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L’INCERTEZZA SUL FUTURO DELL’ABUSO D’UFFICIO DOPO L’ABROGAZIONE

23 settembre 2024

A cura di Federica Micarelli

Dopo svariate riforme che lo hanno modificato e hanno tentato di delimitarne i confini, la l.114/2024, approvando definitivamente il disegno di legge n.1718/2024 (c.d. d.d.l. Nordio), ha abrogato l’abuso d’ufficio di cui all’art.323 del Codice penale. Da sempre fattispecie molto discussa, vista la sua formulazione vaga e indeterminata, l’abolitio criminis ha sicuramente soddisfatto le aspettative di molti, nel tentativo di eliminare distorsioni derivanti da “paura della firma” e burocrazia difensiva che spesso hanno frenato soggetti pubblici dal prendere scelte discrezionali, costituenti invece il quid proprium del loro ufficio. Nelle ragioni che hanno portato all’abrogazione c’è la preoccupazione che la mancanza di un perimetro ben definito del sindacato del giudice penale rischi di compromettere l’intera funzionalità amministrativa, data la paura dei pubblici ufficiali di essere coinvolti in un procedimento penale a fronte di una fattispecie dai confini spesso incerti. Inoltre, si evidenzia uno squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e le conseguenti decisioni di merito, dato indicativo della difficoltà dei pubblici ministeri di scegliere tra archiviazione e rinvio a giudizio.

L’abuso d’ufficio svolge (o svolgeva), com’è noto, un ruolo di chiusura nel nostro sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, intervenendo in via residuale quando non siano applicabili fattispecie più gravi. Nondimeno, riflette da sempre quel difficile equilibrio tra il potere di punire e quello di amministrare: l’esigenza è quella di preservare il più ampio principio di divisione dei poteri, per evitare il rischio di una sostanziale paralisi dell’azione amministrativa o di un’indebita invasione di campo. La prassi giurisprudenziale ha infatti dimostrato come l’abuso d’ufficio possa rappresentare un potente strumento di ingerenza del giudice penale nello svolgimento dell’attività amministrativa. Da qui le varie riscritture rispetto alla sua formulazione originaria.

Nel codice Rocco si parlava di abuso innominato (rubricato “abuso d’ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”), in quanto l’ambito di applicazione della fattispecie era solo marginale, vista la presenza di altre disposizioni in grado di attrarre condotte di questo tipo (quali l’interesse privato in atti d’ufficio ex art.324 e il peculato per distrazione ex art.314). Con la riforma del 1990 (l.86/1990) e l’abrogazione di queste fattispecie si è invece conferita maggiore centralità all’abuso d’ufficio. Quest’ultima rimaneva, comunque, una disposizione molto vaga, in quanto la condotta si appuntava solo sull’abuso del proprio ufficio, senza fornire ulteriori specificazioni. Per rimediare a questo deficit, con la legge n.234/1997 sono stati definiti in maniera più accurata i contorni della condotta penalmente rilevante, inserendo il dolo intenzionale, nonché prevedendo la violazione di norme di legge o regolamenti oppure l’omesso intervento in caso di conflitto di interessi. L’aggiunta dell’avverbio “intenzionalmente” fa sì che l’evento del vantaggio patrimoniale o del danno sia la conseguenza immediata della condotta dell’agente, preordinata a procurare un vantaggio in maniera non conforme alla legge, abusando della propria posizione.

Il legislatore del 2020 poi, nell’ambito del c.d. Decreto semplificazioni (n.76/2020), oltre ad espungere il riferimento alla fonte del regolamento e ad aggiungere quello agli atti aventi forza di legge, ha inserito il requisito della “specificità” delle regole di condotta violate, da cui non devono residuare margini di discrezionalità, così mantenendo rilevanza penale la sola attività vincolata della Pubblica Amministrazione, quando cioè la scelta risulti già predeterminata dalla legge senza necessità di un’ulteriore ponderazione di interessi. Appena usciti dalla pandemia, nella speranza di una rapida ripartenza dell’economia del Paese e volendo evitare ostacoli e immobilismo della Pubblica Amministrazione, questo sembrava il modo più giusto per contornare la fattispecie e lasciare i funzionari pubblici più liberi di prendere decisioni. Così facendo, sembrava essere notevolmente ridotta l’ampiezza del sindacato del giudice penale sull’eccesso o sviamento di potere ad opera di pubblici ufficiali, su cui si era invece appuntata la giurisprudenza precedente.

Nelle prime applicazioni dell’art.323 dopo la riforma del 1997, la giurisprudenza si era infatti soffermata sul significato della locuzione “violazione di norme di legge”. In un primo momento, si era escluso che nel novero dell’art.323 rientrasse il mero eccesso di potere, richiedendosi che la norma violata vietasse in modo puntuale il comportamento tenuto dal pubblico ufficiale (sentenza Tosches, Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877). Questo orientamento era stato in seguito ribaltato e le Sezioni unite, nella sentenza Rossi (Cass. pen., sez. un., 29 settembre 2011, n. 155), avevano chiarito che sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la condotta realizzi un interesse collidente con quello per cui il potere è attribuito. Sarebbero quindi ricomprese anche le ipotesi di eccesso di potere, laddove vi sia stata oggettiva distorsione dal fine pubblico, e quelle di sviamento di potere, quando il potere è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione.

All’indomani della riforma del 2020, il sindacato del giudice penale si era invece circoscritto ai casi in cui dalle regole di condotta violate non residuassero margini di discrezionalità. Secondo la giurisprudenza, il legislatore aveva inteso fare riferimento all’attività vincolata della P.A., in particolare sia alle norme che attribuiscono al pubblico agente un potere vincolato sin dal principio, sia a quelle che, pur lasciando al funzionario una facoltà di scelta iniziale, pongono poi nei suoi confronti un determinato obbligo (così Cass. pen., sez. VI, 1° marzo 2021, n. 8057).

Infine, il 10 luglio 2024, la Camera dei deputati ha approvato definitivamente il d.d.l. Nordio, abolendo il reato di abuso d’ufficio, all’esito di un percorso intrapreso già l’anno scorso quando era stato presentato il relativo disegno di legge. All’abrogazione ha fatto da contraltare la riforma del delitto di “traffico di influenze illecite” (di cui all’art.346 bis c.p.), nonché l’introduzione della nuova fattispecie “indebita destinazione di denaro o cose mobili” (nuovo art.314 bis c.p.) ad opera del decreto legge n.92/2024, per cui molti hanno parlato di un ritorno, sotto altre vesti, del vecchio peculato per distrazione abrogato nel 1990.

L’art.346 bis, introdotto con l.190/2012 (c.d. legge Severino), punisce le condotte di intermediazione di soggetti terzi nell’opera di corruzione tra il corrotto e il corruttore. L’antigiuridicità si appunta sul fatto che tra i soggetti si pattuisce la dazione di denaro o di altra utilità economica in cambio dell’esercizio di un’influenza del privato sul pubblico agente, al fine di orientarne le decisioni amministrative in senso favorevole all’istigatore iniziale. La fattispecie è stata ridefinita in senso restrittivo dalla l.114/2024: si è aggiunto il dolo intenzionale; le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale devono essere esistenti (non vantate) ed effettivamente utilizzate; l’utilità corrisposta o promessa al mediatore deve essere economica.

Il nuovo art.314 bis, invece, punisce la destinazione da parte del funzionario pubblico di denaro o di altra cosa mobile ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge. La condotta consiste nella destinazione di risorse pubbliche a scopi diversi da quelli istituzionali e si sovrappone, dunque, a quella del peculato per distrazione che, dopo l’abrogazione nel 1990, costituiva una delle espressioni tipiche dell’abuso d’ufficio. Condotte di questo tipo, infatti, se prima sussunte sotto l’art.323, verranno ora ricondotte all’art.314 bis, per cui fatti di peculato per distrazione di beni mobili conserveranno rilevanza penale e saranno sindacabili anche dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, tramite riqualificazione del fatto.

Il primo tema che si è posto a seguito dell’abrogazione è connesso alla possibile riapertura dei processi, anche a fronte di sentenze di condanna passate in giudicato, e dunque irrevocabili, ad opera del giudice dell’esecuzione che, ex art.673 c.p., è tenuto a revocare la sentenza, nonché gli effetti pregiudizievoli che ne sono derivati, quando il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Sin dai primi commenti sono inoltre stati evidenziati possibili profili di incostituzionalità della riforma. La Procura di Reggio Emilia, infatti, nell’ambito del procedimento penale relativo all’affido di minori a Bibbiano, ha chiesto al Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale della legge n.114/2024 nella parte in cui ha abrogato l’abuso d’ufficio, in ragione del ritenuto contrasto con gli artt.3, 24, 97 e 117 Cost. In punto di non manifesta infondatezza, la memoria presentata dalla Procura articola puntualmente le doglianze. Con riferimento all’art.3 Cost., si lamenta il diverso trattamento sanzionatorio rispetto a fattispecie analoghe a quella abrogata o anche di minor disvalore, come l’art.328 c.p. (rifiuto di atti d’ufficio) o gli artt.353 (turbata libertà degli incanti) e 353 bis (turbata libertà del procedimento di scelta del contraente). A detta dei magistrati si finirebbe per trattare in maniera sproporzionata situazioni identiche, così violando il canone della ragionevolezza.

L’abrogazione contrasterebbe poi con l’art.24, che garantisce a tutti i cittadini il diritto di difesa a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, in quanto lascerebbe prive di tutela situazioni di prevaricazione del pubblico ufficiale sul privato, che non potrebbero rientrare in altre fattispecie. Quanto all’art.97 Cost., la Procura lamenta un vuoto di tutela rispetto a beni giuridici pubblici e collettivi, quali il buon andamento e l’imparzialità della P.A., essendo consentito esclusivamente al terzo eventualmente danneggiato di censurare la condotta del pubblico funzionario, e impedito, invece, il sindacato del giudice penale su iniziativa d’ufficio. Il terzo che abbia subito il comportamento “prevaricatore” del pubblico ufficiale potrebbe sempre, infatti, lamentare la violazione del proprio interesse legittimo di fronte al giudice amministrativo.

Ciò che sembrerebbe davvero far discutere è, però, la compatibilità dell’abrogazione con i vincoli internazionali per cui potrebbero sollevarsi ulteriori questioni di costituzionalità con riferimento all’art.117 Cost., che prescrive il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. In particolare, con la legge n.116/2009 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione ONU del 2003 contro la corruzione, c.d. Convenzione di Merida, la quale ha dettato l’obbligo per gli stati firmatari di conferire carattere penale ad una serie di infrazioni per atti di corruzione. Nello specifico, secondo la Convenzione, lo stato dovrebbe adoperarsi per attuare sistemi che prevengano i conflitti di interesse, mentre sarebbe evidente che l’abrogazione in commento andrebbe nella direzione opposta. In ambito comunitario, invece, la memoria dei magistrati mette in evidenza il contrasto con la direttiva UE 2017/1371, recante norme per “la lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”. Scopo della direttiva è quello di impegnare gli Stati membri a indicare quali fattispecie di reato debbano essere considerate lesive degli interessi finanziari dell’UE, facendo conseguire misure sanzionatorie efficaci. A fronte di ciò, il legislatore italiano aveva inserito l’abuso d’ufficio nell’elenco dei reati di cui all’art.322 bis, norma che estende la punibilità per i delitti contro la P.A. alle ipotesi in cui siano coinvolti funzionari europei o internazionali.

Peraltro, sarebbe in corso una proposta di direttiva europea sulla lotta globale alla corruzione (COM (2023)234) che, seguendo il filone della Convenzione di Merida, impegnerebbe gli Stati membri a prevedere come reato proprio l’abuso d’ufficio, definito come “l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”, sostanzialmente riproducendo il contenuto dell’ormai abrogato art.323. L’eventuale approvazione di questa direttiva, dunque, porterebbe a una reintroduzione della fattispecie, con conseguente vuoto normativo nel mezzo per cui esclusivamente condotte avvenute post abrogazione ma pre-reintroduzione della fattispecie rimarrebbero impunite. Nell’attesa di conoscere quale sarà il futuro dell’abuso di ufficio post abrogazione, pare opportuno ricordare che già dopo la riforma del 2020 ad opera del Decreto semplificazioni era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale, essendo l’art.323 divenuto marginale vista la maggiore tassatività della fattispecie. Il riferimento è alla sent.8/2022 con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni relative agli artt.3 e 97 Cost., visto che un eventuale accoglimento avrebbe portato ad una reviviscenza della norma e quindi ad un effetto in malam partem, precluso alla Corte. Con l’occasione, la Corte aveva rimarcato l’extrema ratio del diritto penale, applicabile solo quando imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione non possano essere protetti con altri mezzi. Come sottolineato dalla stessa Corte, però, questo non vuol dire creare nell’ordinamento “zone franche” che siano in qualche modo immuni dal controllo di legittimità costituzionale, soprattutto qualora vengano in gioco obblighi sovranazionali, come evidenziato dalla stessa memoria della Procura di Reggio Emilia.

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