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Better safe than sorry – La prevenzione nella “legge Severino” alla luce della dir. MEF 25 agosto 2015 sulle società partecipate

di Alessandro Mura

22/11/15

1) Introduzione: considerazioni generali; quadro normativo e problemi interpretativi
1. Nella disciplina di comportamenti devianti, una strategia moderna ed efficace non può prescindere da un calibrato sistema di tutela preventiva. Ciò diviene di fondamentale importanza nell’attuale società del rischio, caratterizzata dal moltiplicarsi, in ogni ambito dell’agire umano, di attività, operatori e collegamenti sociali: la sola tutela repressiva può infatti risultare intempestiva, perché realizzata dopo anni dal compimento del fatto illecito; tardiva, perché interviene quando il fatto e le sue eventuali conseguenze dannose si sono ormai realizzate; addirittura inesistente, perché, specialmente con riguardo al settore penale, le lungaggini e la complessità dei processi possono rendere il fatto non più punibile per l’intervento di cause di estinzione del reato.
2. Il dilagare di fenomeni corruttivi ha posto il legislatore davanti all’evidenza che un sistema incentrato solo sulle figure delittuose previste dal Libro II, Titolo II, Capo I del Codice Penale risultava ormai insufficiente a garantire standards minimi di tutela.
Sotto la pressione dell’opinione pubblica e per attuare la Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, la l. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. Legge Severino) è quindi intervenuta su due piani paralleli: da un lato, i commi 75, 76 e 77 dell’art. 1, allo scopo di rendere più efficiente il sistema repressivo penale, hanno modificato le più rilevanti tra le fattispecie delittuose del c.p. e l’art. 2635 c.c. (ora rubricato “corruzione tra privati”) ed hanno ampliato il novero dei reati presupposto di responsabilità amministrativa da reato dell’ente ex artt. 25 e 25ter d.lgs. 231/2001; dall’altro, si è predisposto un articolato sistema di prevenzione su più livelli basato sulla collaborazione tra vari soggetti, sia istituzionali (ad es. l’Autorità Nazionale Anticorruzione, il Dipartimento della Funzione Pubblica, gli enti pubblici controllanti società di diritto privato), sia privati (enti di diritto privato controllati da enti pubblici).
3. Il sistema preventivo prevede che il Dipartimento per la Funzione Pubblica predisponga un Piano Nazionale Anticorruzione [art. 1, co. 4 lett. c)], successivamente approvato dall’ANAC [art. 1, co. 2, lett. b)] e che, sulla base di finalità, obiettivi, strategie e direttive indicate dal Piano ogni amministrazione pubblica nomini un Responsabile per la Prevenzione della Corruzione che definisca il Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione (di seguito, PTPC) per attuare a livello decentrato, attagliandosi alle peculiari esigenze strutturali di ciascun ente, gli obiettivi indicati dalla legge.
La necessità di una tutela decentrata può essere compresa alla luce della enorme eterogeneità dei soggetti destinatari del PNA, individuati dal paragrafo 1.3 dell’attuale Piano:
• Tutte le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165;
• Regioni, enti del Servizio Sanitario Nazionale, enti locali e ad essi collegati;
• Personale delle Forze Armate, di Polizia, di carriera diplomatica e prefettizia;
• Professori e ricercatori universitari;
• Enti pubblici economici;
• Enti di diritto privato in controllo pubblico, società partecipate e quelle da esse controllate.
4. Problemi di natura interpretativa sono sorti specialmente riguardo l’ultima di queste categorie su tre argomenti di carattere generale, fondamentali per l’applicazione della normativa: la ratio dell’inclusione di questi enti nel novero dei destinatari degli obblighi ex PNA nonostante la loro natura privata; la definizione di “controllo pubblico” necessaria e sufficiente a rendere un ente privato destinatario della normativa, dal momento che alcuni ritenevano fosse sufficiente una qualunque partecipazione, altri una partecipazione qualificata; il rapporto tra il Piano TPC (ex l. 190/2012) e il c.d. Modello 231 (per la prevenzione dei reati commessi in vantaggio dell’ente ex d.lgs. 231/2001), poiché si potrebbe sostenere la superfluità del primo per quegli enti che abbiano già efficacemente predisposto il secondo.
5. Per superare questi (ed altri) rilevanti dubbi interpretativi si sono attivati alla fine di dicembre 2014, coerentemente con quanto disposto dall’art. 1, co. 60 della l. 190/2012, l’Autorità Nazionale Anticorruzione e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. La prima ha pubblicato uno schema di delibera in base al quale ha preso avvio una procedura di consultazione on-line, durata fino al 15 aprile 2015, per tracciare le Linee Guida per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla Legge 190/2012 da parte delle società controllate e partecipate. Al termine della consultazione l’ANAC ha emanato la Determinazione n. 8 del 17 giugno 2015, recante «Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici». L’Autorità precisa che le Linee Guida “sostituiscono, laddove non compatibili, i contenuti del PNA” [Linee Guida ANAC, p. 5], ponendosi come atto speciale rispetto al Piano redatto dal Dipartimento per la Funzione Pubblica.
Il MEF ha poi emanato in data 25 agosto 2015 una direttiva contente indirizzi per l’attuazione dei suddetti obblighi nell’ambito di società da esso stesso partecipate.
I due atti rispondono agli interrogativi di ordine generale sopra posti con soluzioni sostanzialmente concordi, che andremo ora ad esaminare. Rendono inoltre più concreto il contenuto degli specifici obblighi esecutivi enucleando quali devono essere le attività del Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e i contenuti minimi del Piano Triennale, argomenti che potranno essere trattati in un’altra sede.
2) La ratio della disciplina
6. Un importante quesito preliminare concerne l’opportunità o meno della scelta legislativa di includere gli enti privati in controllo pubblico nell’ambito di un intervento di contrasto alla corruzione. Il quesito nasce perché, procedendo con un approccio prettamente formale, non è per definizione ravvisabile negli enti privati un interesse pubblico tale da vincolarne le scelte organizzative, operative e gestionali: il privato può quindi, in genere, stipulare contratti per beni e servizi che liberamente seleziona, scegliere la controparte contrattuale discrezionalmente, valutare in modo autonomo qual è il valore delle prestazioni che riceve e, nel fare ciò, può praticare tutte le discriminazioni che preferisce, per quanto odiose possano sembrare.
7. È di tutta evidenza, tuttavia, che la non sussistenza di un interesse pubblico nel modo in cui detti enti operano rimane solo sulla carta, come un velo formale che è opportuno, entro certi limiti e al ricorrere di requisiti ben determinati, squarciare.
Sia le Linee Guida ANAC [Premessa] che la direttiva MEF [Par. 2.1, fine] chiariscono che anche per queste società sussiste un interesse di natura pubblica, indicando le ragioni di questo approccio: innanzitutto non si tratta di una scelta legislativa inedita ma inserita in un flusso coerente di provvedimenti volti a garantire criteri di allineamento all’interesse pubblico delle condotte degli enti privati sotto il controllo pubblico (cfr. l’art. 1, co. 49 e 50 della l. 190/2012 in materia di conferimento degli incarichi dirigenziali); spesso enti di diritto privato sono costituiti dalle pubbliche amministrazioni per l’esercizio di servizi di interesse pubblico senza che le dette amministrazioni perdano comunque il controllo della gestione del servizio (come accade, ad esempio, con la costituzione delle cc.dd. società in house); infine, indipendentemente dalla natura giuridica, si tratta di enti controllati da amministrazioni pubbliche che si avvalgono anche, se non esclusivamente, di risorse pubbliche per l’espletamento dei propri compiti.
8. Risulta quindi sensata e auspicabile, in linea di principio, un’inclusione degli enti privati sottoposti a controllo pubblico tra i soggetti destinatari della l. 190/2012.
Questa soluzione complica ulteriormente il problema: sarà infatti necessario stabilire entro quali limiti si può ritenere che un ente privato sia “permeato dall’interesse pubblico” tanto da poter essere considerato, ai fini di questa disciplina, alla stregua di una pubblica amministrazione.
3) Gli enti destinatari della l. 190/2012: gli enti privati controllati dallo Stato e la distinzione tra società controllate e partecipate
9. Riguardo gli enti soggetti alla disciplina, le Linee Guida e la direttiva del MEF compiono una necessaria opera di concretizzazione degli enunciati normativi contenuti nella l. 190/2012, che adotta la formula generale di “soggetti di diritto privato sottoposti a controllo di Regioni, enti locali e enti pubblici”. Bisogna infatti tenere a mente che ogni obbligo di legge rappresenta un costo di compliance per il destinatario in termini organizzativi e di attività; un’estensione della normativa generalizzata e indiscriminata può quindi moltiplicare i costi di attuazione da parte degli operatori e rischiare di vanificare gli scopi preventivi che il legislatore intende realizzare.
10. Innanzitutto, le Linee Guida puntualizzano che, nonostante non si rinvenga nella legge una disposizione specifica, vanno ritenuti inclusi tra i soggetti destinatari della normativa anche gli enti privati sottoposti al controllo dello Stato [par. 2.1]: ciò in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di legge alla luce del principio di ragionevolezza, che impedisce ingiustificate distinzioni in base al “rango” del soggetto controllante, e del principio di proporzionalità, che impone a fortiori l’inclusione degli enti sottoposti al controllo dello Stato in una legge di carattere generale che include soggetti controllati da Regioni ed enti locali.
11. Così individuato un quadro di potenziali destinatari della normativa, la direttiva MEF passa ad analizzare in concreto la situazione delle società di diritto privato di cui lo stesso Ministero detenga una partecipazione.
Al riguardo, nel solco di quanto già affermato dalle Linee Guida [par. 2], viene introdotta una fondamentale distinzione tra società direttamente o indirettamente controllate e società solo partecipate. Le prime consistono nelle società individuate ai sensi dell’art. 2359, co. 1, numeri 1 e 2 del codice civile, ovvero quelle nei cui confronti il MEF esercita un controllo di diritto (è titolare di azioni alle quali corrisponde la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria) o di fatto (è titolare di azioni che garantiscono voti sufficienti ad esercitare un’influenza dominante sulla società). Queste società sono ritenute sia nelle Linee Guida ANAC che nella dir. MEF le vere e proprie destinatarie degli obblighi dettati dalla l. 190/2012 nella parte in cui parla di “enti privati sotto il controllo pubblico”: la pubblica amministrazione controllante, capace di determinare da sola la politica societaria, potrà infatti orientare le determinazioni assembleari in modo che queste perseguano l’interesse pubblico che la P.A. deve tutelare, attenuando fino a farla quasi scomparire la natura privata dell’ente.
Problemi definitori continuano comunque a sussistere in ordine ai concetti “controllo di fatto” e “influenza dominante”, per i quali è necessario rinviare alla dottrina e alla giurisprudenza di matrice civilistica. Questo spazio aperto non è privo di rischi: con l’estensione oltre un limite ragionevole del novero dei destinatari si rischia, infatti, di vanificare la scelta da parte della p.a. di un metodo aziendale di produzione e/o fornitura: l’ente di diritto privato, costituito con lo scopo di semplificare e snellire l’operato dell’amministrazione, si troverebbe gravato di oneri e costi tali da rendere nulla la stessa distinzione tra pubblica amministrazione e società di capitali e, con essa, la convenienza della scelta di questo strumento.
Sono invece escluse dall’ambito applicativo della disciplina quelle compagini nei confronti delle quali il Ministero eserciti un controllo meramente contrattuale (art. 2359, co. 1, numero 3), poiché, non presupponendo tale legame alcuna partecipazione, l’interesse pubblico nei loro confronti risulta fortemente attenuato.
12. Le società partecipate, individuabili in via residuale, sono invece quelle di cui il MEF possiede una quota minoritaria, non tale da permettergli di influire in misura rilevante sulle determinazioni di volontà assembleare, che rimangono espressive di un interesse privato. Una partecipazione, quindi, non sufficiente per affermare nelle dinamiche di tali società un interesse pubblico e giustificare l’applicazione delle disposizioni della “legge Severino” con i costi che ne derivano. Per tali società i meccanismi di prevenzione della corruzione resteranno, quindi, quelli previsti dal d.lgs. 231/2001.
4) Il rapporto tra PTCP e Modello 231: diversità di oggetto e sinergia applicativa
13. La differenza di trattamento appena evidenziata tra società controllate e società partecipate rende necessario un esame più approfondito sul rapporto tra i Modelli di organizzazione e gestione del d.lgs. 231/2001 e i Piani Triennali introdotti dalla l. 190/2012.
La direttiva MEF 25/08/2015, nel risolvere questo quesito, prende le mosse dalla differente ratio che ispira i due provvedimenti: il d.lgs. 231/2001 ha come scopo la prevenzione solo dei reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società (art. 5 d.lgs. 231/2001); la l. 190/2012 ha invece portata generale e mira anche (e soprattutto) alla prevenzione di comportamenti che siano commessi in danno della società (e quindi, indirettamente, della p.a. che la controlla) e a vantaggio di soggetti terzi.
14. Riguardo ai fatti di corruzione, inoltre, il d.lgs. 231/2001 si basa su un principio definibile come “doppia legalità”, espresso all’art. 2 del decreto: rientrano tra i comportamenti disciplinati (e, quindi, sono oggetto della prevenzione) solo quelli previsti dalla legge penale come reato e, tra questi, solo quei reati che siano espressamente inclusi nell’elenco dei reati-presupposto di responsabilità dell’ente (artt. 24 e ss.; in questo settore sono reati-presupposto la concussione, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, la corruzione e la corruzione tra privati).
I comportamenti che la l. 190/2012 e i Piani di attuazione intendono prevenire, presuppongono invece «un concetto molto più ampio di corruzione, in cui rileva non solo l’intera gamma dei reati contro la p.a. […] ma anche le situazioni di “cattiva amministrazione”» (Dir. MEF, pag. 4); concetto, quest’ultimo, espresso come “le situazioni nelle quali interessi privati condizionino impropriamente l’azione amministrativa”. Il catalogo dei comportamenti oggetto di questa normativa è quindi estremamente più ampio di quello alla base del decreto 231/2001 ed è espresso con una formula efficace e indeterminata che supera ampiamente i confini del penalmente rilevante.
15. In relazione al tipo di responsabilità che deriva dall’inadempimento degli obblighi di prevenzione si ravvisa, poi, un’altra fondamentale differenza: l’omessa predisposizione o l’inefficace attuazione dei Modelli 231 è fonte di una responsabilità per la società di natura controversa, tertium genus tra responsabilità amministrativa e penale; può inoltre generare una responsabilità individuale, di natura penale e di tipo omissivo, dei membri di consiglio di amministrazione, collegio sindacale e organismo di vigilanza per il mancato impedimento dell’evento (ex art. 40, co. 2).
La responsabilità che scaturisce in capo al Responsabile per la Prevenzione della Corruzione per la mancata elaborazione o attuazione del Piano è invece una responsabilità di natura prettamente amministrativa, “di tipo dirigenziale, disciplinare ed erariale” (dir. MEF, p. 4).
16. Conseguenza inevitabile di quanto affermato è la non coincidenza dei due strumenti di tutela sotto i profili degli obiettivi che perseguono, degli strumenti che utilizzano e delle conseguenze che generano qualora vengano violati.
Le società che rientrano sia tra i soggetti cui si applica il d.lgs. 231/2001 (ex art.1 del decreto) sia tra i soggetti destinatari della l. 190/2012 dovranno, quindi, integrare il Modello 231 con le disposizioni volte a prevenire il più ampio range di condotte previste dalla legge anticorruzione (dir. MEF, par. 2.3.1). All’interno del documento così redatto dovranno essere identificate chiaramente le misure ex l. 190/2012 sia ai fini dell’attribuzione di responsabilità, sia ai fini della valutazione e aggiornamento annuale, sia per garantire la vigilanza ANAC (Linee Guida ANAC, par. 2.1.1, p. 12).
5) Conclusioni
L’attenzione alla ratio preventiva della legge e alle dinamiche di mercato di cui gli enti privati fanno parte devono costituire un filo conduttore per l’interpretazione del dettato normativo, primo banco di prova della tenuta di un intervento riformatore. Le Linee Guida ANAC 17 giugno 2015 e la Direttiva MEF 25 agosto 2015 rappresentano, alla luce di detti principi, un importante sforzo di adeguamento della l. 190/2012 alle esigenze e peculiarità proprie di questi enti e specialmente delle società partecipate.
Rimane aperto, tuttavia, il problema della precisa delimitazione della categoria delle società controllate, specialmente in relazione al controllo c.d. di fatto: una estensione del concetto al di là dei casi in cui risulti necessario rischia di compromettere i motivi stessi per cui la p.a. sceglie di operare sul mercato secondo il modello aziendale e quindi di vanificare la convenienza di tale scelta. Bisognerà perciò vedere su che indirizzo si assesterà la giurisprudenza, che già in passato ha proceduto a discutibili estensioni sostanzialistiche del concetto di “soggetto amministrativo” (vd. Cons. St., nn. 1206/2001).
Non resta, infine, che attendere come i destinatari della normativa interpreteranno e applicheranno le prescrizioni così precisate, nella consapevolezza che solo l’impegno di ogni singolo operatore nell’attuazione della legge può condurre la lotta alla corruzione nelle società pubbliche ai risultati sperati.

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