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L’AFFIDAMENTO DIRETTO DEL FESTIVAL DI SANREMO ALLA RAI E LE RAGIONI DELLA SUA ILLEGITTIMITÀ

13 gennaio 2025

a cura di Carlo Maria Fenucciu

Con la sentenza del 5 dicembre 2024, n. 843 il T.A.R. Liguria ha messo in discussione il settuagenario assetto organizzativo del “Festival della Canzone Italiana”, che si tiene, come noto, con cadenza annuale nel comune di Sanremo, ente che ha sempre affidato la realizzazione, promozione e diffusione dell’evento alla RAI – Radiotelevisione Italiana s.p.a. e a società a questa collegate.

La questione origina dalla manifestazione d’interesse presentata in data 7 marzo 2023 al Comune di Sanremo dalla JE s.r.l., società di edizione musicale e di produzione e realizzazione di eventi e opere di carattere musicale. Questa chiedeva al Comune di acquisire i diritti di sfruttamento economico e commerciale del marchio registrato “Festival della Canzone Italiana”, di titolarità del comune, al fine di curare l’organizzazione e lo svolgimento del Festival, nonché le attività di promozione e diffusione allo stesso direttamente o indirettamente connesse.

Dinanzi al mancato riscontro, ma in seguito ad un incontro con alcuni rappresentanti del Comune, la JE impugnava i provvedimenti, non ancora conosciuti, con cui il Comune aveva affidato l’edizione 2024 del festival alla RAI. Il Comune di Sanremo, in pendenza di giudizio, approvava con due diverse delibere le bozze di convenzioni stipulate con RAI s.p.a. e RAI Pubblicità s.p.a., aventi ad oggetto la concessione alla prima dell’uso in esclusiva del marchio “Festival della Canzone Italiana”, e lo svolgimento della 74ª e della 75ª edizione del “Festival della Canzone Italiana” per gli anni 2024 e 2025 e a RAI Pubblicità lo sfruttamento commerciale degli eventi collaterali. Conseguentemente, il Comune dichiarava improcedibile la manifestazione d’interesse, comunicandolo alla JE. La società, quindi chiedeva per motivi aggiunti l’annullamento delle delibere, nonché delle convenzioni stesse, delle quali però chiedeva in alternativa la dichiarazione d’inefficacia in conseguenza dell’annullamento delle delibere. Il ricorso e i motivi aggiunti, come verrà evidenziato nel prosieguo, si fondano essenzialmente sulla violazione delle norme europee e nazionali che impongono, in occasione della concessione di un bene pubblico, di seguire i principi concorrenziali compendiati nelle direttive eurounitarie del 2014, nonché nel codice dei contratti pubblici.

La pronuncia in oggetto pare oltremodo rilevante presentando, oltre all’evidente risonanza mediatica riscossa, due profili che s’intende indagare: quello della legittimazione della JE e quello del merito della questione.

In merito al primo profilo, veniva contestata la legittimazione ad agire della JE dal momento che, trattandosi di impresa di ridotte dimensioni e fatturato, non avrebbe in ogni caso avuto la possibilità di essere selezionata in esito ad una procedura di evidenza pubblica avente ad oggetto l’organizzazione del Festival.

È opportuno rammentare che in materia di appalti pubblici di norma la legittimazione si radica in presenza di una situazione differenziata per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione, sussistendo altrimenti un interesse di mero fatto. Il collegio, facendo riferimento alla nota Adunanza Plenaria n. 4/2011 ricorda le eccezioni a tale regola. In particolare, la regola non rileva quando si contesta in radice la scelta della stazione appaltante di indire una gara, o quando questa manchi del tutto per via di un affidamento diretto o, ancora, quando s’impugna una clausola immediatamente escludente.

Nel caso di specie, la gara mancava del tutto e non può contestarsi la legittimazione della JE per una serie di argomenti. Il primo è logico, prima che giuridico: non può pretendersi che la società abbia i requisiti dimensionali richiesti da un bando che non esiste, essendo peraltro probabile che essa partecipi ad un’eventuale gara per il tramite di un raggruppamento temporaneo d’imprese o di una joint venture. In seguito, in ossequio ai principi di proporzionalità ed effettività della tutela giurisdizionale non può pretendersi che per la sola proposizione del ricorso la società si unisca ad altre imprese.

Infine, in ottica sistematica, il collegio rileva che la radicale assenza della gara comporta una violazione particolarmente grave del principio concorrenziale, ciò che lascerebbe propendere per una legittimazione più ampia.

Di conseguenza, nell’omissione di qualsivoglia procedura di evidenza pubblica, è sufficiente la potenziale partecipazione del ricorrente, a ciò bastando ch’egli operi nello stesso settore interessato dalla controversia.

Venendo ora al merito della questione, la tesi del ricorrente è abbastanza semplice: il marchio “Festival della Canzone Italiana” appartiene al Comune di Sanremo e, per ciò solo, la concessione in sfruttamento dello stesso deve rispettare i principi concorrenziali. Quindi, perimetrando correttamente il tema, la controversia sorge unicamente rispetto allo sfruttamento del marchio e non dunque all’affidamento della realizzazione o la diffusione del Festival. In questo modo, la controversia, benché di primo acchito potrebbe apparire collegata, esula dal settore dei contratti per la realizzazione di programmi audiovisivi, esclusa dall’applicazione del codice dei contratti pubblici ai sensi dell’art. 56, co. 1, lett. f) del d. lgs. 36/2023.

Salta all’occhio, comunque, l’atteggiamento ondivago del collegio circa la qualificazione giuridica del rapporto tra la RAI e il Comune, compendiato nella convenzione da essi stipulata. Di sicuro, si afferma, si è in presenza di un contratto attivo, ma stabilire se si tratti della concessione di un bene pubblico o di un altro contratto di tipo civilistico non è rilevante ai fini della sussistenza o meno dell’obbligo di indire una procedura di evidenza pubblica. Tale affermazione merita di essere chiarita.

Essa parte dal presupposto che sia per i contratti attivi, sia per le concessioni di beni pubblici, la PA deve rispettare i principi concorrenziali, sebbene non debba sottostare all’intera disciplina del codice dei contratti pubblici, di cui al d. lgs. 36/2023.

Per i contratti attivi, ossia quelli da cui derivi un’entrata per la PA, ciò era previsto già dall’art. 3 della legge generale sulla contabilità, di cui al R.D. 2440/1923, che richiede che la PA proceda per pubblici incanti. Tale remota previsione, ancora vigente, ha svolto a lungo una garanzia per l’efficienza e il buon andamento della PA, introducendo l’obbligo di una procedura pubblica e competitiva. Oggi, l’art. 13 del codice richiede per i contratti esclusi, i contratti attivi e i contratti a titolo gratuito il rispetto non dell’intera normativa, bensì dei principi generali di cui ai primi tre articoli del testo medesimo, tra cui rientra il principio dell’accesso al mercato.

Per quanto riguarda le concessioni di beni pubblici, è opportuno chiarire che esse non sottostanno alla disciplina del codice, nel quale le concessioni sono accomunate agli appalti solo laddove abbiano ad oggetto la realizzazione dei lavori o la gestione dei servizi (art. 177 d. lgs 36/2023, nonché considerando 11 della direttiva 2014/23/UE). Le concessioni di beni pubblici sottostanno comunque ai principi concorrenziali, o per effetto dello stesso art. 13 del codice, o per effetto dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE (cd. Bolkestein). Tale testo normativo richiede di attivare una procedura di selezione tra i candidati quando il numero di autorizzazioni per una determinata attività sia scarso. Tale articolo, congegnato per le attività da svolgersi su beni materiali, potrebbe adattarsi anche a beni immateriali, quale è il marchio, la cui caratteristica essenziale è proprio quella di limitarne l’uso solo a chi l’ha registrato e ad eventuali licensee. Peraltro, a sostegno della qualificazione della questione come concessione di bene pubblico, si segnala che già nella pronuncia 4 febbraio 2015, n. 552 il Consiglio di Stato aveva qualificato la concessione del marchio “EXPO 2015” in tal senso.

In sostanza, indipendentemente dalla qualificazione concessoria o meno del rapporto, la disciplina impone di instaurare un dialogo tra più operatori, che non per forza deve rispettare le tecniche di affidamento di cui al codice dei contratti pubblici, come espresso anche nella recentissima pronuncia del T.A.R. Trieste 11 ottobre 2024, n. 333. In tale occasione il Tribunale friulano ha ritenuto che l’esclusione di determinati contratti dal Codice indica che per questi è sufficiente uno standard di concorrenzialità minore, così concludendo per la legittimità della procedura di cui all’art 37 cod. nav. per l’affidamento di concessioni demaniali marittime.

Per completezza, si segnala che anche nel radicare la giurisdizione nell’art. 133, co. lett. b) del c.p.a. (e dunque in materia di concessione di beni pubblici) il collegio si astiene dal prendere una posizione netta, affermando che la giurisdizione ivi si rinviene perché è la delibera della giunta comunale a qualificare il rapporto come concessorio. Ad ogni modo, tale statuizione non è idonea a passare in giudicato per effetti diversi dalla sussistenza della giurisdizione, che, peraltro, non era contestata e comunque spetta al giudice amministrativo (in sede generale di legittimità, chiaramente) anche quando si contesta la scelta del contraente in altri contratti attivi (ad. es. in tema di locazione di beni pubblici: T.A.R. Campania, Salerno, 22 marzo 2021, n. 727).

Il collegio ha quindi ritenuto infondate le argomentazioni addotte dal Comune e dalla RAI. Quest’ultima, in particolare, ha adottato una particolare linea difensiva volta a dimostrare che l’evento “Festival” è costituito dall’inscindibile connubio tra il marchio (cioè il titolo della manifestazione, appartenente in via esclusiva al Comune) e il format.

Quest’ultimo sarebbe un’opera dell’ingegno ideata dalla RAI, che ne detiene in esclusiva il diritto d’autore e quindi di utilizzazione. Così, nell’ambito del festival sussisterebbe una particolare comunione tra il titolare del marchio e il titolare del format. Questa suggestiva tesi non ha persuaso il collegio che, pur non contestando che la RAI possa vantare un diritto d’autore sul format (ciò che esula dal thema decidendum), ne disconosce l’indissolubile legame con il marchio appartenente al Comune.

Innanzitutto, dal punto di vista sistematico la tesi non è rispettosa delle norme sulla comunione, dal momento che il legislatore ha adottato il modello della comunione pro indiviso con quote ideali, contrariamente alla ricostruzione della RAI, secondo cui sussisterebbe una comunione tra il marchio e il format, di cui sono rispettivamente titolari in esclusiva Comune e la RAI stessa.

Di più, non può dirsi che il marchio “Festival della Canzone Italiana” costituisca solo il titolo del format ideato dalla RAI, dal momento che il marchio deve essere idoneo di per sé ad identificare un bene o un servizio (art. 2569 cc.), svuotandosene altrimenti l’utilità. In sostanza, non si nega che la RAI possa vantare un diritto d’autore sul format, ciononostante il marchio “Festival della Canzone Italiana” identifica per forza una manifestazione canora: per contestare tale assunto la RAI avrebbe dovuto opporsi alla registrazione del marchio da parte del Comune. 

In tal modo sembra possano riassumersi i tratti salienti della pronuncia, che lascia tuttavia delle questioni irrisolte. In effetti, forse si potrebbe indagare in modo più esaustivo i rapporti tra la RAI e il Comune, come descritti nella convenzione, tenendo conto anche degli obblighi che il Comune ha assunto nella stessa (ad. es. procurare gli addobbi floreali, locare e mettere a disposizione alcuni locali, anche privati previa locazione degli stessi, come per il teatro “Ariston” etc.); i quali obblighi potrebbero lasciar intravedere un rapporto che va oltre la mera concessione di bene pubblico. Certo, si comprende che nel caso di specie il tema era prettamente circoscritto allo sfruttamento del marchio, inteso come bene pubblico, per cui è probabile che tali profili non vengano trattati neanche in sede di impugnazione della sentenza.

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