23/09/2024
Indice:
- LA STRATEGIA ITALIANA PER L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE (2024-2026): IL RUOLO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE a cura di Linda Sanson
- IL TRIBUNALE UE CONFERMA (PROVVISORIAMENTE) LA LEGITTIMITA’ DELLE ISPEZIONI NEI CONFRONTI DELLA NUCTECH a cura di Riccardo Zinnai
- GLI INCARICHI AMMINISTRATIVI PRESSO ENTI DI DIRITTO PRIVATO IN CONTROLLO PUBBLICO: LIMITI AL DIVIETO DI CONFERIBILITA’ a cura di Martina Bordi
- IL CONSIGLIO DI STATO TORNA SUI PRESUPPOSTI PER LA RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE a cura di Carlo Maria Fenucciu
- I COSTI DELL’OPERAZIONE: I DATI FINANZIARI DELL'(ATTESO) PROTOCOLLO ITALIA-ALBANIA A CONFRONTO CON IL MEDP UK-RUANDA a cura di Lucilla Tempesta
- GOLDEN POWER: LE PROPOSTE DI ASSONIME PER SNELLIRE IL QUADRO NORMATIVO a cura di Gian Marco Ferrarini
- L’INCERTEZZA SUL FUTURO DELL’ABUSO D’UFFICIO DOPO L’ABROGAZIONE a cura di Federica Micarelli
- D.L. INFRASTRUTTURE: STRUMENTI PER LA CRESCITA DEL PAESE E L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE NEGLI STATI DEL CONTINENTE AFRICANO a cura di Michele Sangiovanni
- LA STRATEGIA ITALIANA PER L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE (2024-2026): IL RUOLO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE a cura di Linda Sanson
Il 22 Luglio 2024 è stato pubblicato online il documento contenente la Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale. Il testo, elaborato da un Comitato di quattordici esperti, a sua volta affiancato dal supporto di una Segreteria Tecnica istituita presso l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), ha l’obiettivo di fornire al Governo uno strumento di supporto per la definizione della normativa nazionale e delle politiche sull’Intelligenza Artificiale.
Il documento fornisce, in primo luogo, un’analisi dello scenario globale ed Italiano, e successivamente, una descrizione delle principali proposte di strategia da adottare nelle quattro macroaree prese in considerazione (Ricerca, Pubblica Amministrazione, Imprese e Formazione). Nello specifico la Strategia, con una premessa, pone l’attenzione sul crescente impatto che le tecnologie basate sull’Intelligenza Artificiale hanno sulle dinamiche sociali e produttive. È da ciò infatti, che sorge un’esigenza sempre più forte di adottare un programma in grado di favorire uno sviluppo di tali tecnologie quanto più etico ed inclusivo, capace di porre al centro dell’attenzione le persone e i loro bisogni, ma che al contempo risulti in linea con il contesto europeo di riferimento. Non a caso la pubblicazione della Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale ha seguito solo di qualche giorno quella del Regolamento (UE) 2024/1689 (anche noto come “AI Act”), il quale ha come obiettivo la promozione dello sviluppo e dell’adozione di un’IA sicura e affidabile, in grado di garantire anche un adeguato livello di protezione dei diritti fondamentali dei cittadini europei. È alla luce di questo panorama generale che il documento si propone come macro-obiettivi strategici: di sostenere la realizzazione e l’adozione di applicazioni di IA, di promuovere l’attività di ricerca scientifica e, infine, di creare le condizioni di contesto favorevoli per valorizzare il potenziale in termini di valore dell’IA.
Come preannunciato, la concretizzazione di questi macro-obiettivi prevede l’applicazione di strategie che sono specifiche per ciascuna delle quattro macro aree di interesse, ma anche strettamente interconnesse e correlate tra loro per ragioni di efficacia del piano stesso.
Sul fronte della ricerca la Strategia si propone di rafforzare gli investimenti, promuovendo la creazione di competenze di ricerca e tecnologie specificamente adattate al contesto giuridico Italiano ed Europeo. L’Italia dovrà anche agevolare lo sviluppo e l’adozione di soluzioni di intelligenza artificiale nelle imprese, con l’ottica di migliorare l’efficienza degli attuali processi e di abilitarne di nuovi, in modo da aprire nuove possibilità di crescita. Per quanto riguarda la Formazione, la Strategia propone la promozione di una formazione di elevata qualità, allineata alle nuove competenze richieste per affrontare le sfide che l’IA ci porrà in futuro.
Di particolare interesse sono infine le proposte fatte nell’ambito della Pubblica Amministrazione. A grandi linee si può dire che la Strategia si propone due obiettivi. Anzitutto è di rilievo l’intento di rendere più efficienti i processi amministrativi, attraverso l’ottimizzazione della gestione delle risorse pubbliche, il finanziamento di alcuni progetti pilota e il sostenimento di iniziative delle singole amministrazioni. A ciò si aggiunge attenzione al miglioramento della qualità dei servizi offerti ai cittadini attraverso l’impiego di tecnologie di Intelligenza Artificiale, garantendo l’usabilità, la privacy e la trasparenza dei processi.
Le azioni strategiche proposte nella macroarea della Pubblica Amministrazione sono sei. (i) Il primo suggerimento consiste nell’adozione di linee guida, che includono l’utilizzo di case study e best practices, per l’adozione dell’IA nella Pubblica Amministrazione, evidenziando la necessità di diffondere sia competenze adeguate sia consapevolezza dei vantaggi e dei rischi che la tecnologia porta con sé. Viene anche sottolineata l’importanza di definire standard minimi funzionali e requisiti di interoperabilità, per garantire un’esperienza omogenea a tutti i cittadini. (ii) Le linee guida dovranno essere adottate anche nel settore del procurement in modo tale da orientare le PA nell’acquisto di soluzioni sicure, funzionali e conformi alle normative. Lo scopo è quello di garantire una conoscenza adeguata sia dei prodotti e servizi informatici disponibili, sia dei rischi e delle opportunità che questi comportano. (iii) La strategia suggerisce anche l’adozione di linee guida per la realizzazione di applicazioni di IA nella Pubblica Amministrazione. Queste permetteranno alla PA di acquisire competenze sia nell’acquisto che nello sviluppo delle varie soluzioni esistenti, garantendo conformità alle normative nazionali e UE, con attenzione alla protezione dei dati e alle iniziative per la formazione del personale. (iv) Sarà utile poi investire nella progettazione di strumenti e metodologie che facilitano l’accesso ai servizi da parte dei cittadini, con una conseguente adozione di test di affidabilità e pianificazioni per l’adozione su larga scala. (v) È consigliato anche il miglioramento dei processi interni della PA, con iniziative per sviluppare o adottare sistemi IA. Per realizzare questa strategia la PA dovrà quindi individuare gli ambiti di intervento e i rispettivi rischi dei sistemi. (vi) Da ultimo, per sostenere l’innovazione sono promossi percorsi di upskilling per il personale in servizio tramite l’istituzione, in seno alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, di uno specifico dipartimento dedicato all’IA, prevedendo l’attivazione di corsi di formazione post-laurea per i dipendenti. Simili iniziative dovranno essere previste anche al livello degli enti locali.
Un ulteriore elemento di rilievo per la Strategia, oltre all’indicazione di diverse azioni da adottare per favorire uno sviluppo dell’IA che sia inclusivo e sicuro, è rappresentato dalla predisposizione di un sistema di monitoraggio ad hoc. Invero, la strategia riconosce che le tecnologie IA portano con sé sicuramente numerosi benefici, ma anche altrettanti rischi. È opportuno assicurare che l’utilizzo di queste tecnologie non porti ad una omogeneizzazione culturale, ad un’iper-regolazione nazionale, o ancora, ad un utilizzo non neutrale. Per questi motivi vengono introdotti adeguati sistemi di monitoraggio che consentono di valutare l’efficacia e di apportare correzioni. È infatti dall’adeguatezza di questi sistemi che dipende il successo di una strategia. Con un focus sulla macroarea della PA, il documento qui in esame propone due importanti flagship projects. Il primo consiste in una valutazione del miglioramento dell’accesso e della fruizione dei servizi al cittadino, che misura anche il grado di digitalizzazione. Il secondo metodo consta del coinvolgimento di esperti nella valutazione dell’effettivo efficientamento delle procedure amministrative.
La Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale si inserisce in un contesto giuridico innovativo e che di recente ha visto l’adozione, anche a livello europeo, di normative volte all’istituzione di un quadro giuridico uniforme che permette di regolare lo sviluppo e l’uso di questi sistemi in maniera conforme ai valori costituzionali ed UE. In particolare il riferimento, come preannunciato, è al Regolamento (UE) 2024/1689 (“AI Act”), il quale per consentire il raggiungimento degli scopi prefissati prevede di regolare l’IA attraverso un risk based approach, e cioè una classificazione dei sistemi sull’IA basta sui rischi per i diritti fondamentali. La classificazione prevede rischi bassi, medi ed elevati. Maggiore sarà il rischio, maggiori saranno gli oneri di compliance. L’applicazione delle norme contenute nell’AI Act prevede dunque la creazione a livello europeo e nazionale di autorità vigilanti. A livello europeo l’autorità è chiamata a coordinare l’implementazione del regolamento e a fornire linee guida e best practices agli sviluppatori e utilizzatori di questa tecnologia. A livello nazionale le autorità avranno sia una funzione di vigilanza, per assicurare il rispetto dell’AI Act, sia una funzione di notificazione, per verificare la correttezza delle certificazioni rilasciate per i sistemi IA ad alto rischio.
La Strategia promuove quindi la collaborazione tra le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati per lo sviluppo e l’adozione di sistemi di intelligenza artificiale. Coordina le attività della PA in questo ambito, sostiene la ricerca e la diffusione delle conoscenze sull’IA e guida le iniziative per lo sviluppo imprenditoriale e industriale del settore. Gli scopi della Strategia e la necessità di una sua adozione sono stati delineati nel DDL approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta n.78 del 13 Aprile 2024. L’art 17, comma 1, di tale DDL prevede infatti l’adozione della Strategia e ne definisce gli obiettivi. Il comma 3 invece affida alla Presidenza del Consiglio il compito di coordinare e monitorare la sua attuazione, avvalendosi dell’Agenzia per l’Italia digitale (AgID) e dell’Agenzia nazionale per la cybersicurezza nazionale (ACN). L’art 18 dunque, rubricato “Autorità nazionali per l’intelligenza artificiale”, istituisce le Agenzie chiamate a garantire l’applicazione della normativa nazionale ed europea in materia di IA. Da una parte, l’AgID è responsabile di promuovere l’innovazione nell’IA e di definire le procedure in materia di notifica, valutazione, accreditamento e monitoraggio dei soggetti che verificano la conformità dei sistemi IA con le normative di riferimento. D’altra parte, l’ACN è responsabile per la vigilanza dei sistemi di IA e per la promozione e lo sviluppo dell’IA relativamente alla tutela della cybersicurezza. Infine, è istituito un Comitato di coordinamento composto dai direttori generali delle due Agenzie e dal Capo del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio. Il Comitato ha il compito di assicurare il coordinamento e la collaborazione tra le Autorità nazionali per l’IA, le pubbliche amministrazioni e le autorità indipendenti. Non a caso, la Strategia stessa sottolinea l’importanza di questa sinergia tra le due agenzie, al fine di favorire un’applicazione intellegibile delle varie discipline in materia. Si ricorda, inoltre, l’importanza di mantenere indipendenti le due Agenzie, nonostante l’attività di collaborazione, vista la complessità delle rispettive funzioni. Questo approccio permetterà di garantire sicurezza, affidabilità e integrità dei sistemi IA in Italia.
2. IL TRIBUNALE UE CONFERMA (PROVVISORIAMENTE) LA LEGITTIMITA’ DELLE ISPEZIONI NEI CONFRONTI DELLA NUCTECH a cura di Riccardo Zinnai
Con l’ordinanza del presidente del Tribunale UE del 12 agosto 2024 si è avuta la prima pronuncia giurisdizionale concernente il Regolamento sulle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno. L’ordinanza si inserisce all’interno della causa T-284/24 coinvolgente come parti attrici le società Nuctech Warsaw Company Limited e Nuctech Netherlands e come convenuta la Commissione europea. Nella causa principale, le parti attrici hanno richiesto l’annullamento della decisione della Commissione del 16/04/2024 con la quale sono state ordinate delle ispezioni effettivamente svoltesi tra il 23 e il 26 aprile. È da notare che il ricorso proposto il 29 maggio è stato successive a delle previe dichiarazioni con le quali le società avevano contrariamente annunciato di voler collaborare con la Commissione. L’ordinanza in questione si riferisce più precisamente al procedimento cautelare nel quale si è richiesta la sospensione della decisione oggetto del procedimento principale e di tutti gli atti o richieste conseguenti.
Si noti che le società in questione operano nel settore dei sistemi di individuazione delle minacce e risultano essere società controllate da società cinesi. La causa verte anche sulla richiesta da parte della Commissione europea di avere accesso al contenuto delle caselle di posta elettronica di un certo numero di impiegati che è però conservato all’interno di server situati nella Repubblica popolare cinese.
Il presidente del Tribunale ha innanzitutto ricordato che i ricorsi proposti innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea non hanno automaticamente un effetto sospensivo, ex art. 278 TFUE. La sospensione dell’atto impugnato può essere concessa solo qualora ricorrano congiuntamente le due condizioni relative alla presenza del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Nell’ordinanza si è ricordato che il fumus boni iuris richiede che le domande giudiziali non appaiano a prima vista infondate. Esso è da ritenersi presente anche nel caso in cui almeno uno dei motivi di diritto alla base del ricorso sollevi questioni giuridiche complesse la cui risoluzione non può avvenire in sede cautelare. Parimenti, il fumus boni iuris sussiste anche qualora dalla discussione tra le parti emerga un disaccordo su questioni giuridiche importanti senza che sia possibile ravvisare una soluzione ovvia.
Le richieste delle società si basano su cinque motivi di ricorso. Con il primo motivo, è stata invocata la contrarietà della decisione rispetto al diritto internazionale pubblico e al diritto europeo. Ciò in quanto la Commissione ha richiesto informazioni situate fuori dal territorio dell’Unione. Come secondo motivo, le società hanno evidenziato che adempiere alle richieste della Commissione comporterebbe il rischio di violare il diritto cinese, incluse le norme penali. Con il terzo motivo di ricorso si è dedotto il mancato rispetto dell’inviolabilità dei locali commerciali e del diritto alla riservatezza previsto dall’articolo 7 CDFUE. Come quarto motivo le società hanno allegato l’arbitrarietà dell’ispezione in quanto a loro dire mancavano sufficienti indizi tali da indurre a sospettare la presenza di sovvenzioni estere distorsive del mercato interno. Nel quinto motivo di ricorso le società hanno affermato che non è stato rispettato l’obbligo di motivazione e il loro diritto di difesa.
Poiché gli ultimi tre motivi di ricorso sono stati espressi in maniera eccessivamente sintetica essendo stati presentati come mere affermazioni apoditticamente enucleate in un singolo periodo ciascuna, sono stati giudicati inammissibili.
In relazione al primo motivo di ricorso, il Tribunale ha ricordato che le ispezioni nelle sedi di un’impresa situate all’interno del territorio dell’Unione sono legittime anche qualora l’impresa sia registrata in un paese terzo. Infatti, tale approccio è stato già affermato nel settore del diritto della concorrenza e può analogicamente applicarsi al controllo sulle sovvenzioni estere. La giurisdizione della Commissione per essere giustificata nel diritto internazionale richiede semplicemente che la pratica produca “effetti qualificati” (ovverosia «sostanziali, prevedibili e immediati») nell’Unione o che sia stata implementata all’interno del territorio europeo. Il Tribunale si è pertanto rifatto al precedente espresso nella causa T-286/09 Intel Corp. contro Commissione europea e nel successivo giudizio di impugnazione C-413/14 P. Se così non fosse, sarebbe possibile per le imprese eludere le norme del diritto dell’Unione.
Il Tribunale ha anche stabilito che le parti attrici non hanno dimostrato che sia per loro impossibile accedere alle informazioni richieste dalla Commissione anche se situate all’interno di server cinesi. Inoltre, non hanno esplicitato perché il diritto cinese sarebbe rilevante per le società controllate aventi sede nell’Unione.
Anche per quanto riguarda il rischio di violare il diritto penale cinese, le società non hanno dimostrato che tali norme si applichino alle informazioni richieste né di aver infruttuosamente tentato di ottenere le necessarie autorizzazioni dal governo cinese. Le società non hanno nemmeno suggerito modalità di comunicazione delle informazioni compatibili col diritto cinese.
Inoltre, il Tribunale UE deve giudicare la legittimità della decisione adottata rispetto al diritto dell’Unione europea, non certo rispetto al diritto cinese. Le violazioni del diritto internazionale pubblico sarebbero invece rilevanti ma non sono state dimostrate adeguatamente in questa fase cautelare.
Il Tribunale ha poi considerato il requisito del periculum in mora che, secondo le ricorrenti, consisterebbe in un danno reputazionale con conseguenti danni patrimoniali. Inoltre, il rischio della violazione delle norme penali della Cina è stato prospettato anche rispetto a questo secondo requisito.
Rispetto al danno reputazionale, la Commissione ha ricordato che essa non aveva reso pubblici i nominativi delle imprese soggette all’ispezione. Sono state invece le dichiarazioni rese alla stampa dalla Camera di commercio cinese presso l’UE e dalle società stesse ad aver generato la possibilità di un danno reputazionale. In tal caso, il danno si sarebbe già verificato di modo che una misura cautelare non risulterebbe utile. Inoltre, potrebbe comunque essere riparato dalla sentenza definitiva. Infatti, i danni aventi una natura patrimoniale sono generalmente da considerarsi, a meno di situazioni eccezionali, come non irreparabili in quando possono essere risarciti successivamente. In ogni caso, le parti non hanno dimostrato l’irreparabilità del danno.
Il Tribunale ha anche valutato il rischio di un danno irreparabile derivante dalla violazione del diritto cinese. Ha osservato che l’obbligo di pagare delle sanzioni amministrative pecuniarie non costituisce un danno irreparabile poiché ha una natura patrimoniale.
Si è poi passato all’esame delle norme penali cinesi concernenti la violazione della disciplina sui segreti di Stato. Innanzitutto, le parti non hanno dimostrato che le informazioni richieste dalla Commissione siano qualificabili come segreti di Stato. In secondo luogo, tali norme diventano applicabili qualora i segreti siano stati rivelati senza aver ricevuto la prescritta autorizzazione. Tuttavia, le società ricorrenti non hanno dimostrato di aver almeno tentato di ottenere tale autorizzazione.
Il Tribunale, anche tenendo conto dell’interesse della Commissione a vigilare sulla concorrenza in modo da evitare distorsioni nel mercato interno, non ha quindi concesso le misure cautelari.
Questo caso, sebbene relativo alla fase cautelare, permette di evidenziare alcune questioni relative al regolamento FSR.
In primo luogo, l’organo giudiziario dell’Unione europea ha evidenziato come la c.d. “dottrina degli effetti” sia applicabile non solo alla concorrenza ma anche al controllo sulle sovvenzioni estere. Gli effetti prodotti all’interno dell’Unione giustificano un’applicazione delle norme europee anche a condotte che si svolgono in paesi terzi e quindi un’applicazione normativa che ha un carattere di extra-territorialità. Si noti però che tale dottrina di origine statunitense si è via via diffusa in vari Paesi.
In secondo luogo, emerge come le imprese possano trovarsi a sottostare a regole di diversi ordinamenti tra loro contrastanti. In dottrina si è suggerito che gli Stati potrebbero evitare questa situazione basandosi sulla cortesia internazionale. Tuttavia, le tendenze neoprotezioniste vanno via via affermandosi sempre di più. Anzi, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell ha riconosciuto come una guerra commerciale con la Cina possa essere inevitabile sebbene indesiderata.
In terzo luogo, questo caso ha evidenziato come l’insussistenza dei requisiti per l’avvio di un’indagine nel campo delle sovvenzioni estere possa essere un’argomentazione invocata dalle parti per opporsi ai poteri ispettivi in capo alla Commissione europea.
3. GLI INCARICHI AMMINISTRATIVI PRESSO ENTI DI DIRITTO PRIVATO IN CONTROLLO PUBBLICO: LIMITI AL DIVIETO DI CONFERIBILITA’ a cura di Martina Bordi
La Corte costituzionale, con sentenza n. 98/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, lettera f, e 7, comma 2, lettera d, del decreto legislativo n. 39/2013 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le Pubbliche Amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, comma 49 e 50, della legge n. 190/2012.”, per contrasto con gli artt. 3, 4, 5, 51, 76, 97, 114 e 118 della Costituzione.
Le disposizioni sono state censurate dai giudici costituzionali nella parte in cui non consentivano di conferire l’incarico di amministratore di ente di diritto privato, che sia sottoposto a controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a quindicimila abitanti (…), a coloro che, nell’anno precedente, abbiano ricoperto la carica di presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato controllati da amministrazioni locali (comuni, province o forme associative in ambito regionale).
La questione, sollevata incidentalmente dal Tar Lazio, riguardava una delibera dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) con la quale era stata dichiarata l’inconferibilità dell’incarico di manager pubblico della Gestione ambientali spa, impresa pubblica partecipata al 51% da Amiu (Azienda multiservizi e d’igiene urbana Genova spa) e al 49% dall’Autorità Portuale di Genova per aver ricoperto, precedentemente, la carica di amministratore delegato della ARAL in house srl, partecipata al 60% dal Comune di Arenzano.
La legge delega 190/2012, c.d. legge Severino, ha demandato al Governo il compito di modificare la disciplina all’epoca vigente in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di responsabilità amministrativa di vertice nelle pubbliche amministrazioni, al fine di prevenire e contrastare la corruzione e la nascita di eventuali conflitti di interessi.
L’obiettivo della legge delega era quindi quello di assicurare l’esercizio imparziale delle pubbliche funzioni, limitando l’individuazione degli incarichi ostativi a quelli di natura politica, escludendo gli incarichi di natura amministrativo-gestionale.
L’art. 1 comma 50 della legge delega prevede, per il legislatore delegato, di disciplinare i casi di inconferibilità di incarichi dirigenziali ai soggetti estranei alle amministrazioni “che, per un periodo di tempo, non inferiore ad un anno, antecedente al conferimento abbiano fatto parte di organi di indirizzo politico o abbiano ricoperto cariche pubbliche elettive”, con la finalità di tutelare l’imparzialità dell’azione amministrativa e promuovere una lettura meritocratica nella selezione dei vertici amministrativi.
Il legislatore delegante, nel definire i componenti di organi di indirizzo politico, ha ampliato il novero delle figure rientranti nella nozione di funzionario pubblico, ricomprendendo tutti coloro a cui sono affidate “funzioni pubbliche” di rilievo amministrativo, a prescindere dalla natura, pubblica o privata, dell’ente presso il quale l’incarico è ricoperto.
Difatti, all’art. 1, comma 2, ha inserito tra i componenti di organi di indirizzo politico “le persone che partecipano a organi di indirizzo di enti pubblici o di enti di diritto privato in controllo pubblico, nazionali, regionali e locali”.
Il successivo articolo 7 del decreto, nel disciplinare le ipotesi di inconferibilità di incarichi a componenti di organo politico di livello regionale o locale, stabilisce che coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta (…), nonché a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione, non possono essere conferiti: gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione.
Il dato normativo, pur scindendo le ipotesi di inconferibilità applicabili al livello di governo regionale e le ipotesi applicabili al livello di governo locale, prevede, in entrambi i casi, il divieto di conferimento di incarichi amministrativi di vertice o dirigenziali qualora il soggetto nominando abbia ricoperto analoghe posizioni di provenienza nel periodo precedente al conferimento.
Pertanto, ai sensi del d.lgs. 39/2013, attuativo della legge delega menzionata, un professionista che abbia già prestato la propria attività in un’Amministrazione Comunale non può essere nominato all’interno dello stesso ente prima che siano trascorsi due anni, dovendo rispettare il c.d. periodo di raffreddamento, con l’intento di impedire conferimenti che conseguano immediatamente la fine di un mandato politico e promuovere una politica di nomina fondata su requisiti professionali.
L’art. 17 del d.lgs. n. 39 del 2013 specifica le conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione della disciplina sulle inconferibilità, sancendo che “gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del presente decreto e i relativi contratti sono nulli”.
In linea generale, la Corte, partendo dall’assunto generale che il legislatore delegato sia dotato di un margine di discrezionalità nello sviluppo delle norme, afferma che il Governo non può mai superare i limiti che ha posto il legislatore delegante. Le disposizioni contenute nel decreto legislativo dovrebbero ricondursi ad un naturale, coerente e complementare sviluppo delle norme contenute nella legge delega.
Nel caso specifico, in base alle disposizioni della legge delega, l’oggetto della disciplina avrebbe dovuto riferirsi esclusivamente agli incarichi di destinazione ovvero gli incarichi che avrebbero dovuto formare oggetto di protezione dalle interferenze di interessi esterni, potenzialmente in conflitto con l’esercizio della funzione pubblica.
Le potenziali situazioni di conflitto, indicate nella Legge Severino, vengono individuate solamente nella provenienza politica della persona nominata.
L’unica causa ostativa non politica al conferimento è relativa a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato sottoposti a controllo o finanziati da parte dell’amministrazione che conferisce l’incarico stesso poiché rientranti tra gli incarichi di destinazione. Da ciò si deduce, a contrario, che la legge delega abbia voluto escludere dalle ipotesi di inconferibilità solo gli incarichi di natura amministrativo-gestionale.
Secondo la Corte costituzionale, nelle cariche di presidente e amministratore, sia negli enti pubblici che negli enti privati sottoposti a controllo pubblico, non vi è titolarità di funzioni di indirizzo politico in senso stretto ma bisogna distinguere tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo per gli enti pubblici e funzioni di indirizzo politico-aziendale per gli enti privati in controllo pubblico; con la conseguenza di dover escludere quest’ultime dal novero dell’inconferibilità.
Ad avviso della Corte, i criteri direttivi individuati nella legge Severino sono stati il frutto di un bilanciamento tra l’accesso al lavoro dei professionisti, sacrificato parzialmente dalla previsione della inconferibilità degli incarichi per provenienza politica e l’imparzialità dell’azione amministrativa.
Il legislatore delegato, invece, ha ampliato eccessivamente questa garanzia, finendo per ricomprendervi ipotesi prive di qualsiasi collegamento con lo svolgimento di incarichi politici.
Il d.lgs. n. 39/2013, dunque, avrebbe dovuto fornire una interpretazione restrittiva delle cause di inconferibilità così da rientrare nei parametri indicati dalla legge di delega e dall’art. 76 della Costituzione.
Così facendo, ha sottolineato la Corte, si è attuata una commistione tra incarichi politici e incarichi di mera gestione amministrativo-aziendale, che devono, invece, essere tenuti distinti.
4. IL CONSIGLIO DI STATO TORNA SUI PRESUPPOSTI PER LA RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE a cura di Carlo Maria Fenucciu
Con la sentenza del 13 settembre 2024, n. 7574 il Consiglio di Stato torna sulla responsabilità precontrattuale della PA in materia di contratti pubblici per precisarne confini e presupposti.
La vicenda prende le mosse dall’appalto indetto dal MIT ai fini dell’esecuzione di alcuni lavori di manutenzione straordinaria all’interno del porto di Manfredonia. Il Ministero aggiudicava l’appalto in favore della Granata s.r.l. nel 2008, tuttavia, nonostante numerose sollecitazioni da parte dell’aggiudicataria, non addiveniva alla stipula del contratto sino all’8 febbraio 2016, data in cui chiedeva alla società la disponibilità all’esecuzione dei lavori previsti. La Granata acconsentiva, ma, avendo nel frattempo perso la qualificazione SOA, presentava un contratto di avvalimento per integrare detto requisito. Ciononostante, il ministero disponeva la revoca e la decadenza dell’aggiudicazione per aver la Granata perduto la qualificazione SOA.
Per questo motivo, la società ricorreva al T.A.R. Bari, oltre i termini previsti per l’impugnazione del provvedimento, introducendo un’azione risarcitoria alternativamente qualificata in termini di responsabilità extracontrattuale da provvedimento illegittimo, ovvero di responsabilità precontrattuale, domandando in alternativa il riconoscimento dell’indennizzo ex art. 21-quinquies, l. 241/1990. Il giudice di prime cure riteneva l’azione inammissibile, sul presupposto che non è possibile contestare l’azione delle PA oltre i termini previsti per l’impugnazione del provvedimento che ha concretizzato la lesione per la parte. Questa interpretazione fa leva sul disposto dell’articolo 30, co. 3 del c.p.a., a mente del quale il giudice “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti“.
La soluzione, come rileverà anche il Consiglio di Stato, è in realtà criticabile in quanto, oltre a non prendere in considerazione le differenze intercorrenti tra responsabilità da provvedimento illegittimo e responsabilità extracontrattuale, ripropone rigidamente la teoria della pregiudiziale amministrativa, qualificando l’azione come inammissibile, anziché infondata. Il T.A.R. motiva la propria decisione facendo riferimento al principio di buon andamento, che impone di non disperdere inutilmente risorse finanziarie, ciò riflettendosi su una tutela preferibilmente reale, piuttosto che risarcitoria. Troverebbe altresì conferma nella sentenza della Corte Costituzionale 4 maggio 2017, n. 94, che dichiara non fondata la q.l.c. inerente al summenzionato comma del c.p.a., proprio dinanzi all’esigenza di “consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni e di non esporli, a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni incidenti sulla coerenza e sull’efficacia dell’azione amministrativa”.
La Granata proponeva appello, all’esito del quale i giudici di Palazzo Spada riformano la sentenza, sulla base della distinzione tra responsabilità extracontrattuale da illegittimo provvedimento e responsabilità precontrattuale della P.A.
Da un lato, infatti, in coerenza con l’articolo 30, co. 3, c.p.a., è respinta la domanda di risarcimento dei danni prodotti dall’illegittimo provvedimento amministrativo. L’opzione è rispettosa dell’articolo 30, co. 3, c.p.a. e ai principi di diritto enunciati dalla Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3, secondo i quali la mancata proposizione dell’azione di annullamento non incide sull’ammissibilità dell’actio damni, bensì sulla fondatezza, nella considerazione che l’attivazione degli strumenti di tutela secondo l’ordinaria diligenza avrebbe potuto evitare il danno.
D’altra parte, però, è accolta la reintegrazione a titolo di responsabilità precontrattuale ex art 1337 cc. Il giudice di prime cure, infatti, ha omesso di considerare che i presupposti dell’illecito precontrattuale differiscono radicalmente dai requisiti della responsabilità provvedimentale. Viene in rilievo, infatti, il comportamento serbato dalla P.A. nelle more della – qui mai avvenuta – stipula del contratto, e la lesione dell’affidamento del privato al legittimo esercizio dell’attività pubblicistica conformemente ai canoni di lealtà e correttezza. Ciò è particolarmente vero nei casi in cui la P.A. agisca in sede contrattuale: in tal caso, al pari dei privati, è tenuta al rispetto del canone civilistico della buona fede, cui, come noto, è stata data nuova linfa con l’ingresso all’interno del diritto privato dell’articolo 2 Cost., in matrice solidaristica. L’obbligo di rispettare i canoni comportamentali, peraltro, pende in capo alle PP.AA. anche in virtù di espresse disposizioni legislative, quali l’articolo 1, co. 2-bis della legge 241 /1990 e l’articolo 5 del nuovo codice dei contratti pubblici.
Ai fini della concreta applicazione dell’art. 1337 cc. al giudizio amministrativo, il collegio si rifà al decalogo enunciato da Ad. Plen. 4 maggio 2018, n. 5, che richiede che l’affidamento incolpevole del privato risulti leso da un comportamento della P.A. oggettivamente contrario ai doveri di correttezza e lealtà, per il tramite di un comportamento effettivamente imputabile all’apparato pubblicistico a titolo di colpa o dolo; il tutto corroborato dalla prova del danno e del nesso causale incombente sul privato.
Il collegio, ritenendo soddisfatti tali requisiti, riconosce la responsabilità precontrattuale limitatamente alle spese documentate sostenute dalla ricorrente per partecipare all’appalto (il danno emergente della responsabilità precontrattuale), non essendo stata documentata la perdita di chance di stipula di contratti alternativi (che costituirebbe il lucro cessante, secondo un orientamento cui il collegio ritiene di aderire).
La pronuncia si inquadra in un filone giurisprudenziale (che trova piena conferma nella citata Plenaria 8/2015) volto a isolare, nell’ambito del procedimento amministrativo, il diritto soggettivo ad autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza. La violazione di tale diritto costituisce illecito precontrattuale, a prescindere dalla successiva conclusione del procedimento.
Il regime probatorio in ordine alla responsabilità precontrattuale in ambito civilistico segue quello della responsabilità da inadempimento delle obbligazioni, di cui agli articoli 1218 ss. cc., in virtù della riconduzione di tale situazione all’alveo della responsabilità cd. da contatto sociale qualificato. Ciononostante, la giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere che conclusioni analoghe non possono essere raggiunte riguardo al procedimento amministrativo, in cui la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di “supremazia”, cioè da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul contatto sociale che si fondano sulla relazione paritaria. Per questo motivo, il regime probatorio e giuridico in generale segue quello della responsabilità aquiliana (già incidenter tantum Ad. Plen. 5/2018, quindi, in enunciazione di principio di diritto, Ad. Plen. 7/2021).
A tal proposito si registra, peraltro, un contrasto tra le Sezioni Unite della Cassazione e il Consiglio di Stato in punto di giurisdizione (tema che, in questo caso, non appare controverso). L’organo nomofilattico, pronunciandosi in tema di affidamento leso da provvedimento amministrativo legittimo, con sentenza 28 aprile 2020, n. 8236 ha attribuito al giudice ordinario la cognizione dei diritti risarcitori derivanti da comportamenti serbati dalla P.A. in contrasto con i canoni di lealtà e correttezza. La sentenza fa applicazione proprio della teoria del contatto sociale qualificato, sul presupposto che, tolti dall’equazione i danni prodotti da un provvedimento illegittimo, la relazione che si crea tra privato e P.A. è quella di due soggetti che confidano l’uno nel corretto operato dell’altro. In altre parole, non si tratterebbe di uno di quei comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di [un] potere [amministrativo], idonei a radicare la giurisdizione del G.A. ai sensi dell’articolo 7, c.p.a, bensì solo di comportamenti “occasionati” dal potere.
Contrariamente a questa posizione, invece, le pronunce dell’Adunanza Plenaria 29 novembre 2021, nn. 19, 20 e 21 hanno sancito la giurisdizione del G.A. rispetto a tutti i casi di risarcimento per danni derivanti da comportamento scorretto della P.A. Tale opzione, si osserva, risulta anche conforme alla scelta del legislatore di ricondurre alla giurisdizione amministrativa le azioni risarcitorie per lesioni di situazioni soggettive tutelate dal G.A., in accoglimento della giurisprudenza costituzionale che evidenzia come l’azione risarcitoria costituisca una “tecnica di tutela” e non una materia a sé.
In conclusione, la pronuncia in oggetto da un lato conferma il rifiuto dell’applicazione della teoria del contatto sociale in ambito amministrativo (contrariamente a quanto opinato dalle sezioni unite), dall’altro precisa il regime della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, come lesione di situazioni giuridiche soggettive differenti e indipendenti da quelle che vengono fatte valere nel procedimento amministrativo.
5. I COSTI DELL’OPERAZIONE: I DATI FINANZIARI DELL'(ATTESO) PROTOCOLLO ITALIA-ALBANIA A CONFRONTO CON IL MEDP UK-RUANDA a cura di Lucilla Tempesta
In un contesto europeo segnato da una crescente pressione migratoria i governi italiano e britannico stanno affrontando sfide comuni. L’incontro dello scorso 16 settembre 2024 fra il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ed il primo ministro Keir Starmer lascia pensare ad un tentativo di collaborazione al fine di fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. L’obiettivo, come affermato dal Presidente del Consiglio italiano, è quello di «… contrastare il traffico di esseri umani, prevenire i flussi migratori illegali ed accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale». Mentre il Regno Unito ha ormai abbandonato il controverso piano UK-Ruanda, l’Italia, invece, è prossima all’apertura dei centri di Shengjin e Gjader in Albania.
È opportuno tenere a mente che i due accordi, pur basati sulla comune idea che l’esternalizzazione della gestione migratoria fosse la strada percorribile al fine di alleggerire i flussi verso i rispettivi paesi, si distinguono per una diversa gestione delle richieste di asilo. Nel progetto italiano si manterrà la giurisdizione italiana in un territorio extra-europeo, mentre, l’elemento chiave dell’accordo con il Ruanda consisteva nell’inviare i richiedenti asilo nel Regno Unito nella Repubblica del Ruanda, dove il governo ruandese avrebbe deciso sulle loro richieste.
Il ritardo nell’implementazione del Protocollo Italia-Albania offre l’opportunità di soffermarsi sui costi previsti comparandoli con il precedente piano UK-Ruanda, ormai abbandonato dal nuovo governo laburista. Il bando ministeriale italiano prevede una spesa di 653 milioni di euro spalmati nel corso dei 5 anni, durata finora stabilita per il protocollo, al fine di accogliere circa 36mila persone migranti l’anno.
Gli ulteriori dati finanziari sui quali è opportuno porre l’attenzione oltre che riguardare i costi necessari per la costruzione e la gestione delle strutture, sono quelli relativi alla continua e necessaria rotazione del personale (giudici, avvocati, polizia) addetto alle diverse procedure.
In aggiunta ai costi dell’accoglienza degli stranieri in Italia, dunque, si sommeranno le già citate spese, tra cui quelle del noleggio dei mezzi per il trasferimento in Albania o verso l’Italia al termine dei 28 giorni di detenzione nei centri in territorio albanese. Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito che i centri ed il meccanismo di esternalizzazione della gestione delle richieste di protezione internazionale hanno principalmente il compito di deterrenza rispetto alle partenze verso l’Italia e di alleggerimento degli altri centri Hotspots presenti sul territorio italiano. Si propone, dunque, un’analisi con la quale si cercherà di comprendere se il piano, così come strutturato in relazione agli obiettivi, sia in grado di raggiungere una soddisfacente cost-effectiveness.
Dalla relazione tecnica pubblicata sul sito del Senato della Repubblica italiana si evince un impegno finanziario considerevole per la realizzazione del protocollo Italia-Albania: già a partire dal 2024, sono stati stanziati 31,2 milioni di euro per la costruzione delle nuove strutture nei siti di Shengjin e Gjader. Si stimano inoltre costi di manutenzione che ammonteranno a 70mila euro per il sito di Shengjin e 700mila per la struttura a Gjader nel 2024 e 100mila euro annui (Shengjin) e 1 milione annuo (Gjader) per I successivi 4 anni. I costi di gestione, complessivi per i siti nelle due località ammonteranno, dunque, a 4.400.700 per il 2024 e 6.556.200 annui per I restanti 4 anni.
A questi numeri si devono inoltre sommare 100mila euro per il 2024 per le spese relative agli apparati telematici in entrambe le strutture.
Altro capitolo di spesa sono i costi per il trasporto marittimo, con un budget di 15 milioni di euro nel 2024 e 60 milioni di euro compresi tra il 2025 ed il 2028, per un totale di circa 95 milioni di euro per il noleggio delle navi.
Si stima, inoltre, che i costi relativi al personale ammonteranno a circa 252 milioni di euro, nei cinque anni, così da poter finanziare le trasferte in Albania dei funzionari ministeriali dell’interno, della giustizia e della salute. Dunque, secondo le stime mediamente 138mila euro al giorno sarebbero destinati a coprire i costi per il personale interforze, i funzionari prefettizi, il personale del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il personale sanitario di frontiera (Usmaf), e quello dell’INMP (Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti) per viaggi, diarie, vitto e alloggio. La spesa sanitaria richiederà un investimento di 270.000 euro annui per il sito di Shengjin e 100.000 euro per Gjader, destinati all’acquisto di attrezzature e farmaci e al supporto sanitario dell’INMP.
Questo quadro evidenzia un costo capitale molto elevato, riducibile di molto se la gestione rimanesse nei confini del territorio italiano.
È utile analizzare i costi previsti per la realizzazione dei centri in Albania da parte dell’Italia, mettendoli a confronto con i dati finanziari disponibili riguardanti l’esperienza del Regno Unito. La promessa del nuovo governo laburista è di investire in un approccio più efficace, volto a garantire una gestione più strategica e sostenibile dell’immigrazione irregolare.
Stando alla relazione del National Audit Office, si distingue fra i pagamenti per l’ETIF (Economic Transformation and Integration Fund), con la finalità del supporto economico e lo sviluppo in Ruanda, ed i costi di gestione dell’asilo sommati ai costi operativi per il trasferimento di personale e migranti in Ruanda. Finora, secondo il rapporto il Regno Unito ha pagato 290 milioni di sterline (nel corso del 2022/2023/2024) al Ruanda oltre ad un pagamento anticipato di 20 milioni di sterline effettuato ad aprile 2022 per coprire gli iniziali costi operativi. Nonostante il pagamento di £290 milioni, nessun richiedente asilo è stato trasferito con l’unica eccezione di un caso sottoposto, però, ad un regime speciale: il programma separato volontario. Infatti, secondo un nuovo servizio volontario di rimpatrio, nell’ipotesi del respingimento, ai richiedenti asilo è offerta la possibilità di percepire un indennizzo di 3.000 sterline per tornare nel loro paese di origine o, qualora ciò non fosse possibile, per essere trasferiti in Ruanda, come nel caso in questione.
L’accordo Uk-Ruanda prevede ulteriori pagamenti fissi di £50 milioni, oltre a £20.000 per ogni persona trasferita e £150.874 per coprire i costi di integrazione, come cibo e alloggio. Inoltre, il Regno Unito avrebbe dovuto sostenere i costi di elaborazione delle domande di asilo e versare un extra di £120 milioni dopo aver portato a termine il trasferimento di 300 persone. La spesa complessiva prevista per la realizzazione del piano ammontava ad oltre £600 milioni per trasferire 300 persone in Ruanda: un costo di circa £2 milioni per ciascun richiedente asilo. Dunque, secondo la valutazione del Ministero dell’Interno il trasferimento dei migranti in Ruanda sarebbe costato, secondo una stima ottimistica, 63.000 sterline in più per persona rispetto a trattare le loro richieste nel Regno Unito.
Non si conoscono ancora le implicazioni economiche della cancellazione dello schema Ruanda, si sa però che, a luglio del 2024, erano stati già spesi 318 milioni di sterline.
Si sottolinea che i costi sopra riportati non devono considerarsi esaustivi e potrebbero essere più elevati poichè dalle spese indicate sono eslcuse alcune voci, come i costi per l’arresto e la detenzione delle persone in attesa di trasferimento. Il National Audit Office ha stimato, infatti, che se il piano fosse diventato operativo, il costo totale per trasferire 20.000 persone sarebbe salito a circa £4 miliardi, ovvero circa £200.000 per persona. Queste stime non includono i costi aggiuntivi derivanti dall’implementazione dell’Illegal Migration Act (IMA) approvato nel 2023, in particolare quelli relativi al sostegno alle persone che, nonostante il presunto “deterrent effect” delle politiche britanniche, non sono state scoraggiate nè trasferite in Ruanda o altri paesi terzi.
Un elemento sul quale è necessario porre l’attenzione al fine di calcolare la cost-effectiveness è, come già menzionato, l’effetto deterrente degli accordi di esternalizzazione delle frontiere. Nel caso Uk-Ruanda non ci sono stati elementi tangibili che hanno evidenziato un rilevante effetto deterrente, come si evince da una lettera del Segretario Permanente dell’Home Office, la qual afferma che “l’efficacia deterrente della politica era altamente incerta e non quantificabile con sufficiente precisione. Di conseguenza, mancava un adeguato livello di garanzia rispetto alla convenienza economica della misura, poiché non vi erano prove sufficienti per dimostrare che avrebbe effettivamente ridotto gli arrivi irregolari.
Altri paesi hanno sperimentato esperienze simili di “nuova” esternalizzazione delle frontiere a quelle degli accordi qui in commento. Nel 2001 l’Australia ha avviato un programma denominato “Pacific Solution” trasferendo i richiedenti asilo arrivati irregolarmente verso Nauru e Papua Nuova Guinea. Sebbene le partenze irregolari via mare siano diminuite drasticamente, si è osservato che il costo per richiedente asilo è stato estremamente elevato, con stime di circa 3,4 milioni di dollari australiani per persona, rispetto ai costi di accoglienza in Australia, quasi 770 volte inferiori. Oltre alle evidenti criticità finanziarie, la “offshoring policy” ha suscitato critiche per le condizioni degradanti e gli abusi nei centri.
Israele, fra il 2013 ed il 2018, ha concluso un accordo con il Ruanda che, per coerenza di obiettivi, presenta analogie con l’accordo fra il Regno Unito ed il Ruanda. Anche in questo caso sono emerse ulteriori criticità: molti richiedenti asilo inviati in Ruanda hanno continuato i loro viaggi verso l’Europa, evidenziando l’insufficienza di garanzie di permanenza nel paese terzo e l’inefficacia della misura.
È cruciale riflettere sulle criticità già riscontrate nelle altre esperienze di esternalizzazione ed evitare che nei centri in Albania si ripetano gli abusi già emersi nei CPR italiani, come, ad esempio, nel caso del centro di Via Corelli. La mancanza di trasparenza legata alla gestione privata e l’opacità delle condizioni interne hanno reso difficile monitorare la situazione e denunciare le violazioni. L’apertura dei centri nei siti di Schengjin e Gjader potrebbe rendere il monitoraggio ancora più difficile.
Solo con l’attuazione e l’analisi dei risultati concreti del protocollo Italia-Albania sarà possibile determinare il suo impatto reale e valutare se esso riuscirà a raggiungere un equilibrio tra costi e benefici, realizzando gli obbiettivi a cui è preposto.
6. GOLDEN POWER: LE PROPOSTE DI ASSONIME PER SNELLIRE IL QUADRO NORMATIVO a cura di Gian Marco Ferrarini
Lo scorso luglio, l’Associazione fra le Società italiane per azioni (Assonime) ha pubblicato un position paper che offre un’analisi approfondita dell’attuale quadro normativo sui poteri speciali del Governo. Nello specifico, il documento si concentra sull’individuazione delle criticità presenti e formula proposte per semplificare l’impianto regolamentare e applicativo della disciplina.
Introdotto formalmente con decreto-legge 21/2012 dal Governo Monti, il Golden Power ha subito in questi anni numerosi interventi normativi che ne hanno gradualmente esteso il raggio d’azione a nuovi ambiti, coinvolgendo un numero crescente di realtà economiche e una gamma sempre più ampia di investimenti. Invero, la disciplina originale era stata concepita per un contesto economico e geopolitico molto diverso, con un campo di applicazione significativamente più ristretto. Alle originarie finalità di protezione degli asset strategici da investimenti extra-UE di natura predatoria si sono aggiunte nuove esigenze dettate dal mutato contesto economico e geopolitico, come la pandemia e la guerra in Ucraina, oltre a ulteriori obiettivi. Questi includono il monitoraggio delle politiche di approvvigionamento tecnologico da parte degli operatori di telecomunicazioni, la supervisione circa il trasferimento e gestione dei dati su piattaforme cloud, le restrizioni sul trasferimento di tecnologie e know-how, nonché la tutela dell’occupazione e l’ampliamento delle prerogative di politica industriale. Il risultato è un quadro normativo frammentato e stratificato, che evidenzia significativi limiti e difficoltà nell’applicazione.
Le principali problematiche individuate nel documento riguardano, anzitutto, le conseguenze dell’ampliamento del perimetro applicativo, insieme all’uso di definizioni ampie e spesso vaghe, che hanno reso difficile stabilire con certezza quando siano necessari gli obblighi di notifica, la cui mancata osservanza, tra l’altro, può comportare sanzioni considerevoli. A tal proposito, non sorprende, infatti, che oltre il 90% delle circa 1500 notifiche finora presentate si sia concluso senza l’esercizio effettivo dei poteri speciali, nemmeno nelle forme più moderate come l’assenso con prescrizioni. In secondo luogo, si mette in rilievo come l’avvio
dell’istruttoria ai fini della valutazione circa l’esercizio dei poteri speciali possa, in effetti, causare ritardi significativi nella conclusione delle operazioni, e questo anche quando l’istruttoria stessa si chiude senza alcun intervento, influenzando negativamente il buon esito e lo sviluppo delle trattative. Un’ulteriore questione riguarda, poi, il basso livello di prevedibilità della tipologia di condizioni e prescrizioni, ad oggi non ancora tipizzate a livello normativo.
Alla luce di quanto detto, pertanto, vengono avanzate alcune proposte di intervento. La prima riguarda la necessità di incrementare la trasparenza nelle prassi amministrative, affinché le imprese possano operare in un quadro di maggiore certezza e prevedibilità. Assonime propone l’introduzione di linee guida più dettagliate che, basandosi sui casi passati, possano offrire una mappatura chiara delle operazioni soggette a notifica e delle condizioni eventualmente imposte. Un secondo intervento, anche questo di estrema rilevanza, concerne la creazione di un archivio digitale: questo strumento consentirebbe alle imprese di consultare i precedenti relativi alle notifiche effettuate, agli esiti delle istruttorie e alle condizioni applicate in casi simili. Il sistema così delineato non solo ridurrebbe la discrezionalità amministrativa, ma fornirebbe anche un quadro di riferimento che aiuterebbe a risolvere la questione delle notifiche “precauzionali”. In tal modo, si troverebbe soluzione a uno dei problemi principali legati all’attuale disciplina, ovvero la difficoltà per le imprese di determinare se e quando un’operazione debba essere notificata, con il rischio di incorrere in ritardi o di inviare notifiche superflue.
Il terzo intervento, invece, risponde all’esigenza di definire in maniera più puntuale le attività strategiche e le operazioni rilevanti, agendo sulla regolamentazione secondaria. È infatti urgente una più accurata individuazione di alcune attività e beni strategici. Si pensi, ad esempio, al settore dei dati e delle informazioni sensibili, come previsto dall’art. 6 del DPCM 179/2020, che utilizza un parametro quantitativo (nello specifico, il riferimento è alle “trecentomila persone fisiche o giuridiche”), per stabilire la rilevanza del trattamento dei dati, rischiando così di includere anche attività che di strategico non hanno nulla. Sarebbe dunque opportuno chiarire meglio alcune definizioni contenute nella regolamentazione secondaria, aggiornando, ove necessario, i DPCM di attuazione del d.l. 21/2012.
Parallelamente, il documento pone l’accento su un’altra esigenza fondamentale: una razionalizzazione complessiva del quadro normativo. L’attuale complesso di regole sui poteri speciali, esteso nel corso degli anni a una serie di nuovi settori, si è stratificato in una successione di interventi che, sebbene motivati da ragioni valide come la protezione di asset strategici, hanno finito per generare sovrapposizioni e incertezze applicative. Di fronte a questa frammentazione, Assonime propone un approccio più organico, attraverso la creazione di un testo unico che racchiuda l’intera disciplina sul Golden power, semplificandone l’applicazione e rendendola più accessibile sia per le imprese sia per l’amministrazione pubblica. Un corpus del genere, oltre a rendere più coerente l’impianto normativo, migliorerebbe il coordinamento con altre normative settoriali, come quelle relative ai materiali di armamento o ai prodotti a duplice uso, che spesso si sovrappongono alla disciplina sui poteri speciali, creando ulteriori complessità.
Un ultimo aspetto cruciale su cui si concentra il position paper è la necessità di ridefinire gli obblighi di notifica. Attualmente, il campo di applicazione della normativa è così ampio da includere anche operazioni che difficilmente comportano particolari rischi strategici, come quelle infragruppo, ossia le riorganizzazioni interne tra società appartenenti allo stesso gruppo. Secondo Assonime, limitare tali obblighi alle sole operazioni che incidono realmente su asset strategici ridurrebbe il carico burocratico sulle imprese e permetterebbe all’amministrazione di concentrarsi su operazioni di effettivo interesse per la sicurezza nazionale. La situazione attuale, infatti, vede un gran numero di notifiche concludersi senza l’esercizio dei poteri speciali; procedure che, nel frattempo, hanno causato ritardi e complicazioni nelle trattative.
In definitiva, le proposte avanzate mirano a un duplice obiettivo: da un lato, preservare e rafforzare la tutela degli interessi strategici nazionali, dall’altro, semplificare e rendere più efficiente lo strumento del Golden power, così da facilitare gli oneri a carico delle imprese. Il documento sottolinea che non si tratta solo di ridurre il numero delle notifiche o di accelerare i tempi delle istruttorie, ma di rifondare il rapporto tra Stato e impresa su un principio di maggiore chiarezza, fiducia e trasparenza reciproca. Un quadro normativo più chiaro e prevedibile, in cui i confini degli obblighi di notifica siano tracciati con precisione, permetterebbe non solo una protezione più efficace degli interessi pubblici, ma anche un ambiente più favorevole alla crescita economica e all’attrazione di investimenti, soprattutto esteri.
In questa ottica, le conclusioni tratte da Assonime appaiono particolarmente rilevanti. È necessario un intervento di riforma sistematica che, oltre a consolidare e razionalizzare la normativa esistente, ne delimiti con precisione l’ambito applicativo, in modo che la protezione della sicurezza nazionale possa convivere in armonia con lo sviluppo economico. La proposta di un testo unico, insieme alla creazione di strumenti come l’archivio digitale e le linee guida, rappresenta un passo importante verso un sistema di regole che sia tanto efficace nel garantire la sicurezza del Paese quanto funzionale nel sostenere l’attività economica, promuovendo un clima di fiducia per gli investitori.
7. L’INCERTEZZA SUL FUTURO DELL’ABUSO D’UFFICIO DOPO L’ABROGAZIONE a cura di Federica Micarelli
Dopo svariate riforme che lo hanno modificato e hanno tentato di delimitarne i confini, la l.114/2024, approvando definitivamente il disegno di legge n.1718/2024 (c.d. d.d.l. Nordio), ha abrogato l’abuso d’ufficio di cui all’art.323 del Codice penale. Da sempre fattispecie molto discussa, vista la sua formulazione vaga e indeterminata, l’abolitio criminis ha sicuramente soddisfatto le aspettative di molti, nel tentativo di eliminare distorsioni derivanti da “paura della firma” e burocrazia difensiva che spesso hanno frenato soggetti pubblici dal prendere scelte discrezionali, costituenti invece il quid proprium del loro ufficio. Nelle ragioni che hanno portato all’abrogazione c’è la preoccupazione che la mancanza di un perimetro ben definito del sindacato del giudice penale rischi di compromettere l’intera funzionalità amministrativa, data la paura dei pubblici ufficiali di essere coinvolti in un procedimento penale a fronte di una fattispecie dai confini spesso incerti. Inoltre, si evidenzia uno squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e le conseguenti decisioni di merito, dato indicativo della difficoltà dei pubblici ministeri di scegliere tra archiviazione e rinvio a giudizio.
L’abuso d’ufficio svolge (o svolgeva), com’è noto, un ruolo di chiusura nel nostro sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, intervenendo in via residuale quando non siano applicabili fattispecie più gravi. Nondimeno, riflette da sempre quel difficile equilibrio tra il potere di punire e quello di amministrare: l’esigenza è quella di preservare il più ampio principio di divisione dei poteri, per evitare il rischio di una sostanziale paralisi dell’azione amministrativa o di un’indebita invasione di campo. La prassi giurisprudenziale ha infatti dimostrato come l’abuso d’ufficio possa rappresentare un potente strumento di ingerenza del giudice penale nello svolgimento dell’attività amministrativa. Da qui le varie riscritture rispetto alla sua formulazione originaria.
Nel codice Rocco si parlava di abuso innominato (rubricato “abuso d’ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”), in quanto l’ambito di applicazione della fattispecie era solo marginale, vista la presenza di altre disposizioni in grado di attrarre condotte di questo tipo (quali l’interesse privato in atti d’ufficio ex art.324 e il peculato per distrazione ex art.314). Con la riforma del 1990 (l.86/1990) e l’abrogazione di queste fattispecie si è invece conferita maggiore centralità all’abuso d’ufficio. Quest’ultima rimaneva, comunque, una disposizione molto vaga, in quanto la condotta si appuntava solo sull’abuso del proprio ufficio, senza fornire ulteriori specificazioni. Per rimediare a questo deficit, con la legge n.234/1997 sono stati definiti in maniera più accurata i contorni della condotta penalmente rilevante, inserendo il dolo intenzionale, nonché prevedendo la violazione di norme di legge o regolamenti oppure l’omesso intervento in caso di conflitto di interessi. L’aggiunta dell’avverbio “intenzionalmente” fa sì che l’evento del vantaggio patrimoniale o del danno sia la conseguenza immediata della condotta dell’agente, preordinata a procurare un vantaggio in maniera non conforme alla legge, abusando della propria posizione.
Il legislatore del 2020 poi, nell’ambito del c.d. Decreto semplificazioni (n.76/2020), oltre ad espungere il riferimento alla fonte del regolamento e ad aggiungere quello agli atti aventi forza di legge, ha inserito il requisito della “specificità” delle regole di condotta violate, da cui non devono residuare margini di discrezionalità, così mantenendo rilevanza penale la sola attività vincolata della Pubblica Amministrazione, quando cioè la scelta risulti già predeterminata dalla legge senza necessità di un’ulteriore ponderazione di interessi. Appena usciti dalla pandemia, nella speranza di una rapida ripartenza dell’economia del Paese e volendo evitare ostacoli e immobilismo della Pubblica Amministrazione, questo sembrava il modo più giusto per contornare la fattispecie e lasciare i funzionari pubblici più liberi di prendere decisioni. Così facendo, sembrava essere notevolmente ridotta l’ampiezza del sindacato del giudice penale sull’eccesso o sviamento di potere ad opera di pubblici ufficiali, su cui si era invece appuntata la giurisprudenza precedente.
Nelle prime applicazioni dell’art.323 dopo la riforma del 1997, la giurisprudenza si era infatti soffermata sul significato della locuzione “violazione di norme di legge”. In un primo momento, si era escluso che nel novero dell’art.323 rientrasse il mero eccesso di potere, richiedendosi che la norma violata vietasse in modo puntuale il comportamento tenuto dal pubblico ufficiale (sentenza Tosches, Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877). Questo orientamento era stato in seguito ribaltato e le Sezioni unite, nella sentenza Rossi (Cass. pen., sez. un., 29 settembre 2011, n. 155), avevano chiarito che sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la condotta realizzi un interesse collidente con quello per cui il potere è attribuito. Sarebbero quindi ricomprese anche le ipotesi di eccesso di potere, laddove vi sia stata oggettiva distorsione dal fine pubblico, e quelle di sviamento di potere, quando il potere è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione.
All’indomani della riforma del 2020, il sindacato del giudice penale si era invece circoscritto ai casi in cui dalle regole di condotta violate non residuassero margini di discrezionalità. Secondo la giurisprudenza, il legislatore aveva inteso fare riferimento all’attività vincolata della P.A., in particolare sia alle norme che attribuiscono al pubblico agente un potere vincolato sin dal principio, sia a quelle che, pur lasciando al funzionario una facoltà di scelta iniziale, pongono poi nei suoi confronti un determinato obbligo (così Cass. pen., sez. VI, 1° marzo 2021, n. 8057).
Infine, il 10 luglio 2024, la Camera dei deputati ha approvato definitivamente il d.d.l. Nordio, abolendo il reato di abuso d’ufficio, all’esito di un percorso intrapreso già l’anno scorso quando era stato presentato il relativo disegno di legge. All’abrogazione ha fatto da contraltare la riforma del delitto di “traffico di influenze illecite” (di cui all’art.346 bis c.p.), nonché l’introduzione della nuova fattispecie “indebita destinazione di denaro o cose mobili” (nuovo art.314 bis c.p.) ad opera del decreto legge n.92/2024, per cui molti hanno parlato di un ritorno, sotto altre vesti, del vecchio peculato per distrazione abrogato nel 1990.
L’art.346 bis, introdotto con l.190/2012 (c.d. legge Severino), punisce le condotte di intermediazione di soggetti terzi nell’opera di corruzione tra il corrotto e il corruttore. L’antigiuridicità si appunta sul fatto che tra i soggetti si pattuisce la dazione di denaro o di altra utilità economica in cambio dell’esercizio di un’influenza del privato sul pubblico agente, al fine di orientarne le decisioni amministrative in senso favorevole all’istigatore iniziale. La fattispecie è stata ridefinita in senso restrittivo dalla l.114/2024: si è aggiunto il dolo intenzionale; le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale devono essere esistenti (non vantate) ed effettivamente utilizzate; l’utilità corrisposta o promessa al mediatore deve essere economica.
Il nuovo art.314 bis, invece, punisce la destinazione da parte del funzionario pubblico di denaro o di altra cosa mobile ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge. La condotta consiste nella destinazione di risorse pubbliche a scopi diversi da quelli istituzionali e si sovrappone, dunque, a quella del peculato per distrazione che, dopo l’abrogazione nel 1990, costituiva una delle espressioni tipiche dell’abuso d’ufficio. Condotte di questo tipo, infatti, se prima sussunte sotto l’art.323, verranno ora ricondotte all’art.314 bis, per cui fatti di peculato per distrazione di beni mobili conserveranno rilevanza penale e saranno sindacabili anche dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, tramite riqualificazione del fatto.
Il primo tema che si è posto a seguito dell’abrogazione è connesso alla possibile riapertura dei processi, anche a fronte di sentenze di condanna passate in giudicato, e dunque irrevocabili, ad opera del giudice dell’esecuzione che, ex art.673 c.p., è tenuto a revocare la sentenza, nonché gli effetti pregiudizievoli che ne sono derivati, quando il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Sin dai primi commenti sono inoltre stati evidenziati possibili profili di incostituzionalità della riforma. La Procura di Reggio Emilia, infatti, nell’ambito del procedimento penale relativo all’affido di minori a Bibbiano, ha chiesto al Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale della legge n.114/2024 nella parte in cui ha abrogato l’abuso d’ufficio, in ragione del ritenuto contrasto con gli artt.3, 24, 97 e 117 Cost. In punto di non manifesta infondatezza, la memoria presentata dalla Procura articola puntualmente le doglianze. Con riferimento all’art.3 Cost., si lamenta il diverso trattamento sanzionatorio rispetto a fattispecie analoghe a quella abrogata o anche di minor disvalore, come l’art.328 c.p. (rifiuto di atti d’ufficio) o gli artt.353 (turbata libertà degli incanti) e 353 bis (turbata libertà del procedimento di scelta del contraente). A detta dei magistrati si finirebbe per trattare in maniera sproporzionata situazioni identiche, così violando il canone della ragionevolezza.
L’abrogazione contrasterebbe poi con l’art.24, che garantisce a tutti i cittadini il diritto di difesa a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, in quanto lascerebbe prive di tutela situazioni di prevaricazione del pubblico ufficiale sul privato, che non potrebbero rientrare in altre fattispecie. Quanto all’art.97 Cost., la Procura lamenta un vuoto di tutela rispetto a beni giuridici pubblici e collettivi, quali il buon andamento e l’imparzialità della P.A., essendo consentito esclusivamente al terzo eventualmente danneggiato di censurare la condotta del pubblico funzionario, e impedito, invece, il sindacato del giudice penale su iniziativa d’ufficio. Il terzo che abbia subito il comportamento “prevaricatore” del pubblico ufficiale potrebbe sempre, infatti, lamentare la violazione del proprio interesse legittimo di fronte al giudice amministrativo.
Ciò che sembrerebbe davvero far discutere è, però, la compatibilità dell’abrogazione con i vincoli internazionali per cui potrebbero sollevarsi ulteriori questioni di costituzionalità con riferimento all’art.117 Cost., che prescrive il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. In particolare, con la legge n.116/2009 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione ONU del 2003 contro la corruzione, c.d. Convenzione di Merida, la quale ha dettato l’obbligo per gli stati firmatari di conferire carattere penale ad una serie di infrazioni per atti di corruzione. Nello specifico, secondo la Convenzione, lo stato dovrebbe adoperarsi per attuare sistemi che prevengano i conflitti di interesse, mentre sarebbe evidente che l’abrogazione in commento andrebbe nella direzione opposta. In ambito comunitario, invece, la memoria dei magistrati mette in evidenza il contrasto con la direttiva UE 2017/1371, recante norme per “la lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”. Scopo della direttiva è quello di impegnare gli Stati membri a indicare quali fattispecie di reato debbano essere considerate lesive degli interessi finanziari dell’UE, facendo conseguire misure sanzionatorie efficaci. A fronte di ciò, il legislatore italiano aveva inserito l’abuso d’ufficio nell’elenco dei reati di cui all’art.322 bis, norma che estende la punibilità per i delitti contro la P.A. alle ipotesi in cui siano coinvolti funzionari europei o internazionali.
Peraltro, sarebbe in corso una proposta di direttiva europea sulla lotta globale alla corruzione (COM (2023)234) che, seguendo il filone della Convenzione di Merida, impegnerebbe gli Stati membri a prevedere come reato proprio l’abuso d’ufficio, definito come “l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”, sostanzialmente riproducendo il contenuto dell’ormai abrogato art.323. L’eventuale approvazione di questa direttiva, dunque, porterebbe a una reintroduzione della fattispecie, con conseguente vuoto normativo nel mezzo per cui esclusivamente condotte avvenute post abrogazione ma pre-reintroduzione della fattispecie rimarrebbero impunite.
Nell’attesa di conoscere quale sarà il futuro dell’abuso di ufficio post abrogazione, pare opportuno ricordare che già dopo la riforma del 2020 ad opera del Decreto semplificazioni era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale, essendo l’art.323 divenuto marginale vista la maggiore tassatività della fattispecie. Il riferimento è alla sent.8/2022 con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni relative agli artt.3 e 97 Cost., visto che un eventuale accoglimento avrebbe portato ad una reviviscenza della norma e quindi ad un effetto in malam partem, precluso alla Corte. Con l’occasione, la Corte aveva rimarcato l’extrema ratio del diritto penale, applicabile solo quando imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione non possano essere protetti con altri mezzi. Come sottolineato dalla stessa Corte, però, questo non vuol dire creare nell’ordinamento “zone franche” che siano in qualche modo immuni dal controllo di legittimità costituzionale, soprattutto qualora vengano in gioco obblighi sovranazionali, come evidenziato dalla stessa memoria della Procura di Reggio Emilia.
8. D.L. INFRASTRUTTURE: STRUMENTI PER LA CRESCITA DEL PAESE E L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE NEGLI STATI DEL CONTINENTE AFRICANO a cura di Michele Sangiovanni
In data 20 agosto, il Parlamento con la L.120/2024 ha convertito il d.l. 89/2024 (c.d. “Decreto Infrastrutture” entrato in vigore il 30 giugno) che introduce misure urgenti per le infrastrutture e gli investimenti di interesse strategico con attenzione agli Stati del Continente Africano.
L’obiettivo del d.l. Infrastrutture è accelerare i processi decisionali ed operativi delle grandi opere pubbliche, attraverso la semplificazione delle procedure burocratiche e l’incremento degli investimenti pubblici e privati.
Questi obiettivi vengono perseguiti tramite molteplici strumenti, di natura finanziaria e giuridica, previsti dal Testo in discussione.
All’art. 10 co. 1-4, il legislatore ha introdotto un nuovo strumento finanziario, all’interno del fondo rotativo ex L.394/1981, dedicato alle imprese che operano in Africa. È previsto infatti l’impiego di fondi fino ad un massimo di 200 mln di euro, all’interno dei 4 mld di euro già previsti nel fondo rotativo per le imprese: gestito da Simest Spa.
Simest Spa è una società pubblica controllata, a partire dal 2012, al 76% da Cassa depositi e prestiti Spa il cui scopo è il sostegno alle imprese italiane per tutto il ciclo di espansione all’estero.
L’intervento è concesso secondo le modalità e i termini stabiliti dal Comitato agevolazioni, ossia l’organo competente ad amministrare il fondo rotativo composto da due rappresentanti del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, da un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze, da un rappresentante del Ministero dello sviluppo economico e da un rappresentante designato dalle regioni.
Sono poi ammessi cofinanziamenti a fondo perduto, fino al 10% dei 200 mln di euro di finanziamenti concessi (aumentati al 20% per le imprese localizzate nelle regioni del Sud Italia).
Una seconda misura è prevista all’art. 10 co. 5-6 della presente legge.
Al fine di sostenere iniziative e progetti promossi nell’ambito del Piano Mattei, si autorizza Cassa depositi e prestiti Spa, nel limite di 500 mln di euro per l’anno 2024, a concedere finanziamenti alle imprese per interventi coerenti con le finalità del progetto.
Nello specifico tali finanziamenti possono essere concessi sotto qualsiasi forma, anche congiuntamente al debito bancario, ma prioritariamente a favore di imprese stabilmente operanti in Stati del Continente Africano, per la realizzazione di interventi nei settori: infrastrutturali; tutela dell’ambiente e sfruttamento sostenibile delle risorse naturali; salute; agricoltura e sicurezza alimentare; manifatturiero.
La concessione dei finanziamenti effettuati da Cassa depositi e prestiti Spa è assistita da garanzia statale in misura pari all’80% per singolo intervento, nei limiti delle risorse di un fondo che viene istituito con una dotazione di 400 mln di euro per il 2024.
L’art.10 ai co.7-9 disciplina taluni profili del procedimento di erogazione dei finanziamenti in esame.
Nello specifico, l’istruttoria, ai fini dell’ammissione degli interventi, è svolta da Cassa depositi e prestiti Spa la quale, in caso di esito favorevole, approva l’intervento e ne dà comunicazione ad un Comitato Tecnico che, previa verifica della coerenza dell’intervento con le finalità della legge, ne delibera la procedibilità.
Il Comitato Tecnico è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (all’interno della Struttura di missione del Piano Mattei) ed è composto da 4 rappresentanti della Presidenza del Consiglio, un rappresentante per ciascuno dei seguenti Ministeri: affari esteri e cooperazione internazionale, ambiente e sicurezza energetica e Ministero dell’economia e delle finanze.
Ottenuto il parere favorevole della Commissione, Cassa depositi e prestiti Spa può sottoscrivere la documentazione contrattuale degli interventi con il soggetto beneficiario e deve riferire al Comitato tecnico e al MEF gli importi delle erogazioni effettuate in relazione a ciascun intervento, nonché annualmente l’andamento degli stessi.
Infine, l’art.10 al co.11 dispone, rinviando a DPCM da adottarsi di concerto con il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, la determinazione dell’orientamento strategico e delle priorità di investimento delle risorse del Fondo italiano per il clima, che però devono essere destinate a supporto delle finalità e obiettivi del Piano Mattei. In tal caso, le funzioni del Comitato di indirizzo e del Comitato direttivo del Fondo italiano per il clima sono svolte dal Comitato tecnico sopra indicato.
In conclusione, al Capo II “investimenti di interesse strategico” della presente legge, è chiara l’intenzione del legislatore di voler rafforzare la presenza economica italiana nei Paesi del Continente Africano, in linea con il Piano Mattei, al fine di, da un lato, assicurare l’approvvigionamento di materie prime critiche per il Paese e, dall’altro, garantire lo sviluppo infrastrutturale dello stesso tramite misure di internazionalizzazione delle imprese italiane.