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a cura di Federica Micarelli
Lo scorso 31 gennaio la Corte d’Appello di Roma si è espressa per la prima volta sul trattenimento dei cittadini stranieri condotti nei centri in Albania, competenza precedentemente affidata alla sezione Immigrazione del Tribunale ordinario. Con diverse ordinanze, la sezione Persona, Famiglia, Minorenni e Protezione internazionale ha sospeso il giudizio di convalida del trattenimento di quarantatré richiedenti asilo, rimettendo gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea e rinviando ai giudici di Lussemburgo la decisione sulle condizioni per la designazione dei paesi “di origine sicuri”.
Le pronunce hanno puntato i riflettori sul tema, già molto caldo, del sindacato del giudice ordinario sul trattenimento dei richiedenti asilo e riemerso da alcuni mesi a seguito dell’attuazione del Protocollo tra Italia e Albania, ratificato con legge 21 febbraio 2024, n. 14. L’accordo ha infatti previsto la creazione di un’enclave italiana in territorio albanese dedicata alla detenzione temporanea di richiedenti asilo, disponendo la costruzione di centri interamente sottoposti alla giurisdizione italiana.
Non si tratta del primo rinvio pregiudiziale operato dai tribunali italiani in materia. Già dai primi trasferimenti in Albania, infatti, la mancata convalida dei trattenimenti ordinati dall’amministrazione e l’orientamento portato avanti dai giudici hanno messo a dura prova l’efficacia del patto e infiammato lo scontro tra politica e magistratura in relazione al diritto d’asilo.
La pronuncia in commento si pone in linea con le precedenti decisioni dei tribunali che, con riferimento alle procedure accelerate per i richiedenti asilo provenienti da paesi reputati sicuri, parimenti hanno sospeso il giudizio e sollevato questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia europea ex art. 267 TFUE.
Il trattenimento dei richiedenti asilo nei centri albanesi, è bene ricordarlo, è infatti disposto dall’autorità amministrativa ed è funzionale all’applicazione della procedura c.d. accelerata di valutazione della domanda di protezione internazionale, prevista all’art. 28 bis del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25. Costituendo una privazione temporanea della libertà personale, tuttavia, il trattenimento deve essere vagliato da un giudice nelle quarantotto ore successive alla sua adozione. La mancata convalida del provvedimento comporta l’inapplicabilità della procedura accelerata e il necessario trasferimento del richiedente in Italia, dove viene attivata l’ordinaria procedura di valutazione della sua richiesta di protezione.
In sede di convalida, il vaglio giurisdizionale si appunta sulla provenienza o meno dei richiedenti asilo da paesi considerati “sicuri”, poiché solo in quest’ultimo caso può trovare applicazione la procedura accelerata di frontiera. In tale circostanza, si consente di disporre il trattenimento in loco del soggetto al fine di accertare, in tempi ridotti, il suo diritto a fare ingresso nel territorio italiano.
Il nodo essenziale della questione, pertanto, risulta essere la corretta interpretazione del concetto di paese “di origine sicuro”, introdotto dal legislatore europeo con direttiva 2013/32/UE (c.d. Direttiva Procedure). L’art. 36 della direttiva dispone, nello specifico, che un paese si considera sicuro per un determinato richiedente se “a) questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero b) è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel paese, e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso e per quanto riguarda la sua qualifica di beneficiario di protezione internazionale”.
Sul punto, lo scorso 4 ottobre 2024 si era già espressa la Corte di Giustizia dell’Unione europea (causa C‑406/22), precisando che tale designazione dipende dalla circostanza che in tutto il territorio del paese non si ricorra a persecuzioni né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né vi sia pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. Un paese, dunque, non può essere definito sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino tali condizioni.
La normativa europea, peraltro, invita gli Stati membri a predisporre e aggiornare un elenco di paesi di origine sicuri ai fini della valutazione accelerata delle richieste d’asilo. A dare attuazione a tali indicazioni, è intervenuto in Italia il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, il quale ha modificato l’art. 2 bis del d.lgs. 25/2008 rubricato, appunto, “Paesi di origine sicuri”. La lista è stata in seguito oggetto di svariate modifiche, da ultimo l’aggiornamento intervenuto con il d.l. 23 ottobre 2024, n. 158 (c.d. d.l. “Paesi Sicuri”), che ha previsto disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale.
Che tipo di sindacato, dunque, il giudice ordinario può svolgere in ordine alla valutazione di sicurezza di un paese nel caso in cui quest’ultimo sia formalmente inserito nell’elenco dei paesi sicuri predisposto dal Governo? Il punto essenziale è se l’organo giurisdizionale, in sede di convalida, abbia parola in merito a tale verifica o debba strettamente attenersi alla lista stilata dall’autorità competente. Ad entrare in gioco, dunque, è l’eventuale disapplicazione dell’atto amministrativo, espediente processuale che consente al giudice ordinario di valutarne, incidenter tantum, la legittimità e, se del caso, decidere la questione tamquam non esset.
Nell’opinione della Corte d’Appello di Roma, infatti, il giudice della convalida, anche se “non si sostituisce nella valutazione che spetta, in generale, soltanto al Ministro degli affari esteri e agli altri Ministri che intervengono in sede di concerto”, è comunque chiamato “a riscontrare, nell’ambito del suo potere istituzionale, […] la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo paese di origine come sicuro”, in quanto “garante […] dell’effettività del diritto fondamentale alla libertà personale”. Per questo motivo, la Corte ha deciso di sottoporre la questione alla Corte di Giustizia, domandando “se il diritto dell’Unione Europea e, in particolare, gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32/UE, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che un Paese terzo sia definito di origine sicuro qualora, in tale paese, vi siano una o più categorie di persone per le quali non siano soddisfatte le condizioni sostanziali di tale designazione”.
A tentare di ricucire il conflitto è intervenuta, nel dicembre scorso, la prima sezione civile della Cassazione che, in due occasioni, si è pronunciata per cercare di porre un punto fermo al serrato dialogo tra politica e magistratura.
Con la sentenza 19 dicembre 2024, n. 33398, la Corte di legittimità si è espressa sulla possibilità di un controllo giurisdizionale in relazione all’elenco dei paesi sicuri (nello specifico, quello predisposto con decreto del MAECI del 7 maggio 2024). Era stato il Tribunale di Roma, nel mese di ottobre, a disporre il rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.p. I giudici, nel caso di specie, non avevano convalidato il trattenimento dei primi dodici richiedenti asilo condotti nei centri albanesi, in virtù della loro provenienza da paesi considerati non sicuri, chiedendo alla Cassazione di pronunciarsi sull’esatta portata del sindacato giurisdizionale rispetto a tale lista.
In merito, i giudici di legittimità hanno chiarito che in capo al giudice ordinario, in quanto “garante dell’effettività dei diritti fondamentali del richiedente asilo”, spetta il potere/dovere di valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione e, dunque, delle condizioni di sicurezza del paese di origine. Il giudice ordinario, secondo la Cassazione, può eventualmente procedere a disapplicare in via incidentale e in parte qua il decreto ministeriale recante la lista dei paesi sicuri, qualora ravveda un contrasto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea.
Il ragionamento della Corte si è soffermato soprattutto sulla natura del decreto ministeriale ed ha escluso che si tratti di un atto politico, come tale insindacabile. Il potere amministrativo di inserire un paese nell’elenco dei paesi sicuri, al contrario, sarebbe scandito da una precisa disciplina dettata dal legislatore europeo e recepita dalla normativa nazionale e, dunque, il rispetto di tali criteri sarebbe suscettibile di verifica in sede giurisdizionale.
Con successiva ordinanza del 30 dicembre 2024, n. 34898, la stessa sezione si è espressa su una questione non dissimile, relativa alla possibilità per gli Stati di qualificare un paese come sicuro in presenza di eccezioni specifiche per alcune categorie di persone. L’interrogativo era nato a seguito della decisione del Tribunale di Roma, che aveva ritenuto che la richiamata pronuncia della Corte di Giustizia si potesse estendere anche all’ipotesi di eccezioni che non consentissero di ritenere un paese sicuro solo per determinate categorie di persone.
I giudici di legittimità hanno escluso qualsiasi forma di automatismo nell’applicazione della decisione della Corte di Giustizia a paesi designati come non sicuri solo per determinate categorie di persone. Ciononostante, hanno ritenuto di non poter prescindere dalla più recente normativa europea, laddove questa specifica che “la designazione […] può essere effettuata con eccezioni per categorie di persone chiaramente identificabili” (Art. 61 par. 2 Regolamento UE del 14 maggio 2024, n. 1348, che istituisce una procedura comune in materia di protezione internazionale nell’Unione, abrogando la suddetta direttiva 2013/32/UE, e che troverà applicazione dal 12 giugno 2026).
Tuttavia, vista l’imminenza della decisione della Corte di Giustizia che ha riunito i rinvii pregiudiziali pendenti operati dai tribunali italiani (la cui udienza è al momento fissata per il prossimo 25 febbraio), con la suddetta ordinanza interlocutoria la Cassazione ha preferito rinviare la causa a nuovo ruolo.
Le due pronunce, in realtà, hanno contribuito ad alimentare il dibattito sulla gestione delle politiche migratorie, con il Governo che accusa i giudici di voler “demolire” il proprio operato ed esercitare un sindacato su scelte discrezionali e riservate. Il bilanciamento operato dall’amministrazione e riflesso nell’elenco di designazione dei paesi reputati sicuri, infatti, è funzionale ad una regolazione considerata efficace dei flussi migratori, anche prevedendo una procedura accelerata di valutazione delle richieste d’asilo. Tuttavia, tale bilanciamento può entrare in conflitto con i poteri del giudice ordinario di garantire diritti fondamentali del richiedente asilo, interesse considerato prevalente dalla magistratura.
Le preoccupazioni maggiori si sollevano in relazione al rischio di collisione tra il potere esecutivo e quello giudiziario, nonché al timore che possano verificarsi sconfinamenti da parte del giudice ordinario su apprezzamenti tipicamente discrezionali. Il giudice della convalida opera, infatti, un bilanciamento di interessi sostitutivo rispetto a quello delle amministrazioni competenti, il che fa sì che oggetto di cognizione non sia esclusivamente la legittimità o meno del provvedimento amministrativo, ma l’assetto stesso degli interessi in gioco, avuto di mira dall’amministrazione.
Stravolgere nelle aule di giustizia il bilanciamento effettuato dal Governo, infatti, può rendere il provvedimento amministrativo inefficace, lasciando, di conseguenza, la situazione dei richiedenti asilo del tutto instabile.
Peraltro, dopo le bocciature consecutive dei trattenimenti dei richiedenti asilo e in attesa dell’imminente decisione della Corte di Giustizia europea, ciò che si evince dalle ultime indiscrezioni è una nuova linea del Governo, che prevede di modificare l’accordo con l’Albania al fine di escludere la competenza dei magistrati italiani sulla gestione della vicenda. L’ipotesi allo studio della politica, infatti, sarebbe quella di trasformare i centri albanesi, al momento di accoglienza e di trattenimento, in centri di permanenza per i rimpatri (c.d. Cpr), il che consentirebbe il trattenimento delle persone irregolari destinatarie di un decreto di espulsione. In questo modo, infatti, non sarebbe più necessaria una convalida da parte del giudice ordinario.
Tuttavia, sono impellenti le istanze di difesa della dignità umana e delle libertà fondamentali di tali soggetti che, al contrario, si trovano invece a dover scontare una “logica del nemico”, calati in un conflitto tra politica e magistratura che, a colpi alterni, non riesce mai ad essere sopito.