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LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 5/2024

22/07/2024

INDICE:

1. L’INDAGINE APPROFONDITA NELLA CONCENTRAZIONE TRA EMIRATES TELECOMMUNICATIONS GROUP E PPF TELECOM GROUP a cura di Riccardo Zinnai

2. LA PRESENTAZIONE DELLE OFFERTE ATTRAVERSO BUSTE TELEMATICHE ALLA PROVA DEL PRINCIPIO DEL RISULTATO a cura di Cristiana Traetta

3. PROTEZIONE INTERNAZIONALE E POTERE DISCREZIONALE DELL’AMMINISTRAZIONE: UN CASO DI REVOCA AL VAGLIO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA a cura di Lucilla Tempesta

4. L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA DELLE REGIONI È LEGGE a cura di Martina Bordi

5. I PRESUPPOSTI PER LA FORMAZIONE DEL SILENZIO-ASSENSO: PACIFICI O CONTROVERSI? a cura di Carlo Maria Fenucciu

6. LA RETRIBUZIONE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTI PUBBLICI ECONOMICI: IL CASO UMBRAFLOR a cura di Elena Valenti

7. LA RESPONSABILITA’ DELLA P.A. PER COMPORTAMENTO CONTRARIO A CORRETTEZZA E BUONA FEDE a cura di Marta Nigrelli

1. L’INDAGINE APPROFONDITA NELLA CONCENTRAZIONE TRA EMIRATES TELECOMMUNICATIONS GROUP E PPF TELECOM GROUP a cura di Riccardo Zinnai

Il 21 giugno 2024 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la sintesi della decisione presa dalla Commissione il 10 giugno di avviare un’indagine approfondita nel caso FS.100011. Esso concerne l’acquisizione di PPF Telecom Group B.V. ad opera di Emirates Telecommunications Group Company PJSC (indicato poi con la forma abbreviata «e&»). Per la prima volta, la Commissione europea avvia una indagine approfondita ai sensi del capo III del Regolamento (UE) 2022/2560 relativo alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno («regolamento FSR»). Tale capo riguarda le concentrazioni tra imprese soggette al controllo ex ante ad opera della Commissione europea quando si ritiene che vi sia una distorsione di mercato causata dalle sovvenzioni estere.

Una concentrazione, ai fini dell’applicazione del Regolamento in esame, è tale quando vi è una modifica duratura del controllo risultante da una fusione, da un’acquisizione o anche dalla creazione di un’impresa comune (joint venture) (art. 20). Tali concentrazioni vanno notificate preventivamente alla Commissione europea, utilizzando il modulo FS-CO, quando vengono superate congiuntamente due soglie previste dal Regolamento. In primo luogo, deve ricorrere la circostanza per cui «almeno una delle imprese partecipanti alla fusione, l’impresa acquisita o l’impresa comune è stabilita nell’Unione e genera nell’Unione un fatturato totale pari ad almeno 500 milioni» di euro. In secondo luogo, le contribuzioni finanziarie ricevute da Paesi terzi nei tre anni precedenti rispetto alla conclusione dell’accordo, l’annuncio dell’offerta pubblica o l’acquisizione di una partecipazione di controllo devono superare i 50 milioni di euro. Nel caso specifico delle acquisizioni occorre combinare i contributi finanziari ricevuti dall’acquirente e dall’impresa acquisita.

Nel caso in analisi, la notificazione è stata ricevuta dalla Commissione in data 26 aprile 2024. Nell’avviso si è evidenziato come e& sia un operatore di telecomunicazioni avente sede negli Emirati Arabi Uniti. Invece, l’impresa acquisita PPF Telecom Group B.V. e le sue controllate sono attive nel settore delle telecomunicazioni in diversi Stati Membri quali la Bulgaria, l’Ungheria, la Serbia e la Slovacchia.

Vi sono intanto due sovvenzioni estere di cui la Commissione europea sospetta la presenza riguardano in particolare. In primo luogo vi è una garanzia illimitata consistente nell’esclusione dall’applicabilità del diritto fallimentare degli Emirati Arabi Uniti che è limitata alle imprese che detto Stato detiene sia parzialmente sia interamente. La seconda sovvenzione estera menzionata consiste in un prestito erogato da un sindacato di cinque banche in quanto si ritiene possa essere ricondotto allo Stato terzo ed essere stato concesso a condizioni non di mercato. Inoltre, la Commissione si è riservata di esaminare nel corso dell’indagine approfondita altri contributi finanziari esteri, con particolare riferimento ai contratti aggiudicati a e&, per verificare se possano essere qualificati come sovvenzioni estere.

La Commissione ha poi valutato se le presunte sovvenzioni estere possano essere anche distorsive del mercato interno. Si è fatto particolare riferimento a quelle categorie di sovvenzioni estere che sono ritenute maggiormente a rischio di provocare distorsioni sul mercato interno. Infatti, l’art.5 FSR identifica, sulla base di un ragionamento di tipo presuntivo, un elenco di tipologie di sovvenzioni che sulla base dell’esperienza acquisita sono da considerarsi come particolarmente idonee a provocare distorsioni di mercato. La conseguenza è che la Commissione può giovarsi della presunzione di distorsività con un’inversione dell’onere della prova a carico dell’impresa sotto indagine. Nel caso di specie, il riferimento va alle «garanzie illimitate» (art. 5, paragrafo 1, lettera b).

Per le altre tipologie di presunte sovvenzioni estere, la Commissione ritiene comunque preliminarmente che siano possibilmente distorsive applicando il criterio di valutazione previsto dall’articolo 4. È probabile che, migliorando la posizione concorrenziale sul mercato, abbiano un’incidenza negativa (effettiva o potenziale) sulla concorrenza nel mercato interno.

Nell’avviso emerge anche uno spunto interessante. Infatti, la Commissione ha annunciato che in primis concentrerà l’analisi sulla possibilità che le sovvenzioni estere abbiano distorto il c.d. mercato per il controllo societario, per utilizzare l’espressione coniata da Henry G. Manne. Tuttavia, come era già stato ipotizzato dalla dottrina, l’analisi riguarderà anche l’effetto distorsivo che potrebbe prodursi come conseguenza dell’aggregazione delle imprese. Nello specifico, le garanzie illimitate di cui gode e& potrebbero migliorare la posizione concorrenziale dell’entità risultante dalla concentrazione in quanto le consentono di ottenere finanziamenti a condizioni agevolate.

La conclusione della Commissione è che quindi vi siano elementi sufficienti per aprire un’indagine approfondita con l’apertura di una finestra temporale per la presentazione di osservazioni. Essa è stata fissata in questo caso, come in tutti gli altri finora, in 10 giorni lavorativi dalla pubblicazione dell’avviso.

A norma dell’art. 24 FSR, l’apertura dell’indagine approfondita comporta che la concentrazione non debba essere implementata per un periodo di 90 giorni lavorativi, con la possibilità di una proroga di ulteriori 15 giorni per valutare gli eventuali impegni presentati dalle imprese. In ogni caso, la chiusura favorevole dell’indagine consente la realizzazione della concentrazione.

La mancata osservanza dell’obbligo di sospensione comporterebbe infatti una duplice sanzione. In primo luogo, l’art. 26 par. 3 prevede la possibilità di imporre un’ammenda pari al 10% del fatturato totale realizzato nell’anno finanziario precedente. In secondo luogo, l’art. 24 par. 3 prevede che un’eventuale concentrazione realizzata in violazione dell’obbligo di sospensione possa essere considerata valida solo dopo l’adozione di una decisione della Commissione a chiusura dell’indagine approfondita. La portata di tale previsione normativa è attualmente dibattuta in dottrina. In particolare, ci si chiede se il Regolamento abbia introdotto una nuova causa di nullità interferendo così col diritto privato degli Stati Membri.

L’indagine può chiudersi con tre diversi esiti possibili (art. 25). Se non viene confermata l’esistenza di sovvenzioni estere distorsive del mercato interno, la Commissione è tenuta ad adottare una ‘decisione di non sollevare obiezioni’. In presenza di sovvenzioni estere distorsive del mercato interno si potrà avere o ‘una decisione con impegni’ qualora questi siano stati proposti dalle imprese e ritenuti adeguati e sufficienti dalla Commissione oppure, in caso contrario, una ‘decisione che vieta una concentrazione’.

Nella dichiarazione rilasciata alla stampa, la commissaria Vestager ha evidenziato che si tratta della prima volta che il Regolamento sulle sovvenzioni estere viene usato in relazione ad una concentrazione. Ha aggiunto che l’indagine approfondita consentirà di verificare se le sovvenzioni di uno Stato non membro dell’Unione europea stiano distorcendo il settore delle telecomunicazioni.

In relazione a questo caso è possibile osservare che finora la Commissione europea stia continuando a concentrare la propria attenzione su settori economici aventi una natura lato sensu strategica. Tuttavia, lo Stato terzo che concede le sovvenzioni in questo caso non è, al contrario dei casi precedentemente aperti, la Repubblica popolare cinese bensì gli Emirati Arabi Uniti. Ciò dimostra quindi che il Regolamento non viene applicato in modo selettivo esclusivamente contro la Cina. Tuttavia, è probabile che questa circostanza non basterà a diradare nell’opinione pubblica internazionale la convinzione che questo Regolamento sia suscettibile di un’applicazione politicizzata ad opera della Commissione europea. Infatti, si tratta comunque di uno Stato che potremmo definire come «non occidentale».

2. LA PRESENTAZIONE DELLE OFFERTE ATTRAVERSO BUSTE TELEMATICHE ALLA PROVA DEL PRINCIPIO DEL RISULTATO a cura di Cristiana Traetta

Con sentenza del 1° luglio 2024 n. 5879 il Consiglio di Stato ha censurato, con riferimento ai principi del risultato e della fiducia (artt. 1 e 2 d. lgs. 36/2023), l’eccessivo “formalismo” con cui una stazione appaltante ha interpretato i requisiti relativi alle modalità di presentazione delle offerte mediante piattaforma telematica.  

La società appellante aveva proposto ricorso al TAR Calabria per l’annullamento del provvedimento di esclusione da una procedura di gara aperta, indetta per l’affidamento dell’appalto integrato volto alla realizzazione di un edificio aule presso il campus dell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.   

Con bando pubblicato nel 2022, l’Università aveva dato avvio alla procedura aperta per l’affidamento dei lavori, comprensivo di progettazione esecutiva e coordinamento della sicurezza, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Inizialmente il disciplinare di gara aveva espressamente escluso la necessità di presentare taluni documenti, in quanto il progetto esecutivo sarebbe servito solo ai fini della valutazione dell’offerta tecnica in sede di gara e con riserva dello sviluppo di uno completo e definitivo a seguito dell’aggiudicazione.   

La procedura prevedeva l’utilizzo della piattaforma telematica “Appalti&Contratti” all’interno della quale ogni operatore ha a disposizione una capacità massima di cento MB per busta telematica. Il dato è rilevante in quanto la stazione appaltante ha successivamente modificato la lex specialis con riferimento alla documentazione da allegare, richiedendo un vero e proprio progetto definitivo, a pena di esclusione, senza però mutare la capacità di memoria o consentire agli operatori economici di produrla per via di altri canali.   

Al fine di rispettare contenuto e termini sanciti dal disciplinare, e solo dopo aver esposto l’urgenza all’amministrazione, la società si è vista costretta a scegliere se presentare un’offerta parziale ed incompleta, ovvero utilizzare un’altra piattaforma. Optando per quest’ultima strada, la concorrente ha integrato l’invio dei dati relativi all’offerta tecnica tramite WeTransfer e via pec. La stazione appaltante ha escluso la società per violazione del principio di segretezza dell’offerta. Il TAR Calabria con sentenza del n. 164/2024 ha condiviso le difese dell’amministrazione e confermato il provvedimento di esclusione.  

Il Consiglio di Stato, riformando la sentenza di primo grado, ha invece accolto l’appello della società.   

Secondo il Collegio, salva la valutazione in concreto della stazione appaltante nel prosieguo della gara, l’offerta presentata deve considerarsi formalmente completa, essendo composta da quanto caricato sulla piattaforma originaria e da quanto generato, a mezzo WeTransfer, e trasmesso mediante invio via pec del link.   

Non può essere ascritta all’appellante una violazione del principio di autoresponsabilità, avendo questa provato a interloquire con l’amministrazione, ma senza esito ed essendosi adoperata anche per rispettare i termini per il caricamento.   

La condotta dell’amministrazione viene ritenuta contraria alla finalità del ricorso alle modalità telematiche di gara di “snellire e velocizzare le procedure, riducendo gli adempimenti formali, promuovendo l’interazione tra stazione appaltante e concorrenti, in un’ottica di semplificazione e di leale collaborazione” e condanna un uso delle stesse che renda la presentazione dell’offerta una sorta di gara ad ostacoli. (p. 20, 7.3.1)  

Viene constatato che, una volta avuta tempestiva contezza delle difficoltà della concorrente nel caricare l’offerta, in ossequio al principio di leale collaborazione, la stazione appaltante avrebbe dovuto essa stessa disporre una proroga del termine di presentazione dell’offerta o, in mancanza, consentire l’integrazione della documentazione incompleta sulla piattaforma originaria.  

L’operato della stazione appaltante non appare in linea col principio del risultato, (“principio la cui valenza ricognitiva di canoni generali consente di predicarne l’applicabilità anche alle procedure indette nella vigenza del ‘Codice 50’”). Esso costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità ed è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea.  

L’eccessiva “rigidità” della piattaforma unita alla valutazione della stazione appaltante avrebbero arrestato la gara sul nascere.  

Il giudice afferma che esso è un principio considerato quale valore dominante del pubblico interesse, da perseguire attraverso il rispetto della concorrenza, della trasparenza, funzionale alla massima semplicità e celerità nella corretta applicazione delle regole del codice.  

Il principio del risultato è, come noto, affiancato da quello della fiducia, “avvinti inestricabilmente”: la gara è funzionale a portare a compimento l’intervento pubblico nel modo più rispondente agli interessi della collettività, nel pieno rispetto delle regole che governano il ciclo di vita dell’intervento medesimo (si richiama il Cons. Stato, sez. V, 27 febbraio 2024, n. 1924).  

 Per quanto riguarda l’asserito motivo di esclusione, il Collegio condivide la giurisprudenza consolidata sul tema (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24 gennaio 2019, n. 612; Id., sez. III, 26 febbraio 2019, n. 1335), secondo la quale la violazione del principio di segretezza attiene al divieto di commistione tra offerta tecnica ed economica, nel senso che la prima deve essere valutata senza conoscere gli aspetti economici per evitare ogni possibile influenza. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 marzo 2022, n. 1785), purché sia interpretata “in modo non formalistico “(cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2024, n. 5125 che richiama id. 11 giugno 2018, n. 3609). Dunque, esso sarebbe violato se la stazione appaltante riscontrasse, all’interno dell’offerta tecnica, elementi tali da consentire di risalire all’offerta economica 

Se poi si aggiunge che l’esclusione di entrambi i due operatori offerenti ha comportato che la gara andasse deserta, il formalismo con cui l’amministrazione ha gestito la stazione appaltante va ulteriormente condannato. 

Il provvedimento di esclusione viene annullato e gli atti rimessi all’Amministrazione.  

L’interpretazione del Consiglio di Stato è interessante sotto molteplici profili, ma per quel che interessa, essa consente una riflessione sull’effettivo ruolo del principio del risultato all’interno della disciplina dei contratti pubblici, atteso che esso dovrebbe guidare ogni fase della gara (TAR Napoli, sez. V, 6 maggio 2024 n. 2959). Il perseguimento del risultato dovrebbe dunque essere considerato anche nella predisposizione delle modalità di presentazione dell’offerta e nella risoluzione dei problemi legati alla stessa, in un’ottica di semplificazione dei numerosi oneri imposti agli operatori economici.  

Le valutazioni della stazione appaltante e l’esclusione degli unici due offerenti non avrebbero agevolato il conseguimento del risultato dell’affidamento, bensì lo avrebbero ostacolato, per ragioni meramente formali e, in ultimo, infondate.   In quest’ottica la gara dovrebbe essere gestita in modo da favorire la più ampia partecipazione, in funzione della scelta del miglior partner contrattuale (in questo senso anche il comma 2 dell’art. 1). L’esito deserto di una gara non è positivo in quanto la prestazione richiesta rimane insoddisfatta e di conseguenza anche l’esigenza connessa. L’obiettivo da promuovere sembra quello di una cooperazione tra stazioni ed operatori economici, che favorisca l’aggiudicazione del contratto al miglior offerente.

3. PROTEZIONE INTERNAZIONALE E POTERE DISCREZIONALE DELL’AMMINISTRAZIONE: UN CASO DI REVOCA AL VAGLIO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA a cura di Lucilla Tempesta

L’ordinanza  5 marzo 2024 n. 625 del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) Lombardia riguarda il ricorso presentato da un ricorrente tunisino in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale sul figlio minore, avverso il Ministero dell’Interno – U.T.G. – Prefettura di Milano. Il TAR Lombardia, sospendendo la decisione fino alla definizione della questione pregiudiziale, ha rimesso il caso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. 

La Prefettura di Milano con provvedimento del 1 giugno 2023 decretava la revoca delle misure di accoglienza nei confronti dei due ricorrenti di origine tunisina. Entrambi erano richiedenti protezione internazionale e si trovavano nel Centro di accoglienza di Milano Coop. Soc. Medihospes onlus-Cas (ex CARA). La revoca delle misure di accoglienza è stata attuata solo dopo che, per la terza volta, il ricorrente si è opposto al trasferimento in un altro centro, in questo caso il CAS Saponaro-Fondazione Fratelli San Francesco, sempre a Milano.

Il ricorrente si è opposto al trasferimento citando le difficoltà del figlio e la necessità di rimanere vicino alla scuola da lui frequentata.

La motivazione a sostegno della revoca, invece, riguarda i comportamenti violenti tenuti dal ricorrente e contrari alle regole del centro. Inoltre, si sottolinea la necessità di liberare un alloggio destinato a quattro persone ed occupato solo da due. L’amministrazione motiva inoltre la decisione sulla base di esigenze organizzative e, dati i reiterati rifiuti, è applicabile la normativa dell’art. 23, comma 1 lett. a) del d. lgs n.142/2015. L’articolo citato prospetta i casi di revoca delle condizioni di accoglienza, ed in particolare la lett. a), rilevante per il caso in esame, riguarda l’ipotesi di «mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione alla prefettura – ufficio territoriale del Governo competente;». Le altre fattispecie previste dal comma 1 riguardano i casi in cui i presupposti di fatto che giustificavano l’applicazione delle misure di accoglienza, vengono meno. L’ipotesi della «violazione grave e ripetuta, da parte del richiedente protezione internazionale, delle regole della struttura in cui è accolto, ivi compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero in caso di comportamenti gravemente violenti, anche tenuti al di fuori della struttura di accoglienza…» di cui al comma 2, si identifica con la revoca di natura sanzionatoria giusitificata dal comportamento illecito del richiedente. In merito, il prefetto ha la facoltà di disporre il trasferimento in un’altra struttura ed adotta ulteriori misure temporanee quali l’esclusione dalle attività organizzate e da uno o più servizi o la sospensione/revoca di benefici economici accessori per un periodo non inferiore a trenta giorni e non superiore a sei mesi. Il comma 5 del presente articolo stabilisce che avverso il provvedimento del prefetto è ammesso ricorso al TAR competente.

I motivi di contestazione del provvedimento sono molteplici: a) la violazione dell’art. 7 e seguenti della l. 241 del 1990 sulle garanzie partecipative; b) il difetto di motivazione (art. 3, L. 241/90) e di istruttoria; b) la violazione degli art. 21 direttiva 2013/33/UE e art. 17 d.lgs 142/2015 non tenendo conto della situazione di vulnerabilità dei soggetti; d) la violazione dell’art. 23, comma 1 lett. a) poiché non applicabile al caso di specie; e) i principi interpretativi dell’art. 20 della direttiva 2013/33/UE, alla luce delle decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nelle cause C-233/2018 e C-422/21, dovrebbero essere applicati al caso in esame, nonostante la specifica norma italiana (art. 23, comma 1 lett. e) sia stata abrogata. La normativa nazionale, art. 23 d. lgs 142/2015, è attuativa dell’art. 20 dir. 2013/33/UE. Nella direttiva europea sono sanciti i principi generali in base ai quali si disciplinano la riduzione o revoca delle misure di accoglienza. Il sistema previsto è graduale e la revoca delle misure rappresenta l’extrema ratio. In particolare, l’art. 20 stabilisce che tali misure possono essere adottate qualora il richiedente lasci il luogo di residenza senza informare le autorità, non si presenti alle autorità competenti, presenti domande reiterate, o abbia occultato risorse finanziarie. L’articolo prevede inoltre la possibilità, in capo agli Stati Membri, di poter irrogare sanzioni per gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza e comportamenti violenti. Le decisioni di riduzione o revoca devono essere individuali, obiettive, motivate e proporzionate, garantendo sempre l’accesso all’assistenza sanitaria e un tenore di vita dignitoso per i richiedenti.

Il Tribunale ha respinto la domanda cautelare del ricorrente, sostenendo che la revoca del provvedimento rientrasse nell’ambito della discrezionalità del potere organizzativo dell’amministrazione per la gestione dei Centri di accoglienza.

Il Consiglio di Stato, con ordinanza, ha invece accolto l’appello cautelare, argomentando che la revoca potrebbe compromettere i diritti fondamentali ed i bisogni primari della persona umana, dunque sospendendo il rigetto della misura cautelare disposta dal TAR Lombardia.

Particolarmente rilevante è la lettura del comma 1 lett. a), che consente al prefetto di revocare le misure di accoglienza nel caso di mancata presentazione del richiedente presso la struttura designata o nel caso di abbandono del centro di accoglienza senza comunicazione preventiva alla Prefettura. Questa disposizione è applicabile al caso di specie per «identità di ratio e coerenza del sistema predisposto in favore di chi chiede la protezione internazionale, all’ipotesi in cui lo straniero, ammesso alle misure, rifiuti di essere trasferito presso un diverso Centro di accoglienza individuato dall’amministrazione per esigenze gestionali e organizzative». (Punto 9 dell’ordinanza del TAR Lombardia, n. 625)

L’amministrazione ha, quindi, il potere discrezionale di individuare il centro di accoglienza in base a criteri organizzativi, compreso il rispetto della capacità disponibile, sia per la prima assegnazione che durante la fruizione delle misure di accoglienza. La discrezionalità è giustificata, secondo il ragionamento del TAR, sulla base del testo dell’art. 23, comma 2-bis d. lgs n.142/2015 ove si ammette che il potere discrezionale dev’essere esercitato adottando le misure “in modo individuale, secondo il principio di proporzionalità e tenuto conto della situazione del richiedente”. Sia la normativa nazionale che comunitaria riconoscono all’amministrazione un potere di revoca o di riduzione dei benefici concessi rispettando le fattispecie elencate negli artt. 23 d. lgs 142/2015 e dir. 2013/33/UE.

ll Tribunale ha sospeso il giudizio, rimettendo alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: se la normativa nazionale italiana, che permette la revoca delle misure di accoglienza quando un richiedente protezione internazionale rifiuta il trasferimento presso un altro centro per motivi organizzativi, possa essere in conflitto con l’articolo 20 della direttiva 2013/33/UE e con i principi giurisprudenziali enunciati dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’UE del 12 novembre 2019 (C-233/2018) e del 1° agosto 2022 (C-422/2021). L’orientamento della Corte nelle pronunce in questione stabilisce che la revoca delle misure di accoglienza, imposta come sanzione, non può privare il richiedente della dignità umana e dei bisogni essenziali di vita, come l’accesso al cibo, all’alloggio ed al vestiario. Inoltre, qualsiasi sanzione, a norma dell’art. 20, par. 5, dev’essere “obiettiva, imparziale, motivata e proporzionata alla particolare situazione”. Deriva dalla norma della direttiva l’irrogazione di una sanzione graduale e proporzionata rispetto al fatto contestato. In ultimo la Corte aveva sancito nelle pronunce sopra citate che il rapporto revoca-sanzione non può mettere il richiedente nella condizione di non poter provvedere ai suoi bisogni fondamentali. 

Nel caso di specie il ricorrente ha rifiutato l’accoglienza in un’altra struttura che ha ritenuto indatatta per le ragioni già esposte. La direttiva UE 2013/33 non esclude la possibilità che gli Stati Membri possano contrastare gli abusi delle misure di accoglienza. Il rifiuto del trasferimento implica un “rischio di abuso del sistema” in quanto impedisce l’esercizio del potere organizzativo dell’amministrazione. 

La Corte di giustizia UE ha già risolto il dubbio interpretativo circa le revoche-sanzione, ma non si è ancora pronunciata rispetto alle revoche non sanzionatorie, come in questo caso, dove la revoca è una misura amministrativa adottata per il venir meno dei presupposti (TAR Lombardia, ordinanza n. 625) che ammettevano il ricorrente ed il figlio alle misure di accoglienza. Dunque si richiede che la Corte si esprima sulla corretta interpretazione della normativa europea. L’08 Marzo 2024 la Causa C-184/24 è stata iscritta nel Registro della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

4. L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA DELLE REGIONI È LEGGE a cura di Martina Bordi

Con la legge n. 86/2024, il Parlamento ha definitivamente approvato il disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

L’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, inserito con la riforma del Titolo V, mediante legge costituzionale n. 3 del 2001prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario, sulla base di una intesa tra lo Stato e la Regione, previa approvazione di una legge del Parlamento da adottarsi con maggioranza rafforzata.

Le materie nelle quali possono essere riconosciute ulteriori forme di autonomia sono quelle che l’articolo 117 della Costituzione, al terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente, oltre ad un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso articolo 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, quali organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

L’art. 11 della legge n. 86/2024 prevede che le disposizioni di cui alla medesima legge si applichino, ai sensi dell’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma del Titolo V, anche alle regioni a statuto speciale e le province autonome, per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite.

La legge in esame consta di 11 articoli e detta le regole quadro che disciplinano a monte il procedimento per l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

Tra le finalità del provvedimento, disciplinate dall’art. 1, si richiamano il rispetto dell’unità nazionale e, la rimozione di discriminazioni e disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio e il rispetto dei principi di unità giuridica ed economica, di coesione economica, sociale e territoriale.

Si è, inoltre, previsto che la nuova distribuzione delle competenze dovrà essere idonea ad assicurare il pieno rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, in attuazione dell’art. 118 della Costituzione.

La condizione preliminare per l’attuazione dell’autonomia differenziata è la definizione da parte dello Stato, per tutte le Regioni, delle prestazioni “fondamentali” e “inderogabili”, i c.d. livelli essenziali delle prestazioni (LEP), di cui all’art. 117, primo comma, lettera m), della Costituzione e nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 119 della Costituzione.

Tali livelli indicano la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi i diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale e nell’erogazione delle prestazioni sociali di natura fondamentale.

La determinazione dei LEP, come condizione di ammissibilità per la stipula delle intese tra Stato e regioni, è delegata al Governo che dovrà, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, adottare i decreti legislativi necessari per l’individuazione dei LEP, sulla base dei principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge di bilancio del 2023.

Gli schemi dei decreti legislativi saranno poi trasmessi alle Camere per l’espressione del parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, nel termine di 45 giorni.

Ai decreti legislativi viene demandata anche la determinazione delle procedure e delle modalità operative per il monitoraggio dell’effettiva garanzia in ciascuna Regione dei LEP.

L’articolo prevede, altresì, che i LEP siano periodicamente aggiornati con Dpcm.

Il trasferimento delle funzioni alle Regioni avviene attraverso un procedimento complesso, disciplinato dall’art. 2 della legge, rubricato “Procedimento di approvazione delle intese fra Stato e Regione”.

L’atto di iniziativa deve essere deliberato dalla regione interessata, sentiti gli enti locali, secondo le modalità previste nell’ambito della propria autonomia statutaria.

L’iniziativa di ciascuna regione può riguardare la richiesta di autonomia in una o più materie o ambiti di materie e le relative funzioni.

La richiesta deve essere trasmessa al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, il quale, acquisita la valutazione dei Ministri competenti per materia e del Ministro dell’economia e delle finanze, entro i successivi sessanta giorni, avvia il negoziato con la Regione richiedente. 

Loschema d’intesa preliminare tra Stato e regione, corredato di una relazione tecnica, è approvato dal Consiglio dei ministri: sullo stesso deve essere acquisito il parere della Conferenza unificata.

A seguire, lo schema preliminare viene trasmesso alle Camere che si esprimono “con atti di indirizzo”, secondo i rispettivi regolamenti, entro novanta giorni dalla data di trasmissione dello schema di intesa preliminare, udito il Presidente della Giunta regionale interessata.

Alla luce del parere e degli atti di indirizzo, il Presidente del Consiglio o il Ministro predispongono lo schema di intesa definitivo.

L’intesa definitiva deve essere approvata dalla Regione, previa consultazione degli enti locali interessati.

A questo, segue la deliberazione da parte del Consiglio dei ministri, con la partecipazione del Presidente della Regione, dell’intesa definitiva e del disegno di legge di approvazione dell’intesa che è allegata al disegno di legge.

Il disegno di legge di approvazione dell’intesa e la medesima intesa allegata sono, poi, trasmessi alle Camere per la deliberazione a maggioranza assoluta.

L’intesa indica anche la sua durata, che non può essere comunque superiore a dieci anni.

Alla scadenza del termine, la stessa si intende rinnovata per un uguale periodo, salvo diversa volontà dello Stato o della Regione da manifestarsi almeno un anno prima della scadenza.

È prevista la possibilità di modificare l’intesa, con la stessa modalità prevista per la conclusione, su iniziativa dello Stato o della Regione interessata o anche sulla base di atti di indirizzo adottati dalle Camere.

Ciascuna intesa potrà inoltre prevedere i casi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere la cessazione della sua efficacia, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere.

Inoltre, qualora ricorrano motivate ragione volte a tutelare la coesione e la solidarietà sociale, a seguito dell’inosservanza dell’obbligo di garantire i LEP, lo Stato può esercitare il potere sostitutivo e con legge approvata a maggioranza assoluta le Camere possono deliberare la cessazione dell’intesa.

La determinazione dei LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard è il punto chiave della legge.

Difatti, il trasferimento delle funzioni attinenti a materie o ad ambiti di materie riferibili ai LEP, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, può avvenire soltanto successivamente alla determinazione dei LEP, nei limiti delle risorse deliberate nella legge di bilancio.

Qualora dalla determinazione dei LEP dovessero derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, al trasferimento delle funzioni si potrà procedere soltanto successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle necessarie risorse finanziarie.

Per le funzioni relative a materie o ambiti di materie diverse da quelle riferibili ai LEP, il trasferimento può essere effettuato nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente.

Le funzioni trasferite alla Regione possono essere attribuite, nel rispetto del principio di leale collaborazione, a Comuni, Province e Città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie.

Per l’individuazione dei beni e delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per l’esercizio da parte della Regione dell’autonomia oggetto di conferimento, viene istituita la c.d. Commissione paritetica Stato–Regione-Autonomie locali.

La Commissione formula le proposte in merito, previa predeterminazione dei criteri dell’individuazione delle risorse e delle modalità di finanziamento nell’intesa tra Stato e Regione.

Il finanziamento dovrà, comunque, essere basato sulla compartecipazione regionale ad uno o più tributi erariali.

La Commissione paritetica ha anche il compito di monitorare e valutare annualmente gli oneri finanziari derivanti dall’esercizio delle funzioni e dall’erogazione dei servizi connessi per ciascuna Regione interessata di un’intesa. Dura la posizione delle opposizioni parlamentari che, il 5 luglio 2024, hanno depositato presso la Corte di cassazione un quesito referendario per chiedere l’abrogazione della legge stessa.

5. I PRESUPPOSTI PER LA FORMAZIONE DEL SILENZIO-ASSENSO: PACIFICI O CONTROVERSI? a cura di Carlo Maria Fenucciu

Con la sentenza 26 aprile 2024, n. 3813 la Sezione IV del Consiglio di Stato prende posizione nell’ambito del contrasto giurisprudenziale inerente ai presupposti di formazione del silenzio-assenso. La vicenda trae le mosse dall’istanza di permesso di costruire presentata a Roma Capitale, ente che, ben oltre il termine previsto per la conclusione del procedimento, comunica un preavviso di rigetto per difformità dell’operazione rispetto al PRG. L’istante agisce dunque in giudizio chiedendo che sia accertata l’avvenuta formazione del silenzio-assenso in conseguenza dell’inutile decorso dei termini previsti. L’azione non ha successo in primo grado, presso il Tribunale Amministrativo di Roma. A Palazzo Spada, invece, la questione è accolta, proprio sul punto in oggetto.

La sentenza si inserisce in senso innovativo all’interno della querelle che vede giurisprudenza e dottrina impegnate a chiarire una questione particolarmente delicata, ossia quali siano gli elementi necessari a integrare la fattispecie legale del silenzio assenso. Per comprendere i profili di interesse della pronuncia è opportuno ripercorrere i termini della questione.

Il silenzio assenso costituisce, come noto, un rimedio preventivo da tempo previsto dal nostro ordinamento per far fronte all’inerzia della Pubblica Amministrazione, in base al quale all’inattività di questa il legislatore fa conseguire gli stessi effetti dell’esercizio positivo della funzione amministrativa. Esso è disciplinato in via generale all’articolo 20 della legge sul procedimento, nonché da specifiche disposizioni di singole leggi speciali.

Nonostante l’apparente chiarezza del dettato normativo, non vi è unanimità di vedute circa i presupposti di formazione del titolo implicito in seguito all’inutile decorso dei termini massimi di conclusione del procedimento di volta in volta indicati. Più precisamente, secondo un orientamento che ancora nel 2022 il Consiglio di Stato definiva “consolidatissimo” (Cons. St., Sez. V, 4 ottobre 2022, n. 8499), la formazione del silenzio-assenso presuppone non solo il decorso del termine assegnato all’amministrazione per la pronuncia esplicita, ma anche il ricorrere di tutte le condizioni e dei requisiti soggettivi e oggettivi in capo al richiedente, con la conseguenza che non può ritenersi formato il silenzio-assenso ove l’istanza non prospetti una condizione di piena conformità al paradigma legale e non ricorrano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. In altre parole, il provvedimento tacito sarebbe esistente solo ove conforme alla legge; in caso contrario, non verrebbe ad esistenza.

A questo risultato ermeneutico si giunge anche attraverso un procedimento interpretativo di tipo teleologico. Il silenzio assenso non sarebbe -si dice- uno strumento di liberalizzazione in senso proprio, bensì di semplificazione. Di conseguenza non intende rimuovere requisiti per l’esercizio di determinate attività, ma semplicemente rendere più agevole l’ottenimento del titolo.

Eppure, a partire da un obiter dictum della sentenza del Consiglio di Stato 8 luglio 2022, n. 5746, parte della giurisprudenza amministrativa ha iniziato ad accogliere una diversa prospettazione. In questo solco si pone la pronuncia in oggetto, ritenendo che l’obiettivo di semplificazione della normativa sul silenzio sarebbe vanificato se anche dopo il decorso dei termini previsti a conclusione del procedimento la PA potesse in qualsiasi tempo rigettare l’istanza proposta per difformità rispetto al paradigma legale. Ciò sarebbe, peraltro, in contrasto con il principio di collaborazione e buona fede, cui sono informate le relazioni tra PA ed amministrati.

Si tratta di una pronuncia di rilevanza per due ordini di motivi. Innanzitutto, inaugura l’adesione anche della Sezione IV del supremo tribunale amministrativo al “nuovo orientamento” (dopo la Sezione VI, già con la citata 5746/2022, seppure in obiter, quindi più recentemente con Cons. St. 11203/2023 e 2459/2024). Ulteriormente, a differenza dei precedenti, accoglie la prospettazione dei ricorrenti facendo specifico riferimento agli indici normativi che giustificano il revirement.

Segnatamente, l’inciso dell’articolo 21-nonies della legge sul procedimento riconosce alla PA la potestà di agire in autotutela anche nei casi in cui il provvedimento “si sia formato ai sensi dell’articolo 20”. Tale formula sarebbe contraddittoria qualora si ritenesse che il titolo implicito non possa mai cristallizzarsi in difformità dal paradigma legale.

Si aggiunge a ciò l’articolo 2, co. 8-bis del medesimo testo legislativo, introdotto dal d.l. 76/2020, che espressamente commina l’inefficacia ai provvedimenti adottati dalle PA in seguito alla scadenza dei termini per la conclusione del procedimento, residuando in capo alle amministrazioni il solo potere di autotutela.

Infine, l’abrogazione del comma 2 dell’articolo 21 che equiparava, ai fini del trattamento sanzionatorio, lo svolgimento di attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione all’inizio dell’attività in seguito al cristallizzarsi del silenzio assenso, seppur in assenza dei requisiti richiesti. Già tale articolo presupponeva la possibilità che il titolo si formasse in contrasto con il paradigma legale; l’abrogazione dovrebbe ulteriormente “alleggerire” la posizione del privato, non equiparando più la posizione di un provvedimento illegittimo formatosi per silentium alla totale assenza di qualsivoglia atto giuridico autorizzatorio.

Attraverso un’analisi sistematica dei summenzionati riferimenti normativi, il consesso ritiene di seguire l’innovativo filone di origine dottrinaria e accogliere la domanda di accertamento della formazione del silenzio-assenso.

Parte della giurisprudenza amministrativa di primo grado si è successivamente uniformata all’orientamento. In particolare, tra le molte, pare che il principio di diritto sia stato accolto rispetto al silenzio assenso sull’istanza di permesso di costruire nei T.A.R. della Campania (Salerno, 15 luglio 2024, n. 1478; Napoli, 2 luglio 2024, n. 4074), nonché in tema di autorizzazione per l’installazione di infrastrutture per le comunicazioni elettroniche ex art. 44 del d. lgs. n. 259 del 2003. A queste, si aggiungano le citate sentenze del Consiglio di Stato, che riconoscono l’applicazione del principio rispetto ad una istanza per l’installazione di una stazione radio base per la telefonia mobile ai sensi del codice delle telecomunicazioni, nonché in applicazione della legge urbanistica della provincia autonoma di Bolzano.

Questo brevissimo e non esaustivo elenco di pronunce non vuole suggerire che ormai l’orientamento che scinde requisiti di formazione e di validità del provvedimento per silentium sia prevalente. Infatti, la giurisprudenza di merito accoglie ancora in via maggioritaria il vecchio orientamento: T.A.R. Cagliari 11 luglio 2024, n. 525, T.A.R. Catania 8 luglio 2024, n. 2477 e anche lo stesso T.A.R. Salerno 11 luglio 2024, n. 1457 in materia di condoni; T.A.R. Perugia 1° luglio 2024, n. 511 in materia di permessi di costruire.

Persino la Sezione VI del Consiglio di Stato, che ha aperto per prima al cambiamento, è recentemente tornata sui suoi passi con la sentenza 12 luglio 2024, n. 6257, nella quale il collegio, senza, peraltro, confrontarsi in alcun modo con gli ultimi sviluppi giurisprudenziali in tema di silenzio-assenso, ha ritenuto di seguire la costante giurisprudenza amministrativa in virtù della quale il titolo abilitativo tacito può formarsi solo ove la domanda possegga tutti i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta. In tale occasione, però, il consesso si occupava di un’azione di accertamento del silenzio formatosi su di una istanza di condono edilizio (fattispecie, dunque, differente, da quelle per cui la sezione aveva precedentemente riconosciuto la cristallizzazione di provvedimenti per silentium contra legem).

Appare così evidente un contrasto giurisprudenziale rilevante tanto dal punto di vista teorico, quanto dal punto di vista delle conseguenze applicative, per la risoluzione del quale potrebbe essere prossimo un intervento dell’Adunanza Plenaria. Peraltro, si evidenzia che ai fini di un razionale sviluppo del sistema sarebbe opportuno che la soluzione trovata valesse per ogni forma di silenzio assenso provvedimentale, ossia, per ogni istanza per cui una legge speciale preveda il silenzio-assenso. Attualmente, invece, la teoria che scinde requisiti oggettivi e soggettivi sembra prevalere in alcune materie (in primis i permessi di costruire ai sensi del TUED), ma soccombere sempre in altre (segnatamente, in tema di condoni edilizi).

In ogni caso, tali sviluppi si possono confrontare con la generale tendenza ad estendere il perimetro di operatività del meccanismo semplificatorio del silenzio-assenso. A tale tendenza rispondono anche due altri recenti filoni giurisprudenziali. 

Vi è, in particolare, l’applicazione del silenzio-assenso endoprocedimentale di cui all’articolo 17-bis al parere reso dalla soprintendenza nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica. Tale applicazione dell’articolo 17-bis era contestata, in considerazione della pretesa natura monostrutturata del procedimento descritto dall’articolo 146 del codice dei beni culturali, affidata essenzialmente -si diceva- alla valutazione della soprintendenza. Sennonché, le recenti sentenze del Consiglio di Stato 2 ottobre 2023, n. 8610 e 2 febbraio 2024, n. 1093 hanno riconosciuto la natura pluristrutturata del procedimento, anche in considerazione delle attività espletate dalla Regione (o dal Comune) nell’ambito dell’autorizzazione paesaggistica, che testimoniano di una co-gestione del procedimento, che rende applicabile il silenzio orizzontale.

In secondo luogo, si deve far menzione della giurisprudenza che ritiene il silenzio-assenso provvedimentale applicabile anche in aree vincolate, qualora siano state rilasciate le relative autorizzazioni. La questione traeva interesse dal disposto degli articoli 20, co. 4, l. 241/1990 e 20, co. 8 TUED, a mente dei quali il meccanismo semplificatorio del silenzio assenso non può aver luogo nel caso in cui si tratti di zone vincolate. Tali disposizioni avevano indotto parte della giurisprudenza a decidere nel senso della radicale inconfigurabilità del provvedimento implicito in caso di attività da eseguirsi in zone vincolate. Sennonché, una innovativa e recente giurisprudenza, attraverso un procedimento ermeneutico teleologico, che consentisse di preservare la ratio semplificatoria dell’istituto, ha portato avanti l’interpretazione per la quale il silenzio assenso potesse cristallizzarsi anche in aree vincolate, nel caso in cui le relative autorizzazioni siano concretamente già state ottenute (ex multis Cons. St. sentenza 21 novembre 2023, n. 9969).

Tra l’altro, tale ultima giurisprudenza è stata ora incorporata in un disegno di legge, presentato il 5 luglio 2024 congiuntamente dal Ministro per la pubblica amministrazione e il Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa. Tale disegno di legge, tra le altre cose, prevede una modifica all’art. 20, co. 8 del TUED (dichiaratamente ispirata alla sentenza da ultimo citata), che consenta l’applicazione del silenzio-assenso anche rispetto ad aree vincolate, nel caso in cui l’istante si sia già munito delle necessarie autorizzazioni prima della presentazione dell’istanza. La materia del silenzio assenso appare dunque in continua trasformazione, nella ricerca della soluzione più conforme alla ratio semplificatoria dell’istituto, la quale, tuttavia, non può prescindere dalle imperative esigenze di certezza del diritto.

6. LA RETRIBUZIONE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTI PUBBLICI ECONOMICI: IL CASO UMBRAFLOR a cura di Elena Valenti

Con sentenza del 15 marzo 2023 il Tar Umbria, sezione prima, si è pronunciato sull’annullamento della deliberazione della giunta regionale umbra n. 26 del 20 gennaio 2021, avente ad oggetto l’annullamento della determinazione dell’indennità di risultato da corrispondere all’amministratore unico dell’azienda vivaistica Umbraflor.

Umbraflor è un’azienda regionale trasformata in ente pubblico economico in virtù di deliberazione della giunta regionale del 23 dicembre 2013, n. 1551, con cui è stato approvato anche il relativo statuto, ove si prevede che Umbraflor ha personalità giuridica di diritto pubblico, ma è dotata di autonomia imprenditoriale, gestionale, patrimoniale e contabile.

La giunta regionale umbra ha ritenuto che al ricorrente, amministratore unico di Umbraflor, non spettasse l’indennità di risultato, ritenendo che l’attività espletata non fosse meritevole di alcun premio aggiuntivo, in considerazione delle ingenti perdite registrate.

Tale considerazione è stata rilevata adoperando in via analogica i criteri di valutazione previsti per i dirigenti regionali.

Il thema decidendum della controversia ha consentito al Tar per la regione Umbria di pronunciarsi circa la giurisdizione del giudizio sulla retribuzione dell’amministratore unico dell’ente Umbraflor.

Il ricorrente ha adito il giudice amministrativo ritenendo che la relazione di strumentalità tra regione ed ente pubblico economico Umbraflor integrerebbe un rapporto pubblicistico, in quanto la nomina dei vertici cui spettano poteri di indirizzo e controllo di Umbraflor spetta alla regione Umbria che ha poteri di direzione e coordinamento.

Il Tar Umbria ha rigettato le censure mosse dal ricorrente ribadendo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla base sia della disciplina statutaria sia sulla base della regolamentazione adattata dalla regione.

Con legge regionale 23 dicembre 2011, n. 18, è stata stabilita la trasformazione dell’azienda Umbraflor da società a responsabilità limitata in ente pubblico economico a cui si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice civile in materia di società di capitali.

Il modello dell’ente pubblico economico si configura quando la gestione di una attività imprenditoriale è affidata ad un ente pubblico con conseguente  natura privata degli atti e del rapporto di impiego.

Nello statuto di Umbraflor, approvato con deliberazione della giunta n. 1551 del 23 dicembre 2013, si legge che Umbraflor è dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, è previsto che i rapporti tra l’azienda e la regione sono definiti tramite contratto di servizio e che l’ente pubblico economico abbia autonomia gestionale e patrimoniale, finanziaria e contabile.

All’ente pubblico economico Umbralfor si devono applicare le norme del codice civile in materia di società di capitali, fatte salve le deviazioni dal modello privato per quanto attiene i poteri di controllo e di indirizzo politico, che spettano al socio pubblico.

Pur non essendo Umbraflor una società pubblica ma un ente pubblico economico (derivante dalla trasformazione nel 2013 da società a responsabilità limitata) l’attrazione nel campo della disciplina privatistica non può comunque ritenersi dubbia, in virtù del richiamo operato dal più volte citato art. 62 della l.r. 18/2011 secondo cui all’azienda si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice civile in materia di società di capitali.

Nel caso in esame, le controversie relative all’attività dell’Umbraflor sono devolute alla giurisdizione ordinaria nonostante la regione Umbria eserciti un potere di direzione e coordinamento, che gli derivano dalla sua qualità di socio, e non da un rapporto di supremazia di carattere pubblicistico.

Con riferimento alla quantificazione dell’indennità di risultato, il Tar Umbria ha ribadito che si stratta di un diritto soggettivo, la cui giurisdizione è devoluta al giudice ordinario.

Appare utile osservare come, in tema di società pubbliche, che in molti casi hanno costituito l’evoluzione di precedenti enti pubblici economici (a titolo di esempio il caso di Poste Italiane, di Ferrovie dello Stato S.p.A ed Enel S. p. A.), la disciplina applicabile non risente della natura sostanzialmente pubblica delle stesse nonostante la proprietà sia in capo ad un ente pubblico che, pur non dovendo perseguire esclusivamente finalità pubbliche, è comunque soggetto a vincoli di trasparenza, efficienza ed economicità, con l’eccezione della sottoposizione alla disciplina dell’evidenza pubblica nelle procedure di approvvigionamento di beni e servizi, giurisdizione esclusiva del giudice Amministrativa) e talvolta con la sottoposizione al controllo della Corte dei Conti.

Negli altri ambiti di attività si applica la normativa privatistica, con conseguente attrazione della giurisdizione del giudice ordinario.

 Tali considerazioni si fondano sull’art. 1, comma 3, del Testo Unico sulle società pubbliche secondo cui per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato.

La retribuzione degli amministratori assume un ruolo fondamentale nella corporate governance delle società e delle società a partecipazione pubblica, per le quali è disciplinata dall’art. 11 del Testo Unico che dispone la previsione di limiti massimi stabiliti con decreto del presidente del consiglio dei ministri. Il limite ai compensi per le società a partecipazione pubblica non risulta essere del tutto immune dall’andamento della vita societaria, infatti, può subire variazioni in considerazioni dei risultati di bilancio raggiunti (c.d. parte variabile), in analogia con le indennità di retribuzione previste per le società di capitali.

7. LA RESPONSABILITA’ DELLA P.A. PER COMPORTAMENTO CONTRARIO A CORRETTEZZA E BUONA FEDE a cura di Marta Nigrelli

Il Consiglio di Stato, con la sentenza 20 giugno 2024, n. 5514, si è espresso sul risarcimento dei danni per violazione dei principi di buona fede e correttezza da parte di una amministrazione.

Correttezza e buona fede sono principi espressamente inseriti all’interno del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 36/2023), ma che discendono direttamente dalla Costituzione (art. 2) e dal Codice civile (artt. 1173, 1176 e 1337) e che devono guidare sempre l’amministrazione pubblica nella stipulazione degli accordi con i privati.

Con questa pronuncia viene condannata al risarcimento dei danni l’amministrazione comunale che, avendo stipulato un accordo con il privato, imponendo obblighi ben precisi (anche di natura economica), abbia ingenerato un legittimo affidamento in ordine alla possibilità di realizzare un impianto di trattamento dei rifiuti che, tuttavia, la successiva (e prevedibile) attività di pianificazione urbanistica territoriale, ancorchè legittima, ha reso irrealizzabile.

L’amministrazione, dunque, viene condannata al risarcimento dei danni per violazione dei principi di buona fede e correttezza, nei limiti dell’interesse negativo commisurato alle spese sostenute.

Nel caso in esame, a fronte di un accordo intervenuto tra un comune e una società per la realizzazione di un impianto di trattamento dei rifiuti all’interno di un complesso immobiliare ex industriale, era stata successivamente approvata, ad opera della unione di comuni, una variante normativa da recepirsi all’interno dei singoli strumenti urbanistici degli enti locali interessati che, con riferimento alle aree a destinazione industriale, vietava la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero di rifiuti in prossimità di siti Unesco e di altri elementi naturali di pregio, con ciò precludendo la realizzazione del progetto imprenditoriale.

L’amministrazione aveva stipulato un accordo che prevedeva la bonifica dall’amianto di un’area e che avrebbe consentito alla società di individuare nel sito un’area per la installazione di un impianto per il recupero dei fanghi prodotti dai processi di depurazione delle acque reflue.

Conformemente agli impegni assunti, la società appellante, dopo aver acquisito l’area, versava al Comune le somme concordate e si impegnava a bonificare l’area e l’amministrazione comunale rinnovava la sua non contrarietà ad ospitare nel proprio territorio l’impianto di trattamento dei rifiuti.

L’accordo tra il Comune e la società veniva impugnato dinanzi al TAR da alcuni Comuni vicini e da alcuni cittadini contrari alla realizzazione dell’impianto industriale.

Con una successiva deliberazione dell’Unione di Comuni, cui faceva parte anche il Comune che aveva stipulato l’accordo, veniva adottata una variante urbanistica di tipo normativo.

La variante urbanistica veniva definitivamente approvata dall’Unione dei Comuni, con il conseguente divieto assoluto di realizzazione di nuovi impianti di trattamento e di recupero dei rifiuti sull’intero territorio del Comune.

Il Consiglio di Stato conferma la variante urbanistica normativa, che concerne tutti i Comuni facenti parte dell’Unione e che prevede l’inserimento nelle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale dell’art. 39-bis, a norma del quale nelle aree destinate ad insediamenti industriali, commerciali, artigianali e terziari non sono consentiti nuovi insediamenti o interventi di trasformazione di aree o edifici esistenti che comportino attività insalubri o nocive, inquinanti o moleste.

È la stessa società appellante a riconoscere la legittimazione dell’Unione dei Comuni ad adottare la variante alla strumentazione urbanistica, in quanto Amministrazione legittimamente delegata all’esercizio in forma associata delle funzioni di pianificazione urbanistica di competenza comunale.

L’accordo sottoscritto tra il Comune e la società appellante non compromette la legittimità degli atti impugnati di modifica della disciplina urbanistica delle aree industriali del territorio comunale, che sono espressione delle legittime prerogative istituzionali del Comune: tuttavia, esso assume rilevanza sotto il profilo risarcitorio.

Il Consiglio di Stato ravvisa, infatti, una responsabilità civile per lesione dei principi di buona fede e affidamento, anche in relazione ai doveri di informazione, che devono essere rispettati anche nell’ambito di un rapporto pubblicistico.

L’accordo stipulato con il privato prevedeva degli specifici obblighi sia a carico del Comune che a carico della parte privata: conformemente agli impegni assunti, la società appellante, dopo aver acquisito l’area, ha versato al Comune le somme concordate ed è intervenuta con atti di bonifica dell’area, in previsione della realizzazione dell’impianto di smaltimento dei rifiuti nell’ambito del complesso immobiliare denominato “ex Fornace”.

La successiva modifica delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale del Comune ha di fatto vanificato gli impegni pattiziamente assunti dal Comune stesso, precludendo alla società appellante la possibilità di realizzare l’impianto di trattamento dei rifiuti.

I giudici di secondo grado hanno ricordato i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, che sono espressione del dovere costituzionale di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

Nel caso di specie, la variante urbanistica approvata dall’Unione dei Comuni discende da una deliberazione regionale precedente all’accordo, mediante la quale era stato avviato un percorso per il riconoscimento della zona quale sito Unesco, con la conseguenza che il Comune non avrebbe dovuto ingenerare nella società un legittimo affidamento nella possibilità di realizzare l’impianto di trattamento dei rifiuti che poi sarebbe divenuto prevedibilmente irrealizzabile.

Il Consiglio di Stato, quindi, ha condannato il Comune al pagamento in favore della società appellante delle spese effettivamente sostenute prima dell’adozione della variante urbanistica: in particolare, per i compensi professionali corrisposti dalla società ai legali del Comune e somme versate a vario titolo al Comune in esecuzione dell’accordo (non recuperate dalla società o non recuperabili); per le spese sostenute dalla società per la rimozione dell’amianto e la bonifica dell’area oggetto dell’accordo; per le spese sostenute per la presentazione di istanze amministrative e/o per la redazione di elaborati tecnici, finalizzati alla realizzazione dell’impianto di smaltimento dei rifiuti. Non sono ristorabili le spese relative alla acquisizione dell’area (che comunque costituisce un incremento del patrimonio aziendale della società) e le spese alle quali non sia allegata la relativa documentazione giustificativa anche di natura contabile e fiscale, nonché le spese che non siano espressamente previste nell’accordo o che non siano conseguenza immediata e diretta dell’accordo o che siano state effettuate dopo la deliberazione di adozione della variante urbanistica.

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