarico delle acque disposto dall’amministratore giudiziario.
In particolare, nell’ordinanza a quo rilevava la violazione degli artt. 2 e 32 Cost., con riferimento alla vita e alla salute umana, e degli artt. 9 e 41 Cost., in riferimento all’ambiente, per come modificati a seguito della legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1.
La lettura del GIP è stata condivisa dalla Corte, che ha dichiarato la parziale illegittimità della disposizione, nella parte in cui non prevede che le misure indicate, e dunque la prosecuzione della produzione, si applichino per un tempo non superiore a trentasei mesi, ossia per un periodo condizionato. Trascorsi questi mesi, vanno necessariamente ripristinate le condizioni di sicurezza ed eliminate le criticità che hanno portato al sequestro dell’impianto. Il decreto Priolo, dunque, sarebbe illegittimo perché non stabilisce queste tempistiche. La Consulta, così facendo, ha trasformato in disciplina interinale ciò che il legislatore aveva invece previsto senza limite alcuno, nel tentativo di salvare la disposizione censurata tramite un’interpretazione adeguatrice.
Da un lato, la Consulta ha sostenuto la legittimità della possibilità per il Governo di dettare direttamente, in una situazione di crisi, ma in via provvisoria, misure che consentano di assicurare la continuità produttiva in uno stabilimento di interesse strategico nazionale, limitando il più possibile i rischi per l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il punto di partenza, dunque, non è del tutto contrario all’imposizione di un vincolo al sindacato del giudice penale quando sono presenti misure amministrative che bilancino gli interessi in gioco. Dall’altro lato, però, queste misure devono comunque “tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinato dall’attività delle aziende sequestrate”, e non invece “a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni” (Corte costituzionale, n. 105/2024).
La decisione si inserisce in un’ideale partita a scacchi che sempre più spesso giocano Amministrazione e giudice penale, soprattutto in un terreno, quale la tutela ambientale, così a cavallo fra i due poteri.
Fino a qualche tempo fa, in quest’ambito, il rapporto tra tutela amministrativa e penale era descritto in termini di accessorietà della seconda alla prima: il diritto amministrativo regolava in toto la materia ambientale, e l’azione penale si spingeva fino alle soglie del provvedimento amministrativo senza tuttavia esprimere un giudizio sulla gestione amministrativa del problema ambientale. Al contrario, oggi questo paradigma è stato progressivamente eroso: le procure e i giudici penali rappresentano sempre più attori emergenti e in via di espansione nella definizione delle priorità e delle modalità della tutela ambientale.
La legittimazione della Pubblica Amministrazione in materia, com’è noto, trova un aggancio fondamentale nelle competenze e nell’expertise di cui questa è dotata, funzionali ad un adeguato, forse il più adeguato, bilanciamento di interessi, espressione della sua ampia discrezionalità amministrativa. Dall’altra parte, si è assistito invece alla creazione di un vero e proprio diritto penale dell’ambiente, soprattutto in un’ottica europea, tramite la creazione di fattispecie autonome di reato volte a sanzionare azioni che possono provocare danni ambientali.
Il frutto che se ne è ricavato è stato un sistema binario e integrato, in cui l’azione penale interferisce con l’azione amministrativa, sia in fase di formazione del provvedimento, sia in quella di attuazione. Il diritto penale nella tutela ambientale è ora autonomo e a tutti gli effetti convive, su un piano di quasi parità, con il diritto amministrativo.
La vicenda in oggetto, non a caso, riprende idealmente alcuni elementi originati dal noto caso Ilva, una pronuncia cardine quando si discute della sovrapposizione tra tutela amministrativa e penale dell’ambiente. Per questo, il confronto del caso Priolo con il precedente caso Ilva è stato inevitabile. In particolare, la sentenza della Corte costituzionale n. 85/2013, che ha cercato di mettere un primo punto alla vicenda di Taranto, ha rappresentato un riferimento naturale nelle motivazioni della Consulta, per le evidenti analogie tra le questioni oggetto dei due giudizi. I decreti “salva Ilva” (d.l. 3 dicembre 2012, n. 207 e d.l. 4 luglio 2015, n. 92), come nel caso Priolo, operavano infatti un necessario bilanciamento tra esigenze di continuità dell’attività produttiva e salvaguardia dell’occupazione e sicurezza sul luogo di lavoro, salute e ambiente salubre.
Nonostante ciò, la Consulta ha operato un distinguishing rispetto alla sent. 85/2013, nella quale aveva ritenuto costituzionalmente legittima la scelta del legislatore di consentire la prosecuzione dell’attività produttiva per un arco limitato di tempo (appunto, trentasei mesi). Il tutto sotto il controllo delle Autorità competenti e sulla base di un’AIA di riferimento, contenente prescrizioni e un programma di risanamento ambientale cui il potere esecutivo doveva attenersi, soluzione che la Corte avrebbe ritenuto preferibile anche nel caso Priolo. In quest’ultimo caso, infatti, si è operato invece un rinvio sostanzialmente in bianco a “misure”, non meglio specificate, adottate dal governo in successivi decreti ministeriali.
Il suddetto distinguishing è stato poi effettuato anche alla luce dei mutati parametri costituzionali coinvolti. Infatti, nella sentenza n. 105/2024, la Corte ha dato applicazione ai riformati artt. 9 e 41 Cost. Si tratta della prima sentenza in materia dopo la novella costituzionale che ha conferito rilevanza e costituzionalizzato la tutela dell’ambiente, prevedendola come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività. L’ambiente, nelle parole della Corte, viene considerato come bene in sé, autonomo rispetto alla salute umana, che invece spesso rappresentava l’aggancio giurisprudenziale per tutelarlo.
La questione rimane ancora una volta quella di trovare un punto di equilibrio non solo tra esigenze ed interessi contrapposti, ma anche nelle tensioni tra le autorità competenti ad effettuare questo delicato bilanciamento. Agli occhi di molti, infatti, questa pronuncia alimenta l’acceso dibattito tra i difensori di una tutela ambientale tradizionale, ad opera dell’autorità amministrativa, e quelli di una tutela che comprenda anche, ormai su un piano di parità, l’intervento dell’autorità giudiziaria.
La decisione, di certo, rischia di invadere il recinto della discrezionalità dell’Amministrazione, da sempre protagonista delle scelte in materia. Il giudizio penale, infatti, opera esso stesso un bilanciamento di interessi che potrebbe essere alternativo e sostitutivo di quello amministrativo, rendendo così il provvedimento instabile e incapace di fissare un equilibrio duraturo. In questo modo, non si raggiunge l’obiettivo di checks and balances tra i vari poteri dello Stato, ma si crea un conflitto tra Amministrazione e potere giudiziario, delegittimante per entrambi, di cui a farne le spese sono gli interessi coinvolti, come nel caso di specie.