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Alcune considerazioni sulla normativa in materia di concorrenza nel settore audiovisivo

di Lorenzo Maniaci

18/03/2017

A partire dal 1974, anno in cui la Corte di Giustizia dell’Unione europea si pronunciò sul caso Walrave, l’applicazione del diritto eurounitario alla materia dello sport non è più stata messa in discussione. In quell’occasione, infatti, prendendo in considerazione lo sport nella sua dimensione economica, la Corte affermò che esso soggiace all’applicazione del diritto comunitario nella misura in cui sia qualificabile come attività economica, ovvero come mezzo attraverso cui beni e servizi sono offerti sul mercato. Da quel momento, vennero via via affermati i principi per cui nell’esercizio dell’attività sportiva devono essere osservate le disposizioni in tema di libera circolazione delle persone (sentenza Bosmann), di libera prestazione dei servizi (sentenza Sacchi), nonché le regole comunitarie sulla concorrenza.

L’aspetto da ultimo considerato è quello che viene in rilievo quando si affronta il tema del commercio dei diritti audiovisivi sportivi, ovvero il diritto di sfruttamento economico mediante i media dello spettacolo sportivo.

La disciplina comunitaria sulla concorrenza infatti, incide sulla materia vietando comportamenti che siano suscettibili di ledere il libero gioco del mercato. Come noto, infatti, l’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, (precedentemente articolo 81 del Trattato CE) al comma 1 dispone che sono incompatibili con il mercato comune e vietati, tutti gli accordi tra imprese e decisioni di associazioni di imprese, che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune. Ancora, l’articolo 102 del TFUE (articolo 82 TCE nella vecchia formulazione) dispone che, è incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo.

La tutela della concorrenza risulta quindi essere una questione di fondamentale importanza nell’ambito della commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi, sia a livello nazionale che comunitario.

Nello specifico, a livello comunitario, la disciplina in materia è attualmente costituita, oltre che dagli articoli 101 e 102 TFUE sopra citati, anche dall’art. 106 del medesimo Trattato, il quale prevede che gli Stati membri non adottino, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese titolari di diritti speciali o esclusivi, misure che restringano la concorrenza in contrasto con le norme comunitarie.

Per completare il quadro normativo occorre menzionare due Regolamenti (CE) che rappresentano il frutto di diversi tentativi (più o meno riusciti) di regolazione della concorrenza in ambito comunitario: il Regolamento n. 1/2003, che sostituendo il precedente Regolamento n. 17/1962, ha riformato in misura significativa le regole di applicazione del diritto antitrust comunitario con l’obiettivo di semplificare e rafforzare, all’interno della Comunità, l’azione di deterrenza e di contrasto nei confronti delle intese e dei comportamenti d’impresa restrittivi della concorrenza; e il Regolamento n. 139/2004, che ha introdotto a livello comunitario una disciplina sul controllo preventivo di tutte le operazioni di concentrazione nelle quali il fatturato delle imprese interessate superi determinate soglie

Sul tema della concorrenza nel settore audiovisivo sportivo è intervenuta a più riprese anche la Commissione europea che si è occupata della questione della vendita collettiva dei diritti audiovisivi sportivi accogliendo tale sistema di commercializzazione purchè fossero rispettate determinate condizioni, idonee a garantire l’effettiva concorrenza tra emittenti televisive. Si tratta, in particolare, della necessità che la vendita dei pacchetti avvenga mediante procedure trasparenti, che i contratti di vendita abbiano breve durata, che sia prevista la possibilità per le società di commercializzare individualmente i diritti rimasti invenduti.

Il rispetto di tali condizioni da parte dell’organismo addetto alla commercializzazione dei diritti audiovisivi, secondo quanto affermato dalla Commissione, consente al sistema di vendita centralizzata di beneficiare dell’esenzione di cui all’allora vigente articolo 81, comma 3 TCE. Tale esenzione rende inapplicabile il disposto del comma 1 dell’articolo 81, a qualsiasi accordo tra imprese (squadre di club) o associazioni di imprese (Lega Calcio) che contribuiscono a migliorare la produzione o distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico ed economico del settore.

Questo orientamento della Commissione è stato in linea di massima seguito dagli Stati membri e riportato nelle rispettive legislazioni nazionali.

A livello nazionale, la disciplina legislativa che attualmente detta le regole per la commercializzazione e in generale per l’universo audiovisivo sportivo è il d.lgs. 9/2008 (c.d. Decreto Melandri) il quale dispone un ritorno al sistema della commercializzazione dei diritti audiovisivi in forma collettiva e non più individuale. In sostanza è l’organizzatore della competizione (es. la Lega Calcio) e non più le singole società (club) ad essere titolare del diritto di sfruttamento economico delle manifestazioni sportive nel quale rientra la commercializzazione dei diritti audiovisivi.

Lo stesso decreto, conformandosi alla disciplina comunitaria, ha previsto la possibilità di offrire i diritti audiovisivi, mediante procedure più competitive organizzate per singole piattaforme o mettendo in concorrenza le diverse piattaforme, o con entrambe le modalità nel rispetto delle generali condizioni sopra citate (art. 8,1  del d.gs. 9/2008).

Nonostante l’introduzione delle previsioni normative predette, tale sistema non esclude in realtà che il soggetto titolare del diritto di sfruttamento economico dei diritti audiovisivi  possa porre in essere comportamenti discriminatori e non trasparenti, ove decida di  non commercializzare le dirette relative a taluni eventi o di sfruttare i diritti invenduti per riservarli a determinati operatori.

A seguito di un comportamento di questo genere, nel 2008 l’AGCM, in una segnalazione al Governo e al Parlmento, ha espresso delle critiche circa l’applicazione del sistema previsto nella disciplina nazionale. E’ stato infatti evidenziato come – nel caso di specie – la Lega Calcio non avesse seguito le linee guida approvate e avesse assegnato i diritti televisivi relativi al calcio, sulla base di procedure discriminatorie e non trasparenti.

La Lega infatti, dopo il fallimento di una prima procedura di vendita, aveva deciso di assegnare i diritti audiovisivi in chiaro (higlights), senza lo svolgimento di una gara. A giudizio dell’AGCM, invece, la Lega avrebbe dovuto procedere ad un secondo tentativo di vendita collettiva ed, in caso di ulteriore fallimento, avrebbe dovuto consentire ai singoli club di commercializzare individualmente i diritti invenduti, come previsto dall’art. 11, 3 del d.lgs. 9/2008.

Situazioni simili si verificano ancora oggi.

Il 19 maggio 2015, infatti. l’AGCM ha avviato con apposito provvedimento un’istruttoria nei confronti della Lega serie A, dell’advisor di quest’ultima Infront Italy s.r.l., di Sky, Reti televisive italiane (RTI) e di Mediaset, volta ad accertare l’attuazione da parte di tali soggetti di una presunta intesa restrittiva della concorrenza, contraria all’art. 101.1 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), nel mercato dei diritti televisivi sportivi.

Nel provvedimento, l’AGCM ha ipotizzato, sulla base di alcune notizie di stampa apparse nel mese di febbraio 2015, che le imprese sopra indicate avessero concluso “accordi spartitori” nell’ambito della procedura di gara per l’assegnazione dei diritti televisivi per il Campionato di calcio di serie A nel triennio 2015-2018

Come sopra detto, in Italia, tale procedura è gestita in forma centralizzata dall’organizzatore della competizione (la Lega) il quale è tenuto ad offrire i diritti audiovisi nel rispetto delle procedure concorrenziali ed in modo non discriminatorio e trasparente.

Secondo quanto riportato nel provvedimento di apertura della procedura  dell’AGCM, la procedura di gara, aperta  per l’assegnazione dei diritti televisivi, non aveva avuto inizialmente un esito positivo, e la Lega Calcio avrebbe quindi dovuto nuovamente bandire una nuova gara; tuttavia così non è stato in quanto tutti i pacchetti sono stati assegnati e poi ripartiti fra le diverse emittenti “concorrenti”. E’ proprio in questa seconda fase che si è riscontrato un comportamento anticoncorrenziale.

Secondo l’AGCM, infatti, l’esito della gara che ha visto Sky aggiudicarsi la trasmissione delle partite di Serie A tramite la piattaforma satellitare (“pacchetto A”), Mediaset la trasmissione delle partite di Serie A tramite il digitale terrestre (“pacchetto B”), e le restanti partite su tutte le piattaforme (“pacchetto D”) invece essere aggiudicate a Mediaset e poi da questa cedute a Sky, sarebbe frutto dell’accordo anticoncorrenziale sopra riportato.

In sostanza, ciò che è criticato dall’AGCM, è il fatto che non sia stata richiesta alcuna autorizzazione circa la cessione del “pacchetto D” assegnato a Mediaset e poi da questo ceduto a Sky. L’autorità garante riscontra quindi in tale accordo tra emittenti, reso possibile secondo l’antitrust dal favore della Lega calcio e di Infront, un’attività anticoncorrenziale e contraria anche ai principi comunitari in materia.

L’AGCM nell’aprile del 2016 ha quindi sanzionato RTI/Mediaset con una multa di 51,4 milioni, Infront con una multa di 9 milioni, Sky con una multa di 4 milioni e la Lega calcio con 1,9 milioni.

Le parti in causa hanno deciso di ricorrere al TAR del Lazio, il quale con la sentenza emessa nel dicembre del 2016, ha accertato l’illegittmità del provvedimento antitrust e conseguentemente annullato le sanzioni irrogate. Tra le motivazioni emesse dal giudice amministrativo, due sono quelle che meritano di essere menzionate: in primo luogo, l’accordo tra Sky e Mediaset non è stato ritenuto anticoncorrenziale; in secondo luogo, la “causa” contrattuale alla base della sub-licenza per il pacchetto D era pienamente lecita, in quanto orientataad evitare contenziosi futuri e ulteriori inconvenienti per iconsumatori, mantenendo la concorrenza effettiva in assenza di nuovioperatori concretamente interessati all’ingresso nel mercato specifico.

L’Antitrust ha reso noto di voler ricorrere al Consiglio di Stato. La vicenda quindi non può dirsi definitivamente conclusa.

 

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