Lab-IP

LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 7/2024

6 novembre 2024

Indice:

  1. L’AUTONOMIA DEL DANNO DA PERDITA DI CHANCE NELLE ULTIME PRONUNCE DEL CONSIGLIO DI STATO a cura di Carlo Maria Fenucciu
  2. CORTE COSTITUZIONALE E TUTELA AMBIENTALE NELLA PARTITA A SCACCHI TRA POTERE AMMINISTRATIVO E GIUDICE PENALE a cura di Federica Micarelli
  3. LA DECISIONE CON IMPEGNI NELL’ACQUISIZIONE DI PPF TELECOM a cura di Riccardo Zinnai
  4. I COMPENSI DEGLI ORGANI AMMINISTRATIVI DI VERTICE: COSA ACCADRA’ NEL 2025? a cura di Martina Bordi
  5. MILANO-CORTINA 2026: UN CANTIERE PER LO SVILUPPO DEL PAESE a cura di Michele Sangiovanni
  6. MALFUNZIONAMENTO DELLA PIATTAFORMA DIGITALE E PRINCIPIO DEL RISULTATO: LA SENTENZA DEL TAR LAZIO N. 14747/2024 a cura di Linda Sanson
  7. IL RISULTATO NELLA FASE DI ESECUZIONE DEL CONTRATTO: ALCUNE NOVITA’ NELLO SCHEMA DI CORRETTIVO a cura di Cristiana Traetta
  8. INTERAZIONI E CRITICITA’ DEI REGOLAMENTI EUROPEI A TUTELA DEL MERCATO UNICO a cura di Gian Marco Ferrarini
  1. L’AUTONOMIA DEL DANNO DA PERDITA DI CHANCE NELLE ULTIME PRONUNCE DEL CONSIGLIO DI STATO a cura di Carlo Maria Fenucciu

Con la sentenza 13 settembre 2024 n. 7559 il Consiglio di Stato torna in tema di risarcimento per danni derivanti da illegittima attività della PA, in particolare sottolineando l’autonomia del danno da perdita di chance rispetto alle altre voci di danno.

La vicenda prende le mosse da un procedimento autorizzatorio per la realizzazione di due impianti di produzione di energia solare. I complessi fatti di causa possono essere riassunti come segue. La società istante si rivolgeva alla Regione Molise per l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni uniche. I provvedimenti richiesti venivano effettivamente concessi, ma negli anni successivi seguiva una lunga di serie di provvedimenti inibitori da parte del Ministero dell’Ambiente, nonché istituzione di vari vincoli archeologici nell’area interessata dal progetto. Tutti i provvedimenti venivano annullati in sede giurisdizionale o in autotutela, ma la società, nelle more di questi giudizi impugnatori, non iniziava i lavori assentiti con i provvedimenti autorizzatori, attesa l’incertezza dell’esito dei processi. Al termine della vicenda, durata oltre dieci anni, la società concludeva per la sopravvenuta insostenibilità dell’investimento a causa del decorso del tempo e la decadenza dei titoli autorizzatori.

Il processo si articola su due domande. La prima domanda veniva presentata dall’impresa quando ancora riteneva di poter effettuare l’investimento. Pertanto, veniva richiesto il risarcimento del danno per lo slittamento nel tempo della realizzazione dell’investimento a causa del complessivo comportamento ostruzionistico tenuto dal Ministero dell’Ambiente. Il danno derivava dalla circostanza che il ritardo nell’ultimazione dei lavori avrebbe determinato l’ingresso nel mercato secondo le tariffe del quinto conto energia, anziché del secondo. Ciò comportava condizioni più gravose per la società, che calcolava il risarcimento richiesto secondo il differenziale risultante dalle differenti tariffe dei due conti energia.

Più tardi, la società si accorgeva di non poter più effettuare l’investimento per via della scadenza dei titoli autorizzatori e per l’essere l’operazione divenuta medio tempore eccessivamente onerosa. Pertanto, introduceva con memoria domanda risarcitoria volta ad ottenere tutti i proventi che sarebbero risultati dal periodo di attività corrispondente alla durata media degli impianti autorizzati.

Il giudice di prime cure rigettava entrambe le domande: la società richiede per appello la riforma della sentenza.

Il Consiglio di Stato esamina per prima la richiesta di risarcimento fondata sulla sopravvenuta impossibilità. Il collegio su tale domanda conferma essenzialmente la soluzione del T.A.R., ritenendo non sussistente il nesso di causalità materiale tra la condotta dell’amministrazione e l’evento di danno. A tal fine, innanzitutto ricapitola gli elementi costitutivi della responsabilità da illecita attività amministrativa della PA, facendo riferimento ai principi di diritto espressi ad Ad. Plen. 23 aprile 2021 n. 7. In particolare, riconducendola alla responsabilità aquiliana ex 2043 cc, è richiesta la prova, incombente su chi si afferma danneggiato, del nesso di causalità materiale tra la condotta della PA e l’evento di danno, ai sensi degli artt. 40 e 41 cp. L’articolo 41, co. 2 sancisce che le cause sopravvenute rispetto al comportamento incriminato che siano state da sole idonee a provocare l’evento escludono il rapporto di causalità, sebbene le cause preesistenti consistano in atti illeciti. Proprio su tale base normativa il collegio ritiene che l’omissione della richiesta di proroga dei titoli autorizzatori abbia interrotto il nesso di causalità tra il comportamento illecito del Ministero dell’Ambiente e il danno lamentato consistente nell’impossibilità di addivenire all’investimento. Ciò, peraltro, in considerazione dell’insufficienza della prova sull’eccessiva onerosità sopravvenuta dell’operazione.

Rigettata la prima domanda in quanto infondata, il collegio passa ad esaminare la seconda. Il giudice di prime cure motivava il rigetto in tal senso: il risarcimento di un danno differenziale presuppone logicamente la concreta ed effettiva realizzazione del progetto a condizioni deteriori. In termini di danno imputabile alla P.A. non si può ragionare, atteso che comunque l’intervento non è stato compiuto per motivazioni imputabili, come poc’anzi spiegato, allo stesso ricorrente. Il collegio riesaminante, invece, inquadra la vicenda nel danno da perdita di chance. Segnatamente, atteso che è appurato il comportamento ostruzionistico del Ministero, concretizzantesi in atti la cui illegittimità è stata accertata in sede giurisdizionale o di autotutela caducatoria, consegue l’imputabilità in capo a detto ente dello slittamento della possibilità di ingresso nel mercato e dunque della perdita della chance di fruire dei maggiori incentivi del secondo conto energia.

Le conclusioni del collegio devono essere contestualizzate nell’ambito della sistematizzazione della figura della perdita di chance. La chance, come concetto eminentemente probabilistico, è stata presa in considerazione sotto due diversi punti di vista. Da un lato, sul campo del nesso causale tra una condotta ed un evento di danno (chance “eziologica”), dall’altro come autonoma situazione giuridica soggettiva passibile di tutela aquiliana (chance “ontologica”).

Nel primo senso, la chance indica la percentuale di probabilità che la condotta esaminata abbia causato l’evento di danno lamentato, permettendo così il frazionamento del nesso causale negli ordinamenti, come quello anglosassone, che lo consentono. In Italia tale approccio non può essere seguito, in quanto il nesso di causalità materiale, secondo l’interpretazione più accreditata e l’unanime giurisprudenza, non è frazionabile: provata la causalità, secondo il criterio del più probabile che non, l’evento sarà interamente attribuito all’autore della condotta.

Rimane però configurabile la chance in senso ontologico, tutelabile per via aquiliana secondo il processo di estensione della tutela extracontrattuale nel senso dell’atipicità. La chance viene reificata come posta attiva del patrimonio, la cui lesione può avvenire in modo autonomo ed indipendente. Il contenuto della chance come situazione giuridica soggettiva consiste nella possibilità (non diritto) di ottenere un determinato risultato.

Di conseguenza, per accertare la perdita della chance in senso ontologico non vi è alcuna attenuazione dell’indagine circa il nesso di causalità, che seguirà l’impostazione classica del “più probabile che non”. Solamente, l’evento di danno consiste nella perdita della possibilità di conseguire un determinato risultato e il risarcimento sarà parametrato alla moltiplicazione del valore del risultato sperato per la percentuale di possibilità.

Nel caso oggetto della sentenza in oggetto, tale accertamento risulta agevole, in quanto il contenuto della chance consiste nell’esercizio di un interesse legittimo pretensivo dipendente da un’attività della Pubblica Amministrazione vincolata (che si sostanzia nel mero controllo dei requisiti previsti per l’accesso alle agevolazioni previste dal conto energia). È più controversa, invece, la risarcibilità di tale figura, laddove il contenuto della chance consista nella pretesa a un bene della vita mediato dall’attività discrezionale della P.A. In tal caso, alcuni escludevano in radice la risarcibilità della chance, a ciò ostando il divieto per il G.A. di giudicare su poteri amministrativi non ancora esercitati, ai sensi dell’articolo 34, co. 2 del c.pa.

Cionondimeno, la giurisprudenza amministrativa ormai riconosce la tutelabilità della chance anche nella contrattualistica pubblica, purché il ricorrente provi la ricorrenza di una “probabilità seria e concreta” di conseguire il bene della vita sperato: la chance poco probabile, dunque, non è degna di tutela. In ogni caso, la probabilità di conseguire il risultato sperato rileva ai fini risarcitori, determinando il quantum del danno. Queste conclusioni sono state recentemente ribadite dal Consiglio di Stato con la sentenza 20 settembre 2024, n. 7703, che, rifacendosi alla già citata Plenaria 7/2021, ribadisce che in tema di procedure concorsuali è tutelata la perdita di chance solo laddove il ricorrente sia effettivamente in posizione utile per conseguire l’aggiudicazione. Di più, il collegio sottolinea un elemento di cruciale importanza: la risarcibilità deve fare i conti con l’elemento dell’ingiustizia del danno. Per cui, se la perdita della chance deriva da un provvedimento legittimo (tipicamente in sede di autotutela), l’elemento costitutivo sarà assente, potendo al massimo, in tal caso, discorrersi di lesione dell’affidamento.

In conclusione, la sentenza commentata costituisce un tassello nell’evoluzione giurisprudenziale del danno da perdita di chance, sancendone, in particolare la tutelabilità aquiliana e l’autonomia tra le voci di danno. 

2. CORTE COSTITUZIONALE E TUTELA AMBIENTALE NELLA PARTITA A SCACCHI TRA POTERE AMMINISTRATIVO E GIUDICE PENALE a cura di Federica Micarelli

Con la decisione 7 maggio 2024 n. 105, depositata a giugno, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sulla legittimità di misure governative volte ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro degli stessi da parte dell’autorità giudiziaria. Un caso in cui la Consulta si è nuovamente occupata della possibile interferenza tra potere amministrativo e giudice penale, da tempo al centro del dibattito in materia di tutela dell’ambiente.

Nello specifico, la sentenza riguarda il nuovo comma 1 bis.1 dell’art. 104 bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, introdotto dal decreto legge 5 gennaio 2023, n. 2 (recante Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale, c.d. decreto Priolo), destinato a regolare la situazione degli impianti siderurgici di Priolo Gargallo, in Sicilia, e i poteri spettanti al giudice penale. Il comma in questione disciplina il sequestro preventivo e la conseguente amministrazione di stabilimenti industriali dichiarati di interesse strategico nazionale, attribuendo al giudice penale poteri prescrittivi, tra cui l’interdizione dell’attività produttiva nel caso in cui dalla prosecuzione possa derivare un concreto pericolo per la salute o l’incolumità pubblica ovvero per la salute o sicurezza dei lavoratori.

In particolare, il quinto periodo del suddetto comma, oggetto dell’ordinanza di rimessione, obbliga il giudice penale ad autorizzare la prosecuzione dell’attività se, nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale, sono già state adottate misure per bilanciare da una parte le esigenze di continuità produttiva e salvaguardia dell’occupazione e dall’altra la tutela della sicurezza, della salute e dell’ambiente. Il giudice penale sarebbe dunque vincolato anche quando, a suo giudizio, queste misure risultino del tutto insufficienti. In pratica, questo gli precluderebbe qualsiasi potere di sindacare, inibire o anche solo condizionare l’attività produttiva a determinate prescrizioni nel bilanciamento degli interessi in gioco.

La vicenda si iscrive nella più ampia indagine per disastro ambientale ipotizzato a carico di varie aziende petrolchimiche operanti nell’area siracusana tra Augusta, Priolo e Melilli. Il sistema di depurazione presente negli impianti sarebbe inidoneo alla depurazione di rifiuti industriali, vista la mancanza di adeguati sistemi di pretrattamento e/o prevenzione di possibili effetti inattesi.

Ciononostante, il decreto Priolo, approvato a febbraio 2023, andando nella direzione opposta, aveva imposto alle imprese di raffinazione di idrocarburi, che gestiscono attività di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, di garantire la continuità produttiva. Oltre a ciò, aveva autorizzato il Governo, in caso di sequestro degli impianti, a adottare adeguate “misure di bilanciamento” (tramite decreti ministeriali o interministeriali, come nel caso di specie) al fine di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionali e l’occupazione. Di fatto, le attività potevano continuare nonostante le problematiche ambientali e di salute.

La questione di legittimità che ha dato origine alla decisione della Consulta è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari di Siracusa il quale, dopo aver disposto il sequestro preventivo dell’impianto di Priolo Gargallo e aver nominato un amministratore giudiziario, lamentava di dover comunque autorizzare la prosecuzione dell’attività, conformemente a quanto previsto dal decreto Priolo (in particolare, ex art. 6). Il GIP aveva infatti riscontrato la pericolosità della produzione in relazione alla vita, alla salute umana e all’ambiente e l’assenza di misure di miglioramento per risanare la situazione ambientale creatasi, nonché il contrasto con il programma di scarico delle acque disposto dall’amministratore giudiziario.

In particolare, nell’ordinanza a quo rilevava la violazione degli artt. 2 e 32 Cost., con riferimento alla vita e alla salute umana, e degli artt. 9 e 41 Cost., in riferimento all’ambiente, per come modificati a seguito della legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1.

La lettura del GIP è stata condivisa dalla Corte, che ha dichiarato la parziale illegittimità della disposizione, nella parte in cui non prevede che le misure indicate, e dunque la prosecuzione della produzione, si applichino per un tempo non superiore a trentasei mesi, ossia per un periodo condizionato. Trascorsi questi mesi, vanno necessariamente ripristinate le condizioni di sicurezza ed eliminate le criticità che hanno portato al sequestro dell’impianto. Il decreto Priolo, dunque, sarebbe illegittimo perché non stabilisce queste tempistiche. La Consulta, così facendo, ha trasformato in disciplina interinale ciò che il legislatore aveva invece previsto senza limite alcuno, nel tentativo di salvare la disposizione censurata tramite un’interpretazione adeguatrice.

Da un lato, la Consulta ha sostenuto la legittimità della possibilità per il Governo di dettare direttamente, in una situazione di crisi, ma in via provvisoria, misure che consentano di assicurare la continuità produttiva in uno stabilimento di interesse strategico nazionale, limitando il più possibile i rischi per l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il punto di partenza, dunque, non è del tutto contrario all’imposizione di un vincolo al sindacato del giudice penale quando sono presenti misure amministrative che bilancino gli interessi in gioco. Dall’altro lato, però, queste misure devono comunque “tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinato dall’attività delle aziende sequestrate”, e non invece “a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni” (Corte costituzionale, n. 105/2024).

La decisione si inserisce in un’ideale partita a scacchi che sempre più spesso giocano Amministrazione e giudice penale, soprattutto in un terreno, quale la tutela ambientale, così a cavallo fra i due poteri.

Fino a qualche tempo fa, in quest’ambito, il rapporto tra tutela amministrativa e penale era descritto in termini di accessorietà della seconda alla prima: il diritto amministrativo regolava in toto la materia ambientale, e l’azione penale si spingeva fino alle soglie del provvedimento amministrativo senza tuttavia esprimere un giudizio sulla gestione amministrativa del problema ambientale. Al contrario, oggi questo paradigma è stato progressivamente eroso: le procure e i giudici penali rappresentano sempre più attori emergenti e in via di espansione nella definizione delle priorità e delle modalità della tutela ambientale.

La legittimazione della Pubblica Amministrazione in materia, com’è noto, trova un aggancio fondamentale nelle competenze e nell’expertise di cui questa è dotata, funzionali ad un adeguato, forse il più adeguato, bilanciamento di interessi, espressione della sua ampia discrezionalità amministrativa. Dall’altra parte, si è assistito invece alla creazione di un vero e proprio diritto penale dell’ambiente, soprattutto in un’ottica europea, tramite la creazione di fattispecie autonome di reato volte a sanzionare azioni che possono provocare danni ambientali.

Il frutto che se ne è ricavato è stato un sistema binario e integrato, in cui l’azione penale interferisce con l’azione amministrativa, sia in fase di formazione del provvedimento, sia in quella di attuazione. Il diritto penale nella tutela ambientale è ora autonomo e a tutti gli effetti convive, su un piano di quasi parità, con il diritto amministrativo.

La vicenda in oggetto, non a caso, riprende idealmente alcuni elementi originati dal noto caso Ilva, una pronuncia cardine quando si discute della sovrapposizione tra tutela amministrativa e penale dell’ambiente. Per questo, il confronto del caso Priolo con il precedente caso Ilva è stato inevitabile. In particolare, la sentenza della Corte costituzionale n. 85/2013, che ha cercato di mettere un primo punto alla vicenda di Taranto, ha rappresentato un riferimento naturale nelle motivazioni della Consulta, per le evidenti analogie tra le questioni oggetto dei due giudizi. I decreti “salva Ilva” (d.l. 3 dicembre 2012, n. 207 e d.l. 4 luglio 2015, n. 92), come nel caso Priolo, operavano infatti un necessario bilanciamento tra esigenze di continuità dell’attività produttiva e salvaguardia dell’occupazione e sicurezza sul luogo di lavoro, salute e ambiente salubre.

Nonostante ciò, la Consulta ha operato un distinguishing rispetto alla sent. 85/2013, nella quale aveva ritenuto costituzionalmente legittima la scelta del legislatore di consentire la prosecuzione dell’attività produttiva per un arco limitato di tempo (appunto, trentasei mesi). Il tutto sotto il controllo delle Autorità competenti e sulla base di un’AIA di riferimento, contenente prescrizioni e un programma di risanamento ambientale cui il potere esecutivo doveva attenersi, soluzione che la Corte avrebbe ritenuto preferibile anche nel caso Priolo. In quest’ultimo caso, infatti, si è operato invece un rinvio sostanzialmente in bianco a “misure”, non meglio specificate, adottate dal governo in successivi decreti ministeriali.

Il suddetto distinguishing è stato poi effettuato anche alla luce dei mutati parametri costituzionali coinvolti. Infatti, nella sentenza n. 105/2024, la Corte ha dato applicazione ai riformati artt. 9 e 41 Cost. Si tratta della prima sentenza in materia dopo la novella costituzionale che ha conferito rilevanza e costituzionalizzato la tutela dell’ambiente, prevedendola come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività. L’ambiente, nelle parole della Corte, viene considerato come bene in sé, autonomo rispetto alla salute umana, che invece spesso rappresentava l’aggancio giurisprudenziale per tutelarlo.

La questione rimane ancora una volta quella di trovare un punto di equilibrio non solo tra esigenze ed interessi contrapposti, ma anche nelle tensioni tra le autorità competenti ad effettuare questo delicato bilanciamento. Agli occhi di molti, infatti, questa pronuncia alimenta l’acceso dibattito tra i difensori di una tutela ambientale tradizionale, ad opera dell’autorità amministrativa, e quelli di una tutela che comprenda anche, ormai su un piano di parità, l’intervento dell’autorità giudiziaria.

La decisione, di certo, rischia di invadere il recinto della discrezionalità dell’Amministrazione, da sempre protagonista delle scelte in materia. Il giudizio penale, infatti, opera esso stesso un bilanciamento di interessi che potrebbe essere alternativo e sostitutivo di quello amministrativo, rendendo così il provvedimento instabile e incapace di fissare un equilibrio duraturo. In questo modo, non si raggiunge l’obiettivo di checks and balances tra i vari poteri dello Stato, ma si crea un conflitto tra Amministrazione e potere giudiziario, delegittimante per entrambi, di cui a farne le spese sono gli interessi coinvolti, come nel caso di specie.

3. LA DECISIONE CON IMPEGNI NELL’ACQUISIZIONE DI PPF TELECOM a cura di Riccardo Zinnai

Il 24 settembre 2024 la Commissione ha concluso la prima indagine approfondita ai sensi del Regolamento sulle sovvenzioni estere. La procedura ha avuto ad oggetto una concentrazione consistente nell’acquisizione di PPF Telecom Group ad opera di Emirates Telecommunications Group (e&). La Commissione nell’avvio dell’indagine approfondita aveva ritenuto che l’esclusione di e& dal diritto fallimentare degli Emirati Arabi Uniti e un prestito concesso da un sindacato di cinque banche ma riconducibile agli Emirati Arabi potessero essere sovvenzioni estere distorsive della procedura in questione.

Al termine dell’indagine approfondita, la Commissione ha adottato una decisione con impegni, ai sensi dell’articolo 11 par. 3 del Regolamento 2022/2560. Tale decisione può essere assunta quando la Commissione giunge alla conclusione che vi è una sovvenzione estera distorsiva del mercato interno e l’impresa oggetto di indagine ha proposto degli impegni valutati come adeguati e sufficienti a porre rimedio alla distorsione. La decisione ha poi l’effetto di rendere gli impegni proposti vincolanti per l’impresa.

Nel caso di specie, la Commissione dopo aver raccolto informazioni aggiuntive dalle imprese coinvolte e anche da imprese concorrenti nel mercato europeo ha ritenuto che di confermare che e& e la sua controllante, denominata Emirates Investment Authority (EIA) avente la natura di fondo sovrano, hanno ricevuto sovvenzioni estere distorsive del mercato interno dagli Emirati Arabi Uniti. Tali sovvenzioni hanno assunto la forma di garanzie illimitate, prestiti e altri strumenti di debito a favore di EIA.

È molto interessante notare che secondo la Commissione tali sovvenzioni non hanno avuto un effetto distorsivo né effettivo né potenziale sul processo di acquisizione. Ciò in quanto e& è stato l’unico offerente avente già di per sé sufficienti risorse per procedere all’acquisizione e in ogni caso il prezzo di mercato è stato in linea con quello di mercato. In altre parole, si può dire che non vi è stata una distorsione né dal punto di vista del verificarsi della concentrazione stessa né nel prezzo pagato.

Tuttavia, la Commissione ha ritenuto che le sovvenzioni estere potessero avere un effetto distorsivo sulla concorrenza nel mercato europeo in una fase successiva all’acquisizione. Il raggiungimento di tale conclusione è avvenuto applicando il ragionamento di tipo presuntivo previsto dall’art. 5 FSR per cui è considerato «molto probabile» che le garanzie illimitate possano provocare distorsioni di mercato. L’entità risultante dalla concentrazione avrebbe avuto infatti un vantaggio creato artificialmente da poter usare per finanziare le proprie attività a causa dell’indifferenza al rischio. Ciò avrebbe potuto portare ad investimenti, quali l’installazione di infrastrutture o la partecipazione ad aste per l’assegnazione delle frequenze elettromagnetiche, che non potrebbero essere normalmente realizzati con tali modalità da un’impresa non sovvenzionata.

Gli impegni proposti ed accettati dalla Commissione prevedono in primo luogo che lo statuto di e& sia in linea col diritto fallimentare degli Emirati Arabi Uniti, rimuovendo la garanzia illimitata di Stato. In secondo luogo, si è previsto un divieto per l’Emirates Investment Authority di finanziare le attività economiche di e& e PPF Telecom nel mercato dell’Unione europea, con alcune eccezioni che saranno monitorate dalla Commissione europea. Si è anche previsto che le transazioni tra dette società dovranno avvenire con modalità in linea con il mercato. In terzo luogo, e& si è impegnata a notificare alla Commissione future acquisizioni anche se non sarebbero altrimenti soggette all’obbligo di notifica preventiva.

La Commissione ha dunque valutato che tali impegni rimuovono il rischio di distorsioni ed assicurano un’adeguata vigilanza sul rispetto degli impegni che verrà affidata ad un fiduciario indipendente. Gli impegni rimarranno validi per dieci anni ma potranno essere prorogati dalla Commissione per ulteriori cinque anni e anche per un tempo più lungo in caso di accordo tra la Commissione ed e&.

In questo modo, la concentrazione non pone più pericoli per la concorrenza sebbene la decisione sia soggetta alla condizione che tali impegni siano effettivamente rispettati. La Vice-Presidente Esecutiva Vestager si è detta soddisfatta dell’esito della procedura e ha apprezzato l’atteggiamento collaborativo delle parti in questione.

Dal punto di vista normativo, è importante ricordare che l’articolo 19 FSR relativo al controllo preventivo sulle sovvenzioni estere in una concentrazione prevede che occorra limitarsi alla concentrazione in questione. Tuttavia, come segnalato dalla dottrina e poi confermato dalla Commissione nei chiarimenti pubblicati a luglio 2024, gli effetti possono riguardare anche le distorsioni nelle attività dell’entità risultante dalla concentrazione.

Da un punto di vista dell’analisi critica del Regolamento, la presente decisione lascia aperto un dubbio. Infatti, per gli effetti distorsivi riguardanti l’operazione di concentrazione in sé, ci si è chiesto quali impegni possano risultare efficaci in modo da evitare una decisione che vieta la concentrazione. In questo caso, gli impegni sono risultati adeguati e sufficienti perché gli effetti distorsivi si sarebbero manifestati solo dopo la concentrazione, lasciando quindi irrisolta la questione.

Infine, il Regolamento sulle sovvenzioni estere sta entrando in una fase in cui è parte di una “nuova normalità” dell’ordinamento europeo. Non si può ignorare come la Commissione abbia frequentemente enfatizzato l’elemento di novità quando parti della nuova normativa sono state applicate per la prima volta, rilasciando spesso comunicati stampa.

Ora invece, sebbene sul portale dedicato risulta che sei operazioni di concentrazione siano state notificate nel mese di ottobre, la Commissione non ha ritenuto di rilasciare alcun comunicato.

Tuttavia, sebbene il Regolamento potrebbe aver ormai aver perso quella caratteristica di novità che ne giustificava un’elevata attenzione a livello mediatico, la sua applicazione rimane particolarmente significativa per l’Unione europea. Ciò è reso evidente anche dal fatto che il Regolamento (UE) 2022/2560 sia stato menzionato espressamente nelle lettere di missione che von der Leyen ha consegnato ai nuovi commissari designati Ribera Rodríguez e Séjourné.

4. I COMPENSI DEGLI ORGANI AMMINISTRATIVI DI VERTICE: COSA ACCADRA’ NEL 2025? a cura di Martina Bordi

Lo scorso 23 ottobre, il Governo, a seguito della bollinatura della Ragioneria generale dello Stato, ha presentato al Parlamento il disegno di legge di bilancio 2025.

Tra le novità introdotte nel disegno di legge ha suscitato molto scalpore, nel dibattito pubblico, l’art. 111 rubricato – Misure in materia di organi amministrativi degli enti.

L’articolo in esame prevede che, i compensi corrisposti agli organi amministrativi di vertice degli enti e degli organismi di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 196/2009, nonché degli enti, organismi e fondazioni che ricevono, anche in modo indiretto e sotto qualsiasi forma, contributi a carico della finanza pubblica, non possono superare il limite dell’importo annuo corrispondente al 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo spettante al primo Presidente della Corte di cassazione (pari a euro € 241.080,00).

I soggetti destinatari della disciplina dell’art. 111 sono individuati nella legge n. 196/2009, recante Legge di contabilità e finanza pubblica, con cui il legislatore aveva inteso razionalizzare e potenziare il complesso delle regole e delle procedure che presiedono il sistema delle decisioni di bilancio.

In particolare, l’articolo 1, comma 2, dispone che, per amministrazioni pubbliche si intendono gli enti e i soggetti indicati ai fini statistici nell’elenco ISTAT, effettuati sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti dell’Unione europea, le Autorità indipendenti e le amministrazioni pubbliche, come definite dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001: si tratta di tutte le amministrazioni dello Stato, tra le quali, ad esempio, le scuole di ogni ordine e grado, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, le Regioni, le Province e i Comuni.

La proposta normativa, contenuta nel ddl bilancio, al secondo comma, dispone che per organi amministrativi di vertice si intendono coloro che svolgono attività di amministrazione attiva e consultiva degli enti e degli organismi, comunque denominati dai rispettivi ordinamenti, organizzati anche in forma collegiale.

In particolare, gli organi amministrativi di vertice degli enti e degli organismi tra le amministrazioni pubbliche, che saranno soggetti alle misure saranno individuati, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della disposizione (quindi entro il 29 giugno 2025), con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze.

Dall’applicazione del 1 comma dell’art. 111 vengono escluse le autorità amministrative indipendenti e le società, per le quali la determinazione dei compensi degli organi di amministrazione avviene ai sensi dell’articolo 11, commi 6 e 7, del d.lgs. n. 175/2016.

Quest’ultimo articolo prevede che, per le società a controllo pubblico, il Ministro dell’economia e delle finanze, con decreto, individua cinque fasce di classificazione delle società attraverso indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi.

A ciascuna fascia corrisponde, in proporzione, un limite di compenso annuo massimo percettibile che non potrà eccedere la soglia di euro 240.000 annui, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali, tenendo altresì conto di eventuali ulteriori compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da società a controllo pubblico.

Esclusi altresì dall’applicazione della disposizione sono gli organi costituzionali e a rilevanza costituzionale, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali e i loro organismi ed enti strumentali, gli Enti gestori di forme obbligatorie di assistenza e previdenza, l’ISTAT, l’INPS, l’INAIL, le Agenzie fiscali.

Inoltre, non sono soggetti al tetto i trattamenti economici e gli emolumenti comunque denominati per l’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate o in ragione di rapporti di lavoro subordinato, erogati dalle autorità amministrative indipendenti, dagli enti pubblici economici e dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001.

A legislazione vigente, il trattamento economico degli organi amministrativi di vertice è disciplinato dagli art. 23 bis e 23 ter del d.l. n. 201/2011, così come modificato dal d.l. n. 66/2014, in un contesto di approvazione di misure di contenimento della spesa pubblica.

Inizialmente, fu introdotto un limite massimo retributivo per tutto il personale pubblico, fissato in euro 240.000, al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.

Il limite massimo retributivo di euro 240.000 fu individuato parametrando il trattamento economico del Primo presidente della Corte di cassazione.

I soggetti destinatari della misura erano stati individuati in qualsiasi soggetto che riceveva, a carico delle finanze pubbliche, emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo (inclusi i componenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo) con pubbliche amministrazioni statali e con società dalle stesse partecipate. 

La determinazione puntuale della cifra era stata demandata ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri: il d.P.C.M. del 23 marzo 2012 ha quantificato in 293.658,95 euro tale indice.

In particolare, il d.P.C.M. ha definito, in relazione alle diverse funzioni svolte, il trattamento economico erogabile, fermo restando il parametro massimo di riferimento.

Successivamente, la legge di stabilità 2014 ha esteso l’ambito di applicazione soggettivo del limite previsto dall’art. 23-ter del d.l. n. 201/2011, il quale trovava applicazione, dal 1° gennaio 2014, anche nei confronti di chiunque riceveva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo con le autorità amministrative indipendenti e, anche, agli emolumenti dei componenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001.

La misura contenuta nel disegno di Legge di Bilancio 2025, che, in termini quantitativi, fissa nella misura di circa 120.000 euro lordi il trattamento massimo erogabile, ha suscitato non poco scalpore nel dibattito pubblico.

Tra le perplessità sorte si è posto l’accento sull’esclusione dal novero della disciplina, in base al comma 4, dell’art. 111, alle Casse di Previdenza dei Professionisti.

Questa esclusione suscita perplessità poiché, ai fini dell’applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono gli Enti e i soggetti indicati a fini statistici nell’elenco oggetto del comunicato dell’ISTAT, effettuato in base all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, tra i quali, per l’appunto, rientrano le Casse di Previdenza dei Professionisti.

A fortiori, il Consiglio di Stato si è espresso sul carattere pubblicistico delle Casse di Previdenza dei Professionisti e quindi sulla legittimità del loro inserimento nell’elenco ISTAT delle Pubbliche Amministrazioni.

A rigor di logica, proprio per la sua natura giuridica, dovrebbe rientrare nell’ambito applicativo del 1 comma dell’articolo in esame.

La ratio della misura si sostanzia in un inno al ridimensionamento e al risanamento della spesa pubblica. Bisogna, tuttavia, interrogarsi sulla propositività della stessa.

Lo snodo centrale riguarda la necessità di reclutare personale con competenze specialistiche e doti manageriali, in grado di far competere e rendere attrattivo il lavoro pubblico.

Varie riforme nel corso degli anni, inneggiate alla necessità di tagliare la spesa pubblica hanno invece, al più, alimentato un taglio alla qualità dei servizi, comportando un abbandono dei migliori e la pigrizia di altri.

Un maggior efficientamento della Pubblica Amministrazione potrebbe, invero, essere conseguito attraverso l’inserimento di un sistema meritocratico.

5. MILANO-CORTINA 2026: UN CANTIERE PER LO SVILUPPO DEL PAESE a cura di Michele Sangiovanni

In data 23 settembre 2024, è stata pubblicata in G.U. la delibera CIPESS 9 luglio 2024, n. 51 con la quale sono state approvate le “Linee guida per lo svolgimento dei controlli antimafia nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti per lavori, servizi e forniture connessi all’organizzazione e allo svolgimento dei Giochi olimpici e paraolimpici invernali Milano – Cortina 2026 e annesso schema di protocollo quadro”.

Le Linee guida seguono le procedure e le modalità, anche informatiche, previste dalla delibera CIPE relativa al Monitoraggio sulle Grandi Opere (28 gennaio 2015, n.15), che hanno il fine di rafforzare la cornice di sicurezza, trasparenza e legalità.

A quest’ultima delibera è inoltre allegato un protocollo-quadro che riprende il protocollo-tipo di cui alla delibera CIPE 26 novembre 2020, n. 62 (Accordi di legalità) quale schema di accordo elaborato per la prevenzione e la repressione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nella realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari del Paese e altre opere assimilate. Il protocollo-quadro individua gli impegni di collaborazione che dovranno essere assunti dalle stazioni appaltanti in qualità di responsabili per la prevenzione antimafia delle attività affidate. Le stazioni appaltanti vigileranno sull’inserimento delle stesse clausole negoziali nei subcontratti e subappalti e sul loro adempimento da parte dei sub-contraenti.

Infine, circa le procedure di controllo preventivo ed in fase di esecuzione contrattuale, preme da subito evidenziare come il Comitato richiami alcune delle buone pratiche applicate durante Expo 2015 e nella ricostruzione post-sisma 2016, soprattutto per quel che riguarda i controlli preventivi e il loro ambito di applicazione.

          La Delibera n.51 2024 attribuisce alla Struttura di prevenzione antimafia, incardinata presso il Ministero dell’Interno, il coordinamento e l’indirizzo delle azioni dirette a contrastare i tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata nella fase di affidamento dei contratti, subcontratti e subappalti e in quella successiva dell’esecuzione. La Struttura si avvale della collaborazione delle stazioni appaltanti, in qualità di responsabili della prevenzione antimafia. Queste ultime assicureranno il costante e tempestivo flusso informativo nella fase esecutiva a favore della Struttura, attraverso una riduzione delle tempistiche di comunicazione.

      Al fine di intercettare eventuali episodi di intrusione nelle commesse pubbliche, la delibera attribuisce agli esecutori delle prestazioni contrattuali l’adempimento di specifici impegni che assumeranno in sede negoziale con il soggetto aggiudicatore (e indicato nel protocollo-quadro). Inoltre, gli esecutori dovranno predisporre autonome e mirate misure di vigilanza, tenuto conto della natura e delle caratteristiche delle attività in concreto svolte e dal contesto ambientale in cui operano.

       Per la partecipazione degli operatori economici alle procedure di aggiudicazione per la prestazione delle attività connesse al ciclo di interventi infrastrutturali individuati dal Piano complessivo delle opere pubbliche Milano – Cortina 2026 (come indicato nel Dpcm 8 settembre 2023), è necessaria l’iscrizione nell’Anagrafe antimafia. Gli operatori non iscritti potranno comunque partecipare, previa dimostrazione o esibizione di una dichiarazione sostitutiva. I contraenti ed i subcontraenti dovranno rimanere iscritti all’anagrafe per l’intera durata dell’esecuzione delle prestazioni e tale requisito sarà verificato dalle stazioni appaltanti.

          L’iscrizione è disposta dalla Struttura, secondo quanto già previsto dall’art. 30 d.l. 189 2016 (“Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016”), all’esito di verifiche antimafia concluse con esito liberatorio, o con la prescrizione delle misure amministrative di prevenzione collaborativa ex art. 94-bis del Codice delle leggi antimafia. La struttura avvierà la procedura in contraddittorio ex art. 92 co.2-bis del predetto codice, purché non ricorrano particolari esigenze di celerità. L’iscrizione ha un periodo di validità temporale di dodici mesi ed è rinnovabile alla scadenza, su iniziativa dell’operatore economico interessato, previo aggiornamento delle verifiche antimafia.

È prevista poi, per gli operatori economici già iscritti nella c.d. white list prevista dall’art. 1, commi 52-57, della Legge 6 novembre 2012, n. 190, l’iscrizione automatica. In questa ipotesi, l’iscrizione in anagrafe avrà un periodo di validità temporale pari a quello residuo dell’iscrizione già in corso nell’elenco provinciale. La struttura procederà all’iscrizione in anagrafe per il periodo di validità temporale di dodici mesi dell’operatore economico che, all’esito della consultazione della Banca dati nazionale antimafia, risulti già censito, acquisendo agli atti l’informazione antimafia liberatoria rilasciata in via automatica dalla stessa banca dati.

          Al fine di accelerare la procedura amministrativa, il Comitato di Coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle Infrastrutture e degli insediamenti Prioritari (CCASIIP) ha ritenuto ai sensi dell’art. 39 co.9 del d.lgs n.36/2023, e richiamato nelle linee guida approvate dal CIPE con delibera n.51 2024, di introdurre per i lavori, le forniture e le prestazioni di servizi necessari all’organizzazione e allo svolgimento dell’evento sportivo, una soglia pari a 100.000 euro del valore dei contratti, subcontratti e subappalti, al di sotto della quale i partecipanti alle relative procedure di affidamento debbono presentare al soggetto aggiudicatore l’autocertificazione concernente l’assenza delle situazioni interdittive alla conclusione di rapporti con la pubblica amministrazione. Sarà poi cura dello stesso soggetto aggiudicatore, ex art. 89 del Codice delle leggi antimafia, trasmetterle alla Struttura.

       L’individuazione di tale soglia, ampiamente inferiore a quanto stabilito dall’art. 83 co. 3 lett. e) del Codice delle leggi antimafia, intende scongiurare possibili appesantimenti o rallentamenti dei controlli, senza però pregiudicarne l’incisività ed efficacia.

         Nella logica di massima prevenzione e deterrenza, analogamente a quanto previsto in occasione di Expo 2015, la Struttura ha l’obbligo di attivare le forme di monitoraggio antimafia anticipato. Questa attività di prevenzione sarà di grande utilità anche laddove il soggetto economico non risulti successivamente interessato dal ciclo di esecuzione dei lavori e si rende necessaria alla luce del rischio che gli ingenti investimenti previsti possano alimentare eventuali forme di migrazione di imprese. Sono state inoltre confermate le modalità di verifica antimafia già utilizzate per l’iscrizione degli operatori economici interessati ai lavori di ricostruzione post–sisma 2016. In particolare, il Comitato ha confermato l’articolazione della procedura di rilascio dell’informazione antimafia. Quest’ultima rimane così suddivisa in una prima fase (c.d. speditiva),finalizzata allo scrutinio dell’operatore sulla scorta di evidenze documentali, giudiziarie o di prevenzione secondo un modello operativo di collaborazione con le direzioni distrettuali interessate affinato all’esito delle esperienze pregresse; mentre la seconda è diretta al definitivo accertamento della sussistenza di eventuali situazioni rilevanti ex art. 84 co.4 e 91 del Codice delle leggi antimafia.

        Nella prima fase, gli accertamenti saranno svolti dalla DIA e orientati a verificare eventuali cause automaticamente ostative, o evidenze a forte valenza indiziante che attestano l’appartenenza o la contiguità con ambienti criminali o, in caso di provvedimenti non ancora definitivi, la probabilità di simili situazioni.

          La Struttura rilascerà, in assenza di controindicazioni da parte della DIA, un’informazione speditiva provvisoria e disporrà l’iscrizione in anagrafe dell’operatore economico. A seguito della conferma dell’assenza di controindicazioni, la Struttura rilascerà l’informazione liberatoria; altrimenti adotterà un’informazione interdittiva disponendo la cancellazione contestuale dall’anagrafe.

          Continuando l’esame della normativa, nella successiva fase dell’esecuzione contrattuale, l’attività di controllo esercitata dalla Struttura è finalizzata ad intercettare, anche attraverso il ricorso all’accesso nei cantieri, tutte le eventuali situazioni di opacità ed illegalità predittive di una ingerenza criminale che tende a manifestarsi nel momento in cui il ciclo contrattuale appare più vulnerabile.

       La Struttura eserciterà tale attività di vigilanza ad ampio raggio avvalendosi di banche dati appositamente istituite e gestite dalle stazioni appaltanti, in qualità di responsabili per la prevenzione antimafia delle attività affidate e sulla scorta dell’esperienza consolidata per la prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nella realizzazione di infrastrutture ed insediamenti prioritari ed opere assimilate.

        In conclusione, possiamo osservare come le misure introdotte siano finalizzate ad accelerare le procedure di controllo e di verifica antimafia, tramite la riduzione delle tempistiche; mentre la semplificazione delle procedure amministrative trova come punto di caduta la ricercata collaborazione delle stazioni appaltanti. I lavori della Milano – Cortina 2026 confermano dunque il ruolo centrale che il sistema di monitoraggio finanziario MGO (con gli strumenti di tipo finanziario e giuridico quali i conti correnti dedicati, banche dati MGO, il protocollo – tipo) svolge nel processo di realizzazione, esecuzione e controllo delle grandi opere nel nostro Paese.

6. MALFUNZIONAMENTO DELLA PIATTAFORMA DIGITALE E PRINCIPIO DEL RISULTATO: LA SENTENZA DEL TAR LAZIO N. 14747/2024 a cura di Linda Sanson

Con sentenza n. 14747/2024 il Tar Lazio sezione prima ter si è espresso in merito al ricorso proposto da Digitalway Sas di Fadi Chazli and Co. (Digitalway) contro il Ministero dell’Interno Dip. Polizia di Stato e nei confronti di Tach Controller s.r.l. (Tach).

La ricorrente chiedeva l’annullamento del decreto del ministero dell’interno con cui aggiudicava la gara in favore di Tach. Le motivazioni del ricorso si rinvengono in epigrafe alla sentenza; in particolare Digitalway lamentava l’illegittimità della valutazione delle offerte economiche effettuate dalla Commissione di gara a seguito del riscontro di un malfunzionamento della piattaforma di approvvigionamento digitale. Per capire meglio la questione è bene precisare che nel caso di specie, la procedura di gara era stata esperita, ai sensi dell’art 32 D.lgs. 36/2023, mediante ricorso al “Sistema dinamico di acquisizione della PA” e in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Tuttavia, un malfunzionamento della piattaforma digitale “Acquisti in rete”, con cui è stata gestita la gara, ha portato la Commissione di gara ad attribuire i punteggi economici dei due concorrenti sulla base dei dati risultanti dal “Modello di offerta economica predisposto dalla Stazione Appaltante”. La conseguenza è stata che,  per il punteggio economico,  a Digitalway sono stati assegnati 8,944 punti mentre alla concorrente Tach ne sono stati assegnati 30,00. La ricorrente ha quindi contestato la scelta della Commissione di basare la propria valutazione sui dati indicati dal modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante, piuttosto che di quelli generati dal sistema. Alla luce di ciò secondo la ricorrente, la Commissione di gara avrebbe agito in violazione dell’art 8.9 del Capitolato d’oneri secondo cui “in caso di discordanza tra il valore complessivo inserito nell’offerta generata dal “sistema” e quello del modello di offerta economica predisposta dalla stazione appaltante, sarà preso a riferimento quello riportato nello schema di offerta generato dal “sistema”. La corretta applicazione del capitolato avrebbe comportato l’aggiudicazione a favore di Digitalway con punteggio finale di 97,728.

Il Ministero dell’Interno, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per tardività, nonché la sua infondatezza. Oltre a ciò, ha evidenziato che il sistema aveva generato un errore di calcolo non traguardabile e che il modello di offerta predisposto dalla stazione appaltante era l’unico contenente dati coerenti e verificabili per entrambi gli operatori economici candidati, in grado di rappresentare il reale concreto intento negoziale degli stessi. Infine, la circostanza per cui, nonostante il malfunzionamento, l’offerta di Tach presentava il medesimo importo complessivo offerto, è imputabile all’accorgimento della società stessa che innalzando uno degli importi delle “linee di intervento” (supporto tecnico) sulla “scheda di offerta del sistema” era riuscita far coincidere i due importi complessivi offerti.  L’amministrazione, perciò, osserva due fattori per cui eccepisce l’infondatezza del ricorso. In primo luogo, pur seguendo il ragionamento della ricorrente, entrambe le offerte presentate avrebbero dovuto essere escluse dalla Commissione: quella della ricorrente perché non vi era corrispondenza tra la “scheda di offerta del sistema” e il “modello di offerta” predisposto dalla stazione appaltante per l’ammontare complessivo dell’offerta; quella dell’aggiudicatario perché non vi era coincidenza di importi, dei due modelli, relativamente alla voce unitaria del “supporto tecnico”. In secondo luogo, la stazione appaltante, preso atto del vizio di sistema che si è riflesso sullo “schema di offerta generato dal sistema”, attribuendo il punteggio economico sulla base del modello di offerta ha operato in conformità al principio della par condicio e al principio del risultato ex art 1 D.lgs. 36/2023.

L’eccezione di inammissibilità del ricorso è stata respinta (la nota del Ministero dell’Interno del 26 aprile 2024 è un mero atto endo-processuale privo di autonomo valore lesivo e non idoneo, dunque, a far decorrere il termine decadenziale ai fini impugnatori). Nel merito il ricorso è fondato e i due motivi di censura sono stati esaminati congiuntamente.

A questo punto, prima di esaminare la decisione nel merito, pare opportuno svolgere delle considerazioni, al solo fine di comprendere più agevolmente il contesto giuridico in cui si staglia la decisione.

Acquisti in rete è una piattaforma online, essenziale per ottimizzare gli acquisti pubblici, e che favorisce modelli di approvvigionamento innovativi e razionalizzati per la PA: la piattaforma centralizza le procedure di acquisto della PA e ospita vari strumenti, tra cui il Sistema dinamico di acquisizione della pubblica amministrazione (SDAPA). Quest’ultimo è uno strumento di negoziazione interamente elettronico di cui la pubblica amministrazione può avvalersi per l’acquisto di beni e servizi di qualsiasi valore. Le società concorrenti caricano sul sistema i propri dati e la piattaforma genera una “scheda di offerta economica”. Nel caso di specie il malfunzionamento della piattaforma Acquisti in rete ha portato ad un errore di calcolo negli importi economici offerti dalle due concorrenti, il che è da considerarsi un fattore indispensabile essendo la procedura di gara esperita in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. A fronte di tale situazione la Commissione di gara ha deciso di aggiudicare la gara guardando al modello di offerta economica predisposto dalla Stazione Appaltante e che era stato compilato debitamente dalle concorrenti. 

Preso atto degli indubbi vantaggi che presentano le gare telematiche, tra cui è bene ricordare benefici in termini logistico-organizzativi, di sicurezza, segretezza, celerità e tracciabilità dell’offerta, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sezione prima) ha esaminato la questione ripercorrendo il percorso logico-motivazionale seguito dalla Commissione. Precisamente, la Commissione ha riscontrato l’inaffidabilità degli importi riportati nella scheda di offerta generata dal sistema che pertanto non sono stati considerati per l’attribuzione del punteggio economico. Al contrario i dati presenti nelle schede predisposte dalla stazione appaltante risultavano completi e coerenti. La Commissione ha quindi utilizzato questi documenti per consolidare la graduatoria provvisoria della gara. Per la giurisprudenza consolidata in materia di gare telematiche, le conseguenze degli esiti anormali del sistema non possono comunque andare a detrimento dei partecipanti, stante la natura meramente strumentale del mezzo informatico. Da questa, infatti, deriva il corollario dell’onere per la PA di doversi accollare il rischio dei malfunzionamenti e degli esiti anomali dei sistemi informatici di cui la stessa si avvale, essendo evidente che l’agevolazione che deriva alla PA stessa, deve essere controbilanciata dalla capacità di rimediare alle occasionali possibili disfunzioni. In questo caso infatti la stazione appaltante si è fatta coerentemente carico dell’inconveniente tecnico; non potendo applicare l’art 8.9 del capitolato d’oneri, si è trovata di fronte alla necessità di valutare quale fosse la reale volontà economica delle parti e di confrontare l’unico dato attendibile a disposizione, ossia il valore offerto nel modello predisposto dalla stazione appaltante che era anche quello su cui gli offerenti avevano il pieno e diretto controllo.

Il Tribunale ha riconosciuto che questo operato da parte della Stazione Appaltante ha salvaguardato la volontà espressa da entrambe le imprese; ciò in coerenza con i principi che regolano l’interpretazione della volontà degli offerenti in sede di gara, con il principio del risultato, il principio della fiducia e quello del favor partecipationis. In questo caso non si riscontra il lamentato esercizio arbitrario della discrezionalità dell’amministrazione. Questa non solo, per principio, gode di ampia discrezionalità nella fissazione dei criteri di valutazione delle offerte e alla correlativa attribuzione di punteggio, ma può anche svolgere un’attività interpretativa della volontà dell’impresa concorrente, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell’offerta.

Il Collegio ritiene poi di dover rimarcare che l’operato della Stazione Appaltante nel guidare l’interprete nella lettura e applicazione del nuovo impianto normativo di settore e di disciplina di gara è perfettamente in linea con il principio ex art 1 D.lgs. 36/2023. È infatti il principio del risultato, collocato al vertice della disciplina del nuovo codice, a guidare il Collegio in questa decisione.  Il principio del risultato mira a garantire il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza. Il co.4 dell’art 1 poi prevede che il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto. Da qui il Collegio, come evidenziato dal TAR Campania con sentenza n. 2959/2024, ricava il dovere degli enti committenti di ispirare le loro scelte discrezionali al raggiungimento del risultato più che ad una lettura formale della norma.

Il principio del risultato è poi avvinto all’ulteriore principio della fiducia ex art 2 del medesimo codice, il quale amplia i poteri valutativi e la discrezionalità della PA, in chiave di funzionalizzazione verso il miglior risultato.

Appare dunque evidente che il chiarimento reso dalla stazione appaltante nel verbale del 26 Aprile 2024 e l’attribuzione dei punteggi si collochi coerentemente nel solco delle innovative disposizioni cui deve ispirarsi l’azione amministrativa. Il Collegio non ritiene fondata l’asserita violazione dell’art 8.9 Capitolato che presuppone lo svolgimento fisiologico della gara e la presenza di una situazione “ordinaria” di contratto dei due importi offerti. In questo caso però il disallineamento è da ricondurre ad un malfunzionamento della piattaforma di gara, fattispecie non regolata da alcuna lex specialis. Neppure si riscontra il lamentato vulnus al principio di immutabilità dei prezzi unitari, poiché il punteggio riguardava solo il valore complessivo dell’offerta. A ciò si aggiunge indispensabilmente, che anche se la Commissione avesse ignorato il malfunzionamento e avesse applicato la disposizione ex art 8.9, l’esito della procedura sarebbe stato comunque il medesimo (“nel punteggio complessivo risulterebbe pur sempre preferibile l’attuale controinteressata, con 97,894 punti totali, contro i 97,728 della ricorrente”).

Il Collegio ritiene il ricorso infondato e lo respinge

Questa sentenza si inserisce in un contesto normativo innovativo, e così si premura di ribadire nuovamente la natura indispensabile dei principi che devono ispirare l’azione amministrativa. Il principio del risultato è inteso come l’interesse pubblico primario del codice stesso, la sua posizione al vertice del codice è sintomo del carattere fondamentale per cui viene sovraordinato. Il risultato rappresenta la finalità ultima dell’azione amministrativa che si estrinseca a sua volta in tempestività e ricerca del migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo. L’art 1 del D.lgs. 36/2023 arricchisce ulteriormente il principio del risultato sia richiamando i principi di concorrenza e trasparenza, funzionali al perseguimento del risultato, sia rendendolo criterio prioritario nell’esercizio della discrezionalità amministrativa. Perciò il principio dell’art 1 risulta strettamente connesso anche al principio di fiducia dell’art 2: il risultato è il criterio di valutazione della responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative e tecniche nelle fasi di vita del contratto, oltre che metro di attribuzione degli incentivi previsti dalla contrattazione collettiva. Con questa pronuncia il Collegio, di fronte al malfunzionamento della piattaforma, ha dimostrato un adeguamento coerente alla centralità che il legislatore ha assegnato al principio del risultato del nuovo codice dei contratti pubblici. La decisione riflette un approccio interpretativo che, in linea con l’art 1 del D.lgs. 36/2023, privilegia il concreto raggiungimento degli obiettivi di qualità, trasparenza e tempestività. Il Tribunale ha rafforzato l’orientamento per cui la PA, anche in presenza di difficoltà tecnologiche, è chiamata a interpretare e applicare le norme sempre in funzione del risultato concreto dell’azione amministrativa.

7. IL RISULTATO NELLA FASE DI ESECUZIONE DEL CONTRATTO: ALCUNE NOVITA’ NELLO SCHEMA DI CORRETTIVO a cura di Cristiana Traetta

Il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo c.d. correttivo al Codice dei Contratti Pubblici, in occasione della riunione del 21 ottobre 2024. La sua predisposizione è stata preceduta dall’apertura di tavoli e da un’articolata consultazione del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti (MIT) con 94 stakeholders, di cui 77 operatori privati e 17 soggetti pubblici, con 630 contributi presentati.
Il provvedimento è stato adottato in attuazione dell’art. 1, comma 4, della legge delega n. 78 del 2022, il quale prevedeva la possibilità – entro due anni dalla data di entrata in vigore del Codice – di apportare mediante decreto legislativo “le correzioni e integrazioni che l’applicazione pratica renda necessarie od opportune”. Allo stato e stando al Comunicato reso noto attraverso il Sito del MIT e della Presidenza del Consiglio, si introducono numerose modifiche sparse, che avrebbero ad oggetto dieci macro-temi principali: dall’equo compenso, alla revisione dei prezzi, agli incentivi ai RUP, all’accesso al credito delle imprese, al Collegio Consultivo Tecnico (CCT).
Tra gli 89 articoli di cui si compone il correttivo, gli articoli 18, 36, 37, 39 e 40 ridefiniscono alcuni aspetti della fase esecutiva, legate al profilo del risultato- prestazione.
Il perseguimento del risultato, inteso quale scopo del contratto, è alla base delle prescrizioni del bando e degli atti di gara, nell’ottica delle quali avviene la stessa aggiudicazione in favore di una determinata offerta. Tuttavia, eventi sopravvenuti e talvolta imprevedibili possono ostacolare o rendere più oneroso l’adempimento della prestazione per come originariamente delineata, rendendo necessario addivenire ad alcune modifiche, in modo tale che non siano vanificate le ragioni alla base dell’indizione della gara e siano soddisfatte le relative esigenze.
Orbene, anche nella fase successiva a quella della selezione del contraente occorre rispettare il principio di concorrenza e il corollario della par condicio, con la conseguente limitazione delle possibilità di rinegoziare l’assetto definito del contratto: ogni modifica che intervenga su questo incide sugli interessi legittimi dei soggetti che alla procedura avevano partecipato in base alle condizioni inizialmente stabilite. Il previo svolgimento della procedura va debitamente considerato nella rimodulazione del contratto, in quanto l’affidatario stesso è stato scelto sulla base di quelle prescrizioni originarie sulle quali si ha esigenze di intervenire.
L’articolo 120 d. lgs. 36/2023 individua ex lege le condizioni che possono legittimare una modifica delle condizioni contrattuali inizialmente pattuite, senza che la mancata indizione di una nuova gara integri una violazione dei principi in materia di concorrenza, per com’anche sanciti dal diritto europeo (art. 72 Dir. 2014/24/UE e 89 Dir. 2014/25/UE). Non a caso uno dei criteri alla luce
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del quale valutare una modifica come sostanziale, e dunque inammissibile, è sancita dall’attuale comma 5 che descrive quale sostanziale quella revisione che “introduce condizioni che, se fossero state contenute nella procedura d’appalto iniziale, avrebbero consentito di ammettere candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o di accettare un’offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure avrebbero attirato ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione”.
La disciplina si connota per la ricerca di un equilibrio fra interessi contrastanti: da un lato quello della stazione appaltante alla rapida esecuzione del contratto e al conseguimento del risultato che il concorrente si è impegnato a realizzare con l’offerta, senza dover ripetere gli atti di gara; dall’altro, l’interesse degli operatori economici non vincitori, a che le modifiche contrattuali non siano tali da stravolgere le condizioni sulla base delle quali essi hanno predisposto e formulato le relative offerte. In altre parole, le modifiche non devono incidere sul contratto in maniera tale da stravolgere l’oggetto sul quale si è giocata la competizione fra gli operatori economici. Allo stesso tempo si devono ormai tentare di arginare gli ostacoli e blocchi in cui non di rado incorrono le imprese nella fase esecutiva, perché il compimento dell’opera per la collettività di riferimento resta ineludibile, secondo il principio del risultato.
Su questa scia il T.A.R. Abruzzo L’Aquila, Sez. I, Sent., 24 luglio 2024, n. 345 ha ritenuto che il principio di immodificabilità del contratto pubblico successivamente alla sua aggiudicazione “non ha una portata assoluta, ma ammette delle deroghe, sempre che siano rispettati i principi di parità di trattamento degli operatori economici e di trasparenza” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sezione VIII, sentenza 7 settembre 2016, causa 594-14; parere 13 aprile 2010, causa 91-08). Ha qualificato poi il ricorso alla fattispecie di modifica del contratto in corso di esecuzione, di cui all’articolo 120, commi 1, lettera b), e 2, del d.lgs. n. 36/2023 “in luogo della scelta di indire una nuova procedura per l’affidamento delle medesime forniture, coerente con il principio del risultato di cui all’articolo”. Nel caso menzionato la scelta discrezionale dell’amministrazione è adottata con l’intento “di assicurare, senza soluzione di continuità, l’approvvigionamento tempestivo dei presidi e delle attrezzature necessarie a garantire senza ritardo l’espletamento delle attività chirurgiche e prestazionali per oftalmologia” a garanzia dei livelli essenziali di assistenza per gli utenti del servizio sanitario.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, Sent. 13 settembre 2024, n. 7573 ha dichiarato l’illegittimità della revoca del provvedimento di aggiudicazione in caso di rifiuto a stipulare il contratto, in ragione del mutato quadro economico a causa del mancato accesso ai benefici fiscali, per colpa dell’inerzia della s.a. La revoca non sarebbe in linea con il principio del risultato, il rispetto del quale avrebbe piuttosto imposto la rinegoziazione delle condizioni contrattuali che si basavano sulle agevolazioni fiscali, in quanto il mancato accesso alle stesse ha reso eccessivamente onerosa per l’impresa l’esecuzione secondo le clausole originarie.
Il codice ammette le modifiche al contratto, senza una nuova procedura di affidamento, in una serie di casi, ma solo laddove queste non alterino “la struttura del contratto, e l’operazione economica sottesa” (art. 120, comma 1).
L’articolo 36 del decreto correttivo interviene sull’attuale formulazione dell’art. 120 con riguardo all’ipotesi sancita dalla lett. c), comma 1, delle varianti in corso d’opera, in un senso che appare maggiormente coerente con il principio del risultato. Le varianti sono “modifiche resesi necessarie in corso di esecuzione dell’appalto, per effetto di circostanze imprevedibili da parte della
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stazione appaltante.” Tra queste circostanze rientrano l’entrata in vigore di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti sopravvenuti di autorità o enti preposti alla tutela di interessi rilevanti. A tali cause ex. comma 1 lett. c) il nuovo comma 15- bis aggiungerebbe: b) gli eventi naturali straordinari e imprevedibili e i casi di forza maggiore che incidono sui beni oggetto dell’intervento, o i rinvenimenti imprevisti o non prevedibili con la dovuta diligenza nella fase di progettazione; c) le difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non prevedibili dalle parti.
Con il 15-ter si intende circoscrivere la nozione di variante rilevante, stabilendo che non costituiscono varianti ai sensi del comma 1, lettera c): a) la sopravvenuta possibilità di utilizzo di materiali, componenti o tecnologie non esistenti al momento della progettazione che possono determinare, senza incremento dei costi, significativi miglioramenti nella qualità dell’opera o di parte di essa, o riduzione dei tempi di ultimazione, a condizione che non alterino considerevolmente i contenuti progettuali; b) gli interventi imposti dal direttore del lavoro per la soluzione di questioni tecniche emerse nell’esecuzione dei lavori a condizione che non alterino considerevolmente i contenuti progettuali. Il comma 15-quater infine introduce un espresso richiamo al risultato, prescrivendo che “qualora in fase di esecuzione si verifichino errori od omissioni, l’individuazione della soluzione esecutiva deve essere tempestivamente individuata e coerente con il principio del risultato”.
Si interviene dunque per favorire: il superamento delle logiche più rigide anche nella fase che concretamente conduce al risultato, la manutenzione dei contratti pubblici in itinere, nonché una collaborazione proficua all’insegna dell’esatto adempimento. In particolare, la previsione di cui al nuovo comma 15-ter tende ad ampliare il novero delle modifiche ammissibili a fronte di nuovi elementi di fatto idonei alla rivalutazione del miglior modus procedendi.
Peraltro l’ottica del risultato sembra confermata anche dal fatto che sono sempre ammesse le modifiche correttive del progetto volte a migliorare il funzionamento dell’opera, ad assicurare un risparmio di spesa o a fornire soluzioni equivalenti.
Risulterebbe così ampliato il novero delle circostanze che rendono ammissibile l’intervento sul contenuto negoziale, allorquando la realizzazione del risultato voluto dalla s.a. sia ostacolata o ritardata da fattori esogeni e non ipotizzabili già nella fase di predisposizione del bando, nonché nel capitolato speciale.
L’eventuale illegittimità e distorsione dell’istituto è rimessa alla valutazione da parte dell’ANAC, con i conseguenti poteri sanzionatori ex. art. 222 del codice. Per la tutela dei terzi concorrenti che ritengano lesi i propri interessi legittimi rimangono fermi gli ordinari strumenti giurisdizionali.
Dalle ultime modifiche sembra trasparire che la rinegoziazione, nell’ottica del risultato, è lo strumento che consente la conservazione del contratto evitando la tutela esclusivamente demolitoria, la riedizione della gara, con conseguente duplicazione dei costi investiti nella procedura di evidenza pubblica.
Del resto, la giurisprudenza ha ammesso che, nonostante la fase esecutiva del rapporto negoziale sia tendenzialmente disciplinata da disposizioni privatistiche, questa rimanga ispirata soprattutto “alla cura in concreto di un pubblico interesse, lo stesso che è alla base dell’indizione della gara e/o dell’affidamento della commessa, che anzi trova la sua compiuta realizzazione proprio
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nella fase della realizzazione dell’opera o del servizio” (Cons. Stato, Ad. Plen. 2 aprile 2020, n. 2 par. 12). Si tratta di una declinazione del principio del risultato di cui all’art. 1, in quanto è interesse dell’amministrazione giungere comunque alla realizzazione dell’opera o all’acquisizione dei beni o dei servizi per i quali la stessa si è determinata a procedere con l’appalto e, di conseguenza, è apprezzabile eliminare quelle rigidità che, a fronte di una situazione imprevedibile, conducono necessariamente alla risoluzione anziché alla rimodulazione del contratto.
Un favor per il risultato nella fase di esecuzione è mostrato anche dall’articolo 40 del correttivo, che interviene su premi e penali, stabilendo l’obbligo per la stazione appaltante di prevedere – e non più la mera possibilità) – il riconoscimento di un premio di accelerazione per ogni giorno di anticipo, purché l’esecuzione dei lavori sia conforme alle obbligazioni assunte e siano garantite le condizioni di sicurezza a tutela dei lavoratori impiegati nell’esecuzione. Il premio può essere riconosciuto anche in caso di anticipo rispetto al termine legittimamente prorogato. Infine, il nuovo comma 2-bis estende la possibilità di prevedere il premio anche agli appalti di servizi e forniture.
Lo schema approvato dal CdM deve ancora ricevere i pareri del Consiglio di Stato, della Conferenza Unificata e delle Commissioni parlamentari, probabilmente non entrerà in vigore prima di dicembre inoltrato.
In conclusione, anche nella fase di esecuzione il Legislatore sembra imporre la prevalenza del risultato, favorendo l’utilizzo strategico degli istituti messi a disposizione alle stazioni appaltanti e agli operatori economici, anche in virtù dell’art. 4. Il risultato da raggiungere in questa fase non sembra inquadrarsi come risultato “giuridico”, il contratto, bensì si identifica con un risultato economico, un fatto, consistente nel realizzare l’opera nel tempo previsto e nel modo tecnicamente perfetto o prestare il servizio a sua volta nei tempi e con le modalità previste. Se nella fase di selezione il risultato dell’affidamento del contratto al miglior offerente non deve essere pregiudicato da formalismi imposti alla s.a., con il passaggio all’esecuzione occorre che gli svantaggi prodotti nelle more delle procedure non vanifichino l’individuazione del miglior contraente. A fronte dell’obbligo di esatto adempimento del contratto, l’operatore economico potrà avvalersi del diritto alla rinegoziazione sancito a monte dal principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale (art. 9, che fa espresso richiamo all’art. 120), che sembra essere posto proprio a salvaguardia del risultato. Infatti, anche se sotto il controllo della stazione appaltante, l’attività è di impresa e come tale necessita che l’equilibrio economico del contratto sia mantenuto anche al di là della normale alea di ogni operazione imprenditoriale, per assicurare, nei limiti consentiti, la vitalità di quell’impresa obbligata a produrre il risultato-utilità.

8. INTERAZIONI E CRITICITA’ DEI REGOLAMENTI EUROPEI A TUTELA DEL MERCATO UNICO a cura di Gian Marco Ferrarini

Ritornano, a quattro anni di distanza, le parole di E. De Smijter, Responsabile dell’unità per l’applicazione del Regolamento sulle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno, pronunciate in un discorso davanti alla Dg Concorrenza:

L’UE deve essere un’economia aperta, ma con limiti alla sua tollerenza: se qualunque comportamento economico fosse tollerato, sarebbe proprio l’economia aperta, libera e concorrenziale promossa dall’Unione europea a venir meno, a soccombere a fronte di fenomeni anticoncorrenziali, predatori, o a diventare rischiosa, pericolosa per l’Unione stessa e i suoi interessi, compromettendo anche il suo mercato.

Dunque, si continua a perseguire l’idea di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, ma con una serie di correttivi, certamente necessari, e, forse, anche sufficienti, per rispondere alle nuove sfide delineate dal progressivo avanzamento della deglobalizzazione e del multipolarismo. La crisi sanitaria da COVID-19 e il conflitto in Ucraina hanno, nello specifico, portato alla luce questioni in precedenza scarsamente considerate. La prima riguarda l’impatto degli investimenti diretti esteri (“IDE”) sul mercato interno e il mutato concetto di sicurezza, oggi non più limitato alla sfera degli armamenti o alla protezione dei confini territoriali, ma esteso anche alle nuove opportunità legate all’attuale trasformazione tecnologica. La seconda questione attiene, invece, alla consapevolezza del trattamento deteriore cui erano sottoposti gli operatori economici comunitari, in virtù della normativa sugli aiuti di Stato, rispetto ai competitor extra-UE. Questi mutamenti hanno determinato un cambio di paradigma che, apparentemente in contrasto con principi e libertà fondamentali e fondanti l’UE, come la libera circolazione dei capitali e la libertà di stabilimento, mira all’adozione di un approccio protezionistico a tutela del mercato unico. A tal proposito, l’azione difensiva comunitaria si è articolata principalmente in due direzioni regolamentari, prima facie profondamente dissimili tra loro: da un lato, a tutela della concorrenza; dall’altro, a tutela della difesa delle attività e degli asset strategici. In tale contesto si collocano, rispettivamente, il reg. UE n. 2560/2022, riguardante le sovvenzioni estere distorsive del mercato interno, e il reg. UE n. 452/2019, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti diretti esteri all’interno dell’Unione europea.

Il primo regolamento ha avuto il merito di introdurre un meccanismo di controllo ad hoc, volto a esaminare ogni tipo di sovvenzione estera erogata alle imprese operanti nel mercato europeo, perseguendo così l’obiettivo di mantenere un piano in cui si giochi a parità di condizioni. Prima della sua introduzione, infatti, i contributi finanziari provenienti da Paesi extra-UE sfuggivano alla normativa europea sul Divieto di aiuti di Stato, risultando pertanto sottratti a qualsivoglia verifica. Il sistema di screening istituito dal regolamento de quo estende il proprio ambito di applicazione alle concentrazioni e alle procedure di appalto, conferendo in particolare alla Commissione europea (“Commissione”) una serie di poteri altamente pervasivi. Questi includono sia poteri investigativi che di avvio di procedimenti ex officio, sia poteri sanzionatori che correttivi in caso di rilevazione di irregolarità, nonché di mancata osservanza degli obblighi di notifica preventiva nell’ipotesi di concentrazioni e partecipazioni a gare di appalto pubbliche, il cui valore superi determinate soglie.

Per quanto riguarda, invece, il secondo regolamento, quello emanato nel 2019, non sembra un’esagerazione definirlo come una grande innovazione dal punto di vista della compatibilità dei vari meccanismi nazionali di controllo sugli investimenti diretti esteri. L’intervento normativo ha tenuto conto, nella specie, della indispensabile cooperazione e mutua assistenza tra Stati, resa tale in considerazione della ampia incidenza territoriale degli investimeti, diretti in uno Stato ma capaci di produrre effetti anche in altri. Per queste e altre ragioni il regolamento oltre ad armonizzare i diversi sistemi di screening adottati dagli Stati membri, ha altresì introdotto un quadro settoriale di riferimento che i Paesi UE possono utilizzare per valutare se un investimento costituisca una potenziale minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico. Infine, esso ha istituito un sistema di cooperazione caratterizzato da obblighi di notifica alla Commissione in merito alle operazioni societarie ritenute rilevanti.

Le ipotetiche interazioni e sovrapposizioni tra i due regolamenti hanno sin da subito destato particolare interesse nel mondo giuridico che, a tal riguardo, ha iniziato a formulare le prime riflessioni di carattere sistematico. Attraverso un confronto tra i due provvedimenti, si propone in questa sede una breve analisi che tenga conto delle principali connessioni, differenze e criticità.

In primo luogo, il sistema europeo di controllo degli investimenti, trova sovente applicazione nei confronti di operazioni societarie messe in atto da soggetti esteri, tra le quali vi rientrano anche quelle degli altri Paesi membri (quindi non esclusivamente extra-UE, seppure con un approccio più soft). In particolare, tale sistema consente agli Stati di imporre a questi soggetti precise restrizioni giustificate da valutazioni strategiche riguardanti la tutela dei preminenti interessi di sicurezza e ordine pubblico, escludendo, in linea di massima, considerazioni di carattere puramente economico. Al contrario, il regolamento sulle sovvenzioni estere si occupa di indagare e valutare i contributi concessi da Stati terzi a imprese già attive sul mercato comunitario. Nella disciplina europea sugli investimenti, la competenza circa l’adozione o meno di misure restrittive, è accordata ai singoli Stati membri, con la Commissione chiamata a ricoprire un ruolo solo consultivo e di coordinamento, svolto, nello specifico, attraverso gli uffici della Dg-Trade. Parallelamente, quando si tratta invece di controllare il sistema dei contributi finanziari erogati direttamente o indirettamente da un Paese terzo, tale accertamento viene svolto ab origine dalla Commissione europea che, avvalendosi questa volta degli uffici della Dg-Competition, assume l’esclusiva guida procedimentale e la relativa competenza circa la scelta di scritunare o meno le concentrazioni o le gare d’appalto rilevanti.

Le finalità perseguite dai due regolamenti, di salvaguardia degli asset strategici da un lato, di tutela della concorrenza dall’altro, hanno in verità radici comuni. Sia il regolamento sugli investimenti esteri diretti, che il regolamento sulle sovvenzioni estere, sono stati introdotti in risposta alle preoccupazioni di alcuni Stati membri riguardo all’incidenza degli investimenti cinesi in entrata, incidenza riconosciuta dall’Unione in varie occasioni.

Sul piano delle interazioni, entrambi i regolamenti attribuiscono particolare rilievo al controllo o, comunque, all’influenza esercitati dallo Stato di provenienza sulla società che realizza l’operazione di concentrazione o che partecipa alla gara, poiché nei sussidi esteri tale influenza potrebbe compromettere la concorrenza nel mercato unico, mentre negli investimenti esteri diretti essa potrebbe indicare un intento di ingerenza ostile da parte di uno Stato straniero. Tale controllo, già prima dell’entrata in vigore del regolamento sulle sovvenzioni, era esercitato, incidenter tantum, solo attraverso il regolamento sugli IDE che, tra gli altri elementi, considerava aspetti oggi rientranti nell’attuale disciplina sul divieto di “aiuti di Stato”esteri, in quanto indagava e, tutt’ora indaga, seppur per altre ragioni, l’assetto proprietario delle società e l’eventuale presenza pubblica all’interno dello stesso. In ogni caso, si comprende come i due regolamenti rappresentino un inevitabile restringimento dell’apertura verso gli investimenti stranieri; in particolare, gli interessi perseguiti dalle normative sono paralleli ma strettamente interconnessi: rappresentano infatti limiti strategici, motivati da esigenze di sicurezza o di tutela della concorrenza, alla libera circolazione dei capitali e alla libertà di stabilimento.

Nonostante le distanze strutturali, un importante punto di contatto tra le due normative emerge dalla lettera del regolamento sulle sovvenzioni estere. Il considerando 3 chiarisce infatti come l’ambito applicativo del regolamento UE 2560/2022 si estenda a tutti i settori economici, compresi quelli di interesse strategico per l’Unione e le infrastrutture critiche, come quelli di cui all’articolo 4, paragrafo 1, lettera a), del reg. n. 452/2019. Da questa disposizione discende inevitabilmente una prevalenza, in un rapporto tra genus e species, dei settori economici disciplinati dal regolamento sulle sovvenzioni estere, rispetto a quelli considerati dal regolamento del 2019. Tale predominanza è immediatamente comprensibile: l’interesse pubblico che il regolamento sulle sovvenzioni persegue, ossia la tutela della concorrenza nel mercato unico, è intrinsecamente collegato a ogni tipo di attività economica. La conseguenza diretta di questa impostazione è che un’operazione rilevante ai sensi del reg. UE n. 452/2019 può sempre rientrare anche nell’ambito applicativo del reg. UE n. 2560/2022, ma non viceversa.

In merito alle criticità rilevate, oltre alle difficoltà di coordinamento tra le diverse direzioni generali della Commissione, incaricate della gestione delle numerose notifiche, si evidenzia una certa preoccupazione per l’assenza totale di riguardo circa le valutazioni o segnalazioni delle autorità nazionali indipendenti all’interno del processo decisionale. Invero, a differenza del regime di controllo sulle concentrazioni, la normativa sulle sovvenzioni estere affida, come detto, la conduzione dell’intero procedimento esclusivamente alla Commissione, senza però riconoscere alcun ruolo alle autorità nazionali antitrust degli Stati membri (si pensi, ad esempio, alle competenze dell’AGCM in Italia). Ne potrebbe derivare una situazione complessa, soprattutto non chiaramente disciplinata dal regolamento, in cui le disposizioni di un’autorità antitrust nazionale, in mancanza di un obbligo di coordinamento, possono entrare in contrasto con l’analisi della Commissione.

Un ultimo problema, forse il più significativo, inerente la sovrapposizione tra normative, è rappresentato dall’assenza di un obbligo di notifica alla Commissione delle operazioni societarie che potrebbero non rientrare nel perimetro applicativo definito dall’articolo 4 del regolamento sugli investimenti diretti esteri. Questo potrebbe generare incertezze dovute all’applicazione ex post di misure previste dal regolamento sulle sovvenzioni estere, misure che potrebbero entrare in conflitto con le prescrizioni degli Stati membri finalizzate alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. Detto altrimenti, come procedere nel caso in cui, ad esempio, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, non ritenendo l’operazione rilevante per i settori strategici individuati dal regolamento sugli IDE, decida di esercitare il Golden power e contestualmente non notificare l’operazione alla Commissione europea? Se, a distanza di due anni, la Commissione, avendo ricevuto informazioni su sovvenzioni concesse da un fondo sovrano legato alla società acquirente, decidesse di esercitare i propri poteri ex officio e concludere il procedimento con prescrizioni in contrasto con le decisioni prese dal Governo italiano, si genererebbe una situazione di conflitto non contemplata dal quadro normativo attuale.

I dubbi sull’interazione tra i due quadri normativi non sono di poco conto. Attualmente, tali incompatibilità non sembrano risolvibili nemmeno alla luce della proposta di revisione del regolamento sugli IDE, che potrebbe ancora subire variazioni in itinere. La riforma del reg. UE n. 452/2019 potrebbe prestarsi come un’opportunità per un progressivo accentramento delle competenze in capo alla Commissione, anche in materia di adozione di misure di controllo sugli investimenti stranieri in tutti gli Stati membri. A titolo esemplificativo, si potrebbe prevedere di attribuire alla Commissione una competenza esclusiva per l’adozione di provvedimenti di screeening degli investimenti esteri in relazione a progetti di interesse dell’Unione, in conformità con la sua competenza in materia di politica commerciale comune. Una volta superate le difficoltà di coordinamento tra i regolamenti esaminati, appare evidente come questi possano, seppur ispirati da principi distinti, svolgere assieme un ruolo fondamentale nella tutela degli operatori economici facenti parte del mercato unico.

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