Lab-IP

LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 2/2024

20/03/2023

INDICE:

  1. L’ACQUISIZIONE DEL PROGETTO DEFINITIVO IN SEDE DI OFFERTA NELLA DISCIPLINA DEGLI APPALTI PNRR di Carlo Maria Fenucciu
  2. INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI: POSSIBILE RIFORMA? di Gian Marco Ferrarini
  3. LA PRIMA “INDAGINE APPROFONDITA” SULLE SOVVENZIONI ESTERE DISTORSIVE DEGLI APPALTI di Riccardo Zinnai
  4. LA “NON FUGA” DAL REGOLAMENTO: IL CASO DEL REGOLAMENTO PER IL FUNZIONAMENTO DEL FONDO PER INDENNIZZARE LE VITTIME DELLE FRODI FINANZIARIE IN APPLICAZIONE DELLA LEGGE N. 266/2005 di Martina Bordi
  5. LA DISMISSIONE DELLE PARTECIPAZIONI NELLE SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE: IL CASO POSTE ITALIANE S.P.A di Elena Valenti
  6. IL PIANO PLURIENNALE DI PRIVATIZZAZIONE: VERSO LA RIDUZIONE DEL DEBITO PUBBLICO? di Marta Nigrelli
  7. L’AUTORESPONSABILITA’ DEGLI OPERATORI ECONOMICI: NON È SEMPRE COLPA DELLE AMMINISTRAZIONI di Cristiana Traetta
  8. TRA NORME E NECESSITÀ: ANALISI CRITICA DEL PROTOCOLLO ITALIA – ALBANIA SULLA GESTIONE MIGRATORIA di Lucilla Tempesta
  9. IL DELICATO RAPPORTO TRA ENERGIE RINNOVABILI E PAESAGGIO AL VAGLIO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO di Giulia Moscaroli
  10. ANNO NUOVO, PROROGHE VECCHIE: QUID JURIS PER LE CONCESSIONI BALNEARI? di Andrea Nardone
  11. L’ASSEGNAZIONE DEL DIRITTO DI PRELAZIONE NELLA FINANZA DI PROGETTO: A CHE PUNTO SIAMO? di Antonio Iuliano
  1. L’ACQUISIZIONE DEL PROGETTO DEFINITIVO IN SEDE DI OFFERTA NELLA DISCIPLINA DEGLI APPALTI PNRR di Carlo Maria Fenucciu

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 682 del 22 gennaio 2024 ha confermato la sentenza del T.A.R. Sardegna n. 327 del 5 maggio 2023, chiarendo alcuni aspetti generali della normativa speciale prevista per gli appalti PNRR, nonché lo specifico profilo dell’incidenza del computo metrico estimativo nell’ambito degli appalti a corpo.

La vicenda prende le mosse da una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara indetta – secondo la disciplina del Codice previgente – dalla Comunità Montana del Nuorese Gennargentu Supramonte Barbagia per la progettazione definitiva ed esecutiva e per la realizzazione di una scuola superiore nel Comune di Dorgali.

Il quadro normativo di riferimento per la procedura era stato innovato dall’articolo 1, co. 2, lett. b) del d.l. 76/2020 (altresì noto come decreto semplificazioni), che ha liberalizzato il ricorso alla procedura negoziata in caso di appalti PNRR. Tale procedura, viceversa, è normalmente consentita solo alle condizioni delineate dall’articolo 63 del d. lgs. 50/2016, ossia in caso di assenza di offerte appropriate, in caso di urgenza, o per ragioni dipendenti dalla natura dell’opera da appaltare.

La stazione appaltante si è avvalsa di un appalto integrato, con acquisizione del progetto definitivo in sede di presentazione dell’offerta. Occorre ricordare che l’affidamento congiunto di progettazione e realizzazione, consentito sotto il vigore del primo Codice dei contratti (d. lgs 163/2006), fu vietato in via generale dal legislatore del 2016, che lo ammetteva nei limiti previsti dall’articolo 59, co. 1-bis. La disposizione da ultimo citata lo consentiva in determinati casi, e comunque solo in riferimento al progetto esecutivo (ponendo quindi come base almeno il progetto definitivo). Tale divieto, oltre ad essere stato sospeso fino all’entrata in vigore del Codice del 2023, che ammette l’istituto senza limiti, è stato del tutto soppresso dall’articolo 48, d.l. 77/2021 per gli appalti PNRR ed assimilati. La disposizione da ultimo citata si pone al centro della vicenda in oggetto: il comma 5 dell’articolo 48, nella versione antecedente alle modifiche operate dal d.l. 13/2023, consentiva infatti l’appalto integrato con acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta.

Secondo l’appellante, già ricorrente in primo grado, il progetto definitivo presentato dall’impresa aggiudicatasi l’appalto avrebbe costituito un’offerta inammissibile, in quanto si sarebbe discostato in modo rilevante dal progetto di fattibilità tecnica ed economica (PFTE) redatto in sede di offerta, fino a configurarne una vera e propria variante. In particolare, si contestava l’aumento di volumi e superfici utili rispetto al PFTE.

La chiave della vicenda, dunque, consiste nel rintracciare quali scostamenti dal progetto di fattibilità siano ammissibili e nel verificare l’incidenza su tale profilo della normativa PNRR. In relazione a tali profili i ricorrenti insistevano sulla specialità del PFTE redatto secondo le linee guida emanate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ai sensi dell’articolo 48, co. 7, d.l. 77/2021. Tali linee guida orientano le stazioni appaltanti verso la redazione di un PFTE molto dettagliato che, come tale, non ammetterebbe variazioni rilevanti, proprio a causa della minuziosità nella redazione del progetto.

Tuttavia, il richiamo alle linee guida del CSLLPP non è calzante; per comprenderne le ragioni è necessaria un’attenta disamina della normativa speciale applicabile alla vicenda.

Il d.l. 77/2021 ha inteso snellire i procedimenti amministrativi prodromici all’affidamento di lavori pubblici. A questo fine, ha operato due importanti modifiche. Da un lato, ha generalizzato il ricorso all’appalto integrato, dall’altro ha concentrato l’ottenimento di tutti gli atti di assenso necessari alla costruzione dell’opera sul primo livello progettuale. Tuttavia, quest’ultima operazione è stata inizialmente concepita solo per un gruppo ristretto di opere di interesse strategico, contenute nell’allegato IV al decreto, e sottoposto allo speciale procedimento di cui all’articolo 44 del decreto.

In seguito al d.l. 13/2023 (ratione temporis inapplicabile a tale controversia), che ha riformato l’articolo 48, co. 5, tale scelta è stata estesa a tutti gli appalti PNRR. Di conseguenza, al di fuori dei lavori indicati all’Allegato IV, prima delle modifiche del d.l. 13/2023, la specialità degli appalti PNRR consisteva unicamente nella possibilità di ricorrere – in via generale – all’appalto integrato.

Pare dunque doversi circoscrivere il ruolo delle linee guida del CSLLPP. Avere un progetto particolarmente dettagliato è utile solo rispetto agli appalti relativamente ai quali vi è l’accentramento dell’iter autorizzatorio sul PFTE. Il primo livello progettuale, in questo caso, deve consentire alle PPAA di pronunciarsi definitivamente sull’opera, in modo che il progetto intermedio divenga pressoché irrilevante all’interno della dinamica di autorizzazione dell’appalto. Il progetto definitivo, così, può essere approvato direttamente dalla SA senza indire un’ulteriore conferenza di servizi, o, ancora, omesso ai sensi dell’art. 23, co. 4 del Codice del 2016, scelta che le stesse linee guida incoraggiano (par. 3.2).

Al contrario, la controversia in oggetto si basa sulla versione originaria dell’art. 48, co. 5, d.l. 77/2021, la quale non derogava alla ordinaria approvazione dei progetti né al contenuto degli stessi. Anzi, come rilevato dal collegio, rimettendo ai partecipanti la cura di ben due livelli progettuali, l’articolo intendeva valorizzarne sicuramente la capacità creativa, la quale sarebbe frustrata laddove non potessero essere effettuate modifiche al PFTE posto a base della procedura. Di più, i giudici di Palazzo Spada, valorizzano la sottoposizione del progetto definitivo all’ordinario modulo previsto per la sua approvazione, ossia la conferenza di servizi, che sarebbe un inutile aggravio procedimentale, qualora non vi potessero essere differenze di rilievo tra i due progetti.

Al più, si potrebbe dire che il motivo potrebbe essere fondato laddove si trattasse di un appalto sottoposto all’articolo 48, co. 5 successivo alle modifiche di cui al d.l. 13/2023, che ha generalizzato anche la seconda linea direttrice della semplificazione degli appalti PNRR, ossia la centralità del PFTE.

Il motivo addotto dagli appellanti risulta così infondato, ma la disamina di tale prima censura assume estrema importanza, in quanto consente di identificare la differenza tra la formulazione dell’articolo 48, co. 5, ante e post d.l. 13/2023, ben evidenziando che solo per i PFTE redatti ai sensi della seconda versione si può predicare una maggiore “robustezza”, rintracciandone il motivo nell’anticipato esaurimento dell’iter autorizzatorio, nonché nell’omissione della conferenza di servizi sul secondo livello di progettazione.

Tra l’altro, appare opportuno evidenziare una circostanza non presa in considerazione dal collegio: l’articolo 48, co. 5, nella versione originaria, non faceva alcun riferimento alle linee guida CSLLPP; a queste faceva espresso riferimento solo l’articolo 44. In seguito al d.l. 13/2023 le linee guida vengono indicate come obbligatorie anche per gli appalti di cui all’articolo 48. In seguito all’esame pocanzi condotto ne risulta chiara e coerente la ragione: solamente in seguito alla novella del 2023 è stato esteso anche agli appalti di cui all’articolo 48 il sistema della concentrazione dell’iter autorizzatorio sul PFTE.  Questa estensione è un preludio alle scelte effettuate dal legislatore della riforma del Codice dei contratti pubblici del 2023, in cui il livello progettuale intermedio è stato del tutto abolito.

La seconda censura enucleata dai ricorrenti coinvolge invece, come anticipato, l’asserito illegittimo scostamento dal computo metrico estimativo. Nel caso di specie, il raggruppamento di imprese che risultava aggiudicatario avrebbe allegato un computo metrico estimativo indicante un valore superiore a quello posto a base dell’affidamento. Ciò, per l’appellante, renderebbe l’offerta inammissibile.

Nel solco del consolidato orientamento giurisprudenziale che sancisce l’irrilevanza del CME ai fini della configurazione dell’offerta economica nell’ambito degli appalti a corpo, la seconda censura risulta invece priva di fondamento e di pronta risoluzione. Trattandosi di un appalto a corpo, infatti, l’unico dato determinante ai fini della configurazione dell’offerta economica è rappresentato dal ribasso complessivo formulato sull’importo a base d’asta, mentre il computo metrico assume valore meramente indicativo e confermativo. In conclusione, i motivi risultano infondati, ma consentono di chiarire alcuni aspetti inerenti all’articolo 48 del d.l. 77/2021, il quale costituisce la disposizione dal più vasto ambito applicativo nella normativa speciale sui contratti pubblici finanziati con fondi a valere sul PNRR ed assimilati.

2. INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI: POSSIBILE RIFORMA? di Gian Marco Ferrarini

In conseguenza delle crescenti tensioni geopolitiche che hanno attraversato il continente europeo e alla luce delle profonde innovazioni tecnologiche, la Commissione europea ha ritenuto opportuno individuare, attraverso la presentazione di una proposta di regolamento, un nuovo complesso di disposizioni volto a modificare l’attuale regolamento europeo sugli investimenti esteri diretti (Reg. 2019/452).

Le principali novità riguardano, anzitutto, obblighi base di screening imposti agli Stati Membri. Essi devono sottoporre ad autorizzazione gli investimenti esteri in riferimento alle società target: 1) che siano parte di un programma o di un progetto di interesse dell’Unione, anche come eventuali destinatari di fondi appositamente stanziati nel QFP (Quadro Finanziario Pluriennale) e indicati, oggi, nell’Allegato I alla proposta di regolamento; 2) che operino in settori di particolare rilevanza per gli interessi dell’Unione Europea (quali, ad esempio, tecnologie spaziali, intelligenza artificiale, energia etc.).

Per l’ordinamento italiano si tratterebbe di un rilevante cambiamento in termini di disciplina, giacché, ad ora, la normativa Golden Power, nell’ambito degli obblighi di notifica, non prevede espressamente la circostanza di cui al punto 1) né considera di interesse strategico, e perciò meritevoli di tutela, alcune delle attività espressamente indicate nell’Allegato II alla proposta (si pensi, per esempio, alle tecnologie relative al fotovoltaico, o agli esoscheletri). Gli obblighi appena delineati appartengono ad un sistema di screening preventivo che grava sui singoli Stati Membri e che li onera anche di seguire uno schema ben preciso: in caso di veto o di imposizioni di condizioni, l’investitore deve essere informato prima dell’adozione del rigetto e devono essere raccolti eventuali commenti al fine di fornire adeguata motivazione nella decisione finale (art. 4 par.2, lett (g) Proposta di regolamento). 

A quanto detto, si affianca, poi, la previsione di un potere di intervento, in capo agli Stati Membri, successivo al completamento delle operazioni, quando le stesse non siano soggette ad alcun obbligo di notifica. Qualora, infatti, si abbia timore di ritenere che l’operazione possa pregiudicare interessi nell’ambito della sicurezza e dell’ordine pubblico, ogni ordinamento dell’Ue deve prevedere l’attribuzione, alle rispettive autorità nazionali di controllo, del potere di avviare una revisione ex post per un termine non inferiore a 15 mesi dal completamento dell’operazione. La Proposta, tuttavia, non prevede un termine massimo per l’esercizio di tale potere (altrimenti noto come “potere di call in”), che è, al contrario, rimesso alla discrezionalità di ciascun Paese.

Inoltre, quest’ultima innovazione non costituisce una vera e propria novità nell’assetto ordinamentale degli Stati europei, poiché alcuni tra essi disciplinano già il “potere di call in”. A tal proposito, la caratteristica, che si riscontra nelle rispettive normative nazionali, è rappresentata dalla possibilità di “notifica volontaria”, meccanismo che consente di sollecitare una clearence prima che l’operazione sia eseguita. La nuova bozza di regolamento, però, non fa propria questa impostazione, lasciando piuttosto agli Stati completa discrezionalità sulla scelta di prevedere o meno la facoltà di notifica volontaria.

Ulteriormente, ai sensi dell’art. 9, la Proposta riconosce la possibilità di avviare ex post il meccanismo di coordinamento dell’Unione: nel caso in cui esso non sia stato prontamente attivato e si ritenga che l’operazione compiuta in altro Paese membro arrechi pregiudizio ad interessi ritenuti essenziali, la Commissione, o il Paese che ritiene di essere leso, ha almeno 15 mesi per avviare il procedimento unionale.

Un’ulteriore novità riguarda l’introduzione di un obbligo di coordinamento rivolto a tutti gli investitori. Nello specifico, in riferimento alle operazioni multi-paese, la Proposta impone una stretta collaborazione affinché le notifiche siano depositate tutte lo stesso giorno. In aggiunta a ciò, si prevede che ciascuna informativa dia conto delle notifiche trasmesse nelle altre giurisdizioni dell’Unione. Per quanto concerne gli Stati, si stabilisce anche nei loro confronti un meccanismo di armonizzazione: in particolare, essi sono tenuti a coordinarsi tanto sulla procedura quanto sulla decisione finale.

Alla luce di quanto detto, è certamente meritevole di nota il tentativo della Commissione di risolvere i problemi di coordinamento manifestatisi in passato. Tuttavia, questo nuovo iter presenta almeno due profili problematici: rischia, da un lato, di aggiungere ulteriori oneri a carico delle imprese, oltre a quelli che quotidianamente esse devono affrontare; rappresenta altresì una soluzione solo parziale, poiché non prevede disposizioni ad hoc volte ad allineare i diversi tempi di revisioni adottati da ciascun Paese.

Riguardo, invece, al meccanismo di coordinamento unionale, non possono non segnalarsi due rilevanti novità, introdotte dalla bozza di regolamento. In primo luogo, viene fissato un termine massimo entro il quale la Stato Membro è tenuto ad avviare il procedimento disciplinato dal meccanismo di coordinamento: invero, a seconda delle caratteristiche dell’operazione, il termine è rispettivamente di 15 o 60 giorni dalla notifica da parte dell’investitore. Tale previsione risponde all’esigenza di garantire agli investitori una maggiore prevedibilità rispetto ai tempi di autorizzazione. In secondo luogo, si circoscrive l’attivazione del meccanismo di coordinamento ad un limitato numero di casi, alcuni di essi espressamente individuati nell’articolo 5. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di cui sopra, ossia della società target coinvolta in programmi o progetti di interesse europeo. La scelta della Commissione di ridurre tali situazioni ad un numerus clausus persegue l’obiettivo di scoraggiare le notifiche che assumono scarsa rilevanza e che potrebbero, altrimenti, pregiudicare gravemente il buon funzionamento del meccanismo.

Inoltre, si ritiene opportuno segnalare che la nuova bozza di regolamento, oltre a includere espressamente gli investimenti greenfield, troverebbe applicazione anche rispetto a investitori costituiti nell’Unione Europea, ma controllati da soggetti esteri (di tale tema ci siamo già occupati relativamente al caso ungherese “Xella”). In ogni caso, non è da escludere che la Proposta possa subire in futuro modifiche, persino radicali. L’iter normativo, invero, è solamente agli inizi: si deve ancora attendere l’esame del Parlamento Europeo e del Consiglio. Per di più, il procedimento di approvazione potrebbe subire ulteriori ritardi in conseguenza del fatto che la Commissione sta per scadere dal proprio mandato. Dal 6 al 9 giugno, milioni di cittadini europei saranno chiamati alle urne per eleggere i prossimi rappresentanti del Parlamento. I rapporti di forza e le nuove alleanze che emergeranno all’indomani delle elezioni europee e che determineranno la composizione della nuova Commissione, potrebbero, infatti, avere enormi ripercussioni sul contenuto e sul futuro stesso della bozza di regolamento.

3. LA PRIMA “INDAGINE APPROFONDITA” SULLE SOVVENZIONI ESTERE DISTORSIVE DEGLI APPALTI di Riccardo Zinnai

La Commissione europea ha annunciato in data 16 febbraio 2024 di aver deciso di avviare, in applicazione del regolamento 2022/2560, la prima indagine approfondita relativa alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno nell’ambito di un appalto pubblico. Successivamente, il 29 febbraio 2024 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (serie C) la sintesi dell’avviso relativo all’apertura di detta indagine approfondita, come previsto dall’art. 10, par. 3 del regolamento.

La vicende trae origine da una procedura di appalto pubblico avviata dal Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni della Bulgaria concernente il progetto Bulgaria-Sofia: locomotive e materiale rotabile e parti associate ferrotranviarie. Col bando di gara pubblicato il 4 settembre 2023, l’amministrazione aggiudicatrice avviava una procedura aperta volta ad ottenere la fornitura di venti treni elettrici, la manutenzione del materiale rotabile per quindici anni ed anche la formazione del personale. Poiché le uniche due offerte ricevute venivano giudicate insoddisfacente, l’amministrazione ha avviato una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando e ha contattato i due offerenti della procedura precedente.

Poiché il valore stimato del contratto è di oltre 613 milioni di euro e non siamo di fronte ad una suddivisione in lotti, esso è superiore alla soglia di 250 milioni di euro prevista dall’art. 28 a cui consegue l’obbligo di verificare se vi siano contributi finanziari esteri da notificare.

Nell’ambito della seconda procedura, la Commissione europea ha ricevuto una notifica relativa alle sovvenzioni estere dalla società CRRC Qingdao Sifang Locomotive Co., Ltd., uno dei due offerenti. La società, assunto dunque il ruolo di parte notificante, da un lato possiede azioni in delle imprese figlie senza autonomia commerciale ma dall’altro lato è controllata da CRRC Sifang Co., Ltd, che a sua a volta appartiene a CRRC Corporation Limited.

La parte notificante ha dichiarato di non aver ricevuto contributi finanziari esteri superiori alla soglia di 4 milioni di euro per ciascun paese terzo. Inoltre, non ha segnalato alcuna sovvenzione estera che nell’articolo 5 è qualificata come maggiormente a rischio di provocare distorsioni sul mercato interno.

Tuttavia, alla fine del mese di gennaio 2024 la Commissione ha richiesto ulteriori informazioni e in particolare sulle sovvenzioni estere percepite dalle società controllanti o controllate dalla parte notificante. Proprio in base alle risposte tempestivamente fornite dalla CRRC Sifang Locomotive Co., Ltd., la Commissione è giunta alla considerazione che vi siano sufficienti elementi per ritenere che si sia in presenza di sovvenzioni estere rientranti nella definizione di cui all’art. 3. In particolare, non è dimostrato che gli appalti siano stati aggiudicati sia alla parte notificante ma anche ad altre entità della CRRC Corporation Limited a condizioni di mercato. Hanno attirato l’attenzione della Commissione anche i contributi pubblici contabilizzati come ricavi differiti e altri contributi governativi non strettamente legati alle attività della società. In totale, i contributi finanziari esteri risultano essere pari a 1745 miliardi di euro.

Nel valutare la potenzialità distorsiva delle sovvenzioni ricevute, la Commissione ha analizzato come l’offerta della parte notificante sia sensibilmente inferiore sia ai costi stimati dall’amministrazione aggiudicatrice sia dell’altro offerente.

Dalla data di pubblicazione dell’avviso in G.U.U.E., la Commissione ha fissato, ai sensi dell’art. 8 Reg. 2023/1441, un termine di dieci giorni entro il quale possono essere fatte pervenire osservazioni sia da persone fisiche o giuridiche ma anche da parte degli Stati Membri e dello Stato terzo che ha concesso le sovvenzioni.

L’avvio dell’indagine approfondita è uno dei due possibili esiti previsti dall’art. 10 del regolamento con cui può concludersi la fase dell’esame preliminare. È interessante notare come il regime di pubblicità sia sensibilmente diverso nei due casi.

Infatti, se la Commissione ritiene che non vi sono elementi per avviare un’indagine approfondita, il caso si chiude con una “lettera amministrativa” che viene inviata sia all’impresa oggetto dell’indagine sia agli Stati Membri che avevano informato la Commissione dell’avvio o della previsione di una indagine nazionale pertinente al caso. Nel caso in cui l’esame preliminare fosse stato avviato nell’ambito di un appalto pubblico, viene informata anche l’amministrazione aggiudicatrice.

Al contrario, la scelta di avviare un’indagine approfondita è adottata con la forma di una decisione e di essa è dato avviso anche nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea per consentire la presentazione di osservazioni.

Per quanto riguarda i termini che disciplinano lo svolgimento dell’indagine approfondita, occorre fare riferimento all’art. 30. La Commissione deve adottare una decisione al termine dell’indagine approfondita entro centodieci giorni lavorativi, prorogabili in casi eccezionali di altri venti.

I possibili esiti, previsti dall’art. 31 che a sua volta richiama l’art. 11, sono tre. Se la Commissione ritiene che vi siano sovvenzioni estere distorsive del mercato interno, si potrà avere o una decisione con impegni oppure una decisione che vieta l’aggiudicazione dell’appalto. Vi potrà invece essere una decisione di non sollevare obiezioni qualora la valutazione effettuata al termine dell’esame preliminare non venga confermata o qualora si sia positivamente superata la valutazione comparata tra effetti distorsivi ed effetti positivi di cui all’art. 6. L’articolo 41 specifica poi chi siano i destinatari della decisione e quali altre parti debbano essere comunque informate.

L’apertura della prima indagine approfondita nell’ambito di una procedura di appalto pubblico sarà di notevole interesse per la comprensione di come la Commissione intenderà applicare il regolamento sulle sovvenzioni estere. In primo luogo, si vedrà quali criteri verranno seguiti per qualificare i contributi finanziari esteri come sovvenzioni. In secondo luogo, il caso potrà fornire chiarimenti sull’effetto distorsivo di quest’ultime.

Dalle dichiarazioni rilasciate dalla vice-presidente esecutiva Margrethe Vestager, è possibile prevedere che l’approccio della Commissione sarà alquanto severo. Infatti, si intende far uso di tutti gli strumenti disponibili per contrastare quella che viene considerata essere concorrenza sleale proveniente dalla Cina. Tuttavia, la stessa ha contemporaneamente affermato che per il settore del materiale rotabile sia fondamentale non avere meno concorrenza ma che questa sia leale.

Anche il commissario per il mercato interno Thierry Breton ha commentato la notizia affermando che sia essenziale garantire la competitività e la sicurezza economica europea proteggendo il mercato europeo dalle sovvenzioni estere.

Alla visione entusiasta dei funzionari europei, fanno da contraltare le riserve espresse dalla Camera di Commercio cinese presso l’Unione europea. Essa ritiene che l’adozione e l’applicazione di nuovi strumenti normativi non debbano avere effetti discriminatori nei confronti di imprese straniere. Infine, non può certo passare inosservato che l’apertura di quest’indagine segua a distanza di pochi mesi quella sull’importazione di veicoli elettrici a batteria provenienti dalla Cina, sebbene quest’ultima si fondi sul diverso regolamento 2016/1037.

4. LA “NON FUGA” DAL REGOLAMENTO: IL CASO DEL REGOLAMENTO PER IL FUNZIONAMENTO DEL FONDO PER INDENNIZZARE LE VITTIME DELLE FRODI FINANZIARIE IN APPLICAZIONE DELLA LEGGE N. 266/2005 di Martina Bordi

Con i pareri n. 1018/2023 e 00054/2024, la Sezione Consultiva per gli Atti normativi del Consiglio di Stato si è espressa in merito allo schema di decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministero dell’economia e delle finanze, recante “Regolamento per il funzionamento del Fondo per indennizzare le vittime delle frodi finanziarie in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 343 e seguenti, della legge 23 dicembre 2005, n. 266”.

La vicenda risulta particolarmente interessante in quanto costituisce uno dei pochissimi casi in cui l’amministrazione “non sfugge” al regolamento, ma, al contrario, decide di dare attuazione ad una disposizione di legge per mezzo di un decreto di natura regolamentare, in luogo di un decreto di natura non regolamentare come espressamente previsto dalla norma primaria.

In particolare, la legge 266/2005 prevede l’istituzione di un Fondo volto ad indennizzare determinate categorie di risparmiatori che hanno subito un danno ingiusto altrimenti non risarcito da parte di società quotate nei mercati finanziari italiani e sottoposte a fallimento o liquidazione coatta amministrativa.

Come si anticipava, la suddetta legge, al comma 345-novies prevede che “con decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono stabiliti i presupposti e le procedure per ottenere gli indennizzi di cui ai commi 343 e 344, i limiti dell’indennizzo, le priorità per l’attribuzione degli indennizzi e le eventuali ulteriori modalità di attuazione delle disposizioni di cui ai commi da 343 a 345-octies. (…).”

Il Ministero per dare attuazione alla norma ha invece deciso di procedere per mezzo di un decreto del Presidente della Repubblica, come disciplinato dall’art. 17 della legge n. 400/1988. La scelta dell’amministrazione procedente è stata motivata dalla necessità di utilizzare una fonte più puntuale, che fosse in grado di colmare la lacunosità della norma primaria dato che la stessa non individua la nozione di risparmiatore, né le categorie di investitori che siano idonei ad accedere al fondo, né una disciplina dettagliata delle modalità di prova del danno ingiusto.

Il Consiglio di Stato, con un primo parere interlocutorio, n. 1018/2023, pur ammettendo la controtendenza del Mef rispetto alla invalsa prassi della c.d. fuga dal regolamento e quindi l’utilizzo di atti, di natura non regolamentare, evidenzia come la scelta dell’Amministrazione non risulta supportata da una conforme previsione legislativa.

Gli atti adottabili con decreto del Presidente della Repubblica, sostiene il Consiglio di Stato, sono tassativi, previsti dall’art. 1 della legge n. 13/1991 e oltremodo gli stessi devono essere accompagnati dalla previa deliberazione del Consiglio dei ministri, che risulta, nel caso di questo regolamento, assente.

A seguito dell’emanazione del parere interlocutorio, l’Amministrazione procedente ha ribadito la necessità del ricorso alla fonte regolamentare per dare attuazione alla disposizione istitutiva del fondo.

Nel parere definitivo, n. 00054/2024, il Consiglio di Stato ribadisce le difformità della scelta dell’Amministrazione rispetto alla previsione legislativa contenuta nella legge di istituzione del Fondo e rispetto alla tassatività degli atti aventi forma di d.P.R.

La Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato, nella fattispecie in esame, ha inteso privilegiare il rispetto del principio di legalità, che nel caso concreto, si intende l’utilizzo di un decreto di natura non regolamentare.

Questo decreto, dalla controversa natura normativa, definito dalla Corte costituzionale come un “atto dall’indefinibile natura giuridica” (sentenza n. 116/2006), ha contribuito alla proliferazione dell’invalsa prassi della c.d. “fuga da regolamento”. Termine con cui si definisce la tendenza ad evitare le forme del potere regolamentare, adottando atti a contenuto normativo ma senza la forma di regolamento.

Il non-utilizzo della forma regolamentare esula dall’iter procedimentale previsto dall’art. 17 legge 400/1988, comportando minori garanzie procedurali.

L’utilizzo dell’atto dal contenuto non regolamentare, invero, è stato scoraggiato dalla stessa Sezione Consultiva del Consiglio di Stato in diverse occasioni, non ultimo il parere n. 1254/2023 recante un regolamento di organizzazione del Ministero della transizione ecologica.

Nel parere sopracitato, la Sezione ha mostrato come l’uso del D.P.C.M. comporta non solo un’elusione del controllo democratico affidato alle commissioni parlamentari competenti ma anche un’incertezza nel sistema delle fonti. Il Ministero procedente, a contrario dell’invalsa prassi della fuga da regolamento, ha utilizzato uno strumento normativo, il d.P.R., il quale, sul piano giuridico delle fonti normative, risulta più idoneo nell’esecuzione della legge in esame, con funzione di integrazione della fonte primaria e minimizzante, in sede di attuazione, della discrezionalità amministrativa.

5. LA DISMISSIONE DELLE PARTECIPAZIONI NELLE SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE: IL CASO POSTE ITALIANE S.P.A di Elena Valenti

Il 5 gennaio 2024 il Consiglio dei ministri ha approvato, in esame preliminare, un provvedimento che regolamenta l’alienazione di una quota di partecipazione nel capitale di Poste Italiane S.p.A. detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il provvedimento si inserisce in un più ampio piano di privatizzazioni per la riscossione di circa venti miliardi, annunciato dal Governo e approvato con delibera del Consiglio dei ministri del 27 settembre 2023. L’operazione, che si stima possa perdurare fino al 2026, consiste nella dismissione di partecipazioni statali al fine di recuperare risorse necessarie al rispetto del principio del pareggio di bilancio.

Come si evince dal dossier n. 926 del 30 dicembre 2023, la dismissione delle partecipazioni di alcune tra le più importanti società a partecipazione pubblica quotate consentirebbe allo Stato di rispettare gli obiettivi programmatici inerenti al risanamento del debito pubblico. Con riferimento a Poste Italiane S.p.A., l’operazione consiste nella privatizzazione di una parte delle quote (circa il venti per cento) della società. Si prevede che lo Stato, a seguito della dismissione, mantenga comunque il controllo, anche indiretto, della società per il tramite di una partecipazione non inferiore al sessanta per cento. Ad oggi, la compagine societaria di Poste Italiane è così suddivisa: il ventinove per cento delle azioni è in mano al Ministero dell’economia e delle finanze, mentre Cassa depositi e Prestiti, controllata del Mef, detiene il trentacinque per cento delle azioni. A questi ultimi si aggiungono investitori individuali e istituzionali.

Lo statuto di Poste Italiane, inoltre, contiene una clausola di limite del possesso azionario in base alla quale nessun soggetto diverso dal Mef, da enti pubblici o da soggetti da questi controllati può detenere azioni per una quota superiore al cinque per cento del capitale della società.

Si tratta di dismissioni di partecipazioni in società pubbliche rispetto alle quali esistono impegni nei confronti della Commissione europea circa il rispetto della normativa inerente agli aiuti di Stato, oppure la cui quota di possesso nel settore pubblico eccede quella necessaria a mantenere un’opportuna coerenza e unitarietà di indirizzo strategico.

Nel documento giunto alle commissioni si afferma che si è ritenuto opportuno procedere all’alienazione di una ulteriore quota del capitale sociale di Poste Italiane mediante un’offerta pubblica di vendita o sottoscrizione rivolta al pubblico dei risparmiatori, inclusi gli investitori internazionali. Tuttavia, l’offerta pubblica di vendita, che si stima possa avvenire in più fasi, prevede il trenta per cento delle quote immesse nel mercato riservate ai dipendenti e ai risparmiatori.

Come espresso nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza del 27 settembre 2023, l’operazione societaria è parte degli obiettivi inseriti nella legge di bilancio 2024, legge 30 dicembre 2023, n. 213, in quanto l’obiettivo di generare proventi che possano risanare il bilancio pubblico viene perseguito immettendo nel mercato le azioni delle società che hanno un maggiore concorrenzialità nel mercato di borsa.

La dismissione prevede un piano di azionariato diffuso, secondo criteri di preminenza per i dipendenti della società, nonché per gli investitori istituzionali, con previsione di forme di incentivazione, anche differenziate, per il pubblico dei risparmiatori. Analogamente a quanto previsto nelle due precedenti tranche di privatizzazioni avvenute nel 2015 e nel 2016, il piano di dismissione consente di attivare forme di incentivazione per la partecipazione all’offerta pubblica di vendita da parte dei risparmiatori e dei dipendenti del gruppo Poste italiane, tenuto conto anche della prassi di mercato e di precedenti operazioni di privatizzazione.

In particolare, tali forme di incentivazione potranno tradursi in: offerte riservate e agevolazioni di prezzo. In proposito, si potrebbe ipotizzare un bonus share, clausola che in seguito ad un’offerta pubblica di vendita o di sottoscrizione prevede l’allocazione a titolo gratuito ai sottoscrittori iniziali di un certo quantitativo di azioni in caso di possesso azionario ininterrotto per un determinato arco temporale.

Lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri definisce i criteri di privatizzazione e le modalità di dismissione della partecipazione pubblica nel capitale di Poste Italiane S.p.A.

Si prevede che l’alienazione determini il mantenimento di una partecipazione dello Stato al capitale di Poste Italiane S.p.A. non inferiore al sessanta per cento. L’alienazione della quota di partecipazione potrà essere effettuata, anche in più fasi, attraverso un’offerta pubblica di vendita rivolta al pubblico dei risparmiatori in Italia, inclusi i dipendenti del Gruppo Poste Italiane, e a investitori istituzionali italiani e internazionali. Al fine di favorire la partecipazione all’offerta dei dipendenti del Gruppo Poste Italiane, potranno essere previste per gli stessi, nell’ambito dell’offerta, forme di incentivazione, tenuto conto anche della prassi di mercato e di precedenti operazioni di privatizzazione.

L’alienazione delle partecipazioni detenute dallo Stato in società per azioni è effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate alla diffusione dell’azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Tali modalità sono preventivamente individuate, per ciascuna società, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’economia e delle finanze e di concerto con il ministro delle attività produttive.

Appare utile mettere in luce come a Poste Italiane S.p.A., società a partecipazione pubblica quotata nel mercato di borsa, sia demandata la gestione del servizio pubblico postale. Per la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità il Governo definisce i criteri per la cessione delle partecipazioni e le relative modalità e li trasmette al Parlamento ai fini dell’espressione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari.

A questo proposito, l’art. 1-bis del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, prevede che le dismissioni delle partecipazioni detenute dallo Stato in società operanti nei settori dei pubblici servizi sono subordinate alla creazione di organismi indipendenti per la regolarizzazione delle tariffe ed il controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico.

Sino all’avvento del Testo unico le società pubbliche potevano svolgere sia attività di impresa che di servizio pubblico. In particolare, l’attività di impresa era svolta da società pubbliche, l’attività di servizio pubblico poteva essere svolta sia da società pubbliche che da soggetti privati, posti su un piano di parità.

Con riferimento alle società partecipate non quotate, ad esclusione di Poste Italiane quotata nel 2015, la riforma delle società a partecipazione pubblica ha di fatto vietato alle società a partecipazione pubblica di svolgere attività di impresa, demandando le società pubbliche ad attività di servizio pubblico o alle specifiche attività ivi indicate. Conseguentemente, lo spazio di intervento nell’economia si è ancor più ridotto e lo Stato si è trasformato da Stato imprenditore a Stato regolatore.

Da un punto di vista sovranazionale, l’influenza del diritto europeo ha condotto all’elaborazione della nozione di servizio pubblico oggettivo sul presupposto che tale servizio possa essere assicurato sia da soggetti pubblici che da privati. Le modalità di svolgimento del servizio pubblico, in questo mutato contesto regolatorio, sono plurime e la giurisprudenza costituzionale segue un orientamento più che rigoroso nell’individuare i casi in cui ci sia una riserva pubblica dello svolgimento del servizio pubblico. La dimissione delle partecipazioni statali in Poste Italiane S.p.A. può dirsi in linea con i processi di liberalizzazione economica già intrapresi in passato.

Poste Italiane S.p.A. non è l’unica società a partecipazione pubblica coinvolta nel processo di dismissione delle partecipazioni statali. Rientra nel piano programmatico di vendite sul mercato di quote di partecipazioni statali dal 2024 al 2026 anche la cessione del venticinque per cento della partecipazione del Mef in Monte dei Paschi di Siena S.p.A., che ha approvato il piano strategico di dismissioni. A quest’ultima segue l’immissione nel mercato di borsa del quaranta per cento delle partecipazioni statali in Ferrovie dello Stato S.p.A., società a partecipazione pubblica non quotata. Nella governance delle società a partecipazione pubblica quotate, ci si domanda se la presenza dei privati nell’azionariato possa determinare una maggiore o minore efficienza nei servizi pubblici, elevarne o al contrario comprometterne il livello dei servizi. La governance delle società a partecipazione pubblica quotate è ad oggi un terreno di scontro tra interessi contrapposti. L’ultima parola, in relazione alla dismissione di Poste Italiane S.p.A., spetta alla Camera per il parere delle commissioni trasporti e bilancio.

6. IL PIANO PLURIENNALE DI PRIVATIZZAZIONE: VERSO LA RIDUZIONE DEL DEBITO PUBBLICO? di Marta Nigrelli

Con la presentazione della legge di bilancio 30 dicembre 2023, n. 213, il ministro dell’Economia ha delineato l’intenzione del Governo di realizzare nei prossimi tre anni privatizzazioni pari all’1 per cento del PIL, un passo considerato importante dall’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) per garantire la convergenza del rapporto debito/PIL verso gli obiettivi di finanza pubblica.

In particolare, nella Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF), approvata il 27 settembre 2023 dal Consiglio dei ministri in relazione al triennio 2024-2026, il Governo italiano ha annunciato un piano pluriennale di privatizzazioni da 21 miliardi di euro, da raggiungere entro il 2026: si tratta di un programma strategico che prevede la cessione di partecipazioni in aziende o istituzioni

Le misure di privatizzazione rappresentano un passo importante per ottimizzare le risorse pubbliche e promuovere l’efficienza economica attraverso la cessione di partecipazioni statali.

Nel quadrimestre ottobre 2023–gennaio 2024, infatti, sono intervenute diverse innovazioni in tema di società partecipate dalle pubbliche amministrazioni che hanno riguardato, in particolare, mutamenti nelle partecipazioni e negli assetti organizzativi di rilevanti entità societarie.

Uno dei passi significativi in questa direzione è stata la cessione, avvenuta il 20 novembre 2023, del 25 per cento delle azioni di Banca Monte dei Paschi di Siena (MPS), istituto simbolo del sistema bancario italiano, nazionalizzata nel 2017.

In linea con il programma di dismissione delle partecipazioni previsto dal Governo, MPS, su richiesta della Consob, ha messo a disposizione sul suo sito istituzionale il documento di Piano strategico di Gruppo, approvato dal CdA per il quadriennio 2022-2026: le nuove strategie prevedono una banca “più snella” e chiara, nonchè un aumento di capitale da 2,5 miliardi da eseguire nel 2022.

Il Piano, precisa il Consiglio di amministrazione del MPS, sostituisce integralmente il precedente Piano Strategico 2021-2025, approvato dalla banca nel dicembre 2020, “che era stato redatto sottendendo un’operazione strutturale da realizzare nel breve periodo”, con riferimento agli impegni assunti dal Governo con il Piano di Ristrutturazione 2017-2021, ribaditi in un DPCM del 16 ottobre 2020, il quale prevedeva di “avviare un processo di dismissione della partecipazione detenuta dal Ministero nel capitale sociale di MPS, da realizzare con modalità di mercato e anche attraverso operazioni finalizzate al consolidamento del sistema bancario”.

Il Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) ha ceduto parte della sua quota: in particolare, sono state collocate 314.922.429 azioni ordinarie con un corrispettivo per azione di 2,92 euro e un controvalore complessivo di circa 920 milioni di euro.  

Nonostante la privatizzazione in corso, il MEF manterrà comunque, a seguito della cessione, una quota del 39,23 per cento (dal 64, 23 per cento), garantendo una maggioranza significativa.

Questa operazione mira a valorizzare la banca, nel rispetto degli impegni presi con le autorità dell’Unione Europea.

La mossa è stata giustificata dal Ministero dell’economia e delle finanze come parte di un processo più ampio per potenziare la banca, tenendo conto del suo solido quadro patrimoniale e delle prospettive di sviluppo.

Dopo un’interruzione di tre mesi dalla prima cessione, così come da impegni assunti, il MEF può riprendere il programma di alienazione come primo socio di MPS: con la quota di partecipazione dello Stato più diluita, la banca si rende più aperta a potenziali acquirenti.

Le esigenze sottostanti al programma di cessione delle partecipazioni sono diverse: da un lato, ciò consentirebbe alla banca di rispettare gli impegni eurounitari, in relazione alla previsione di dismissione entro fine 2024; dall’altro, permetterebbe al Governo di uscire dal mondo del credito retail prima di una eventuale recessione economica. Il Governo, infine, potrebbe approfittare della rinnovata posizione di forza di Monte dei Paschi per predisporre un’integrazione.

Il contesto economico e finanziario in cui si colloca l’operazione di privatizzazione di MPS è cruciale per comprendere appieno le sue implicazioni.

Con profitti superiori alle attese nei primi nove mesi del 2023, MPS ha presentato un bilancio positivo, registrando un guadagno di quasi 930 milioni di euro che potrebbe superare 1,1 miliardi nei 12 mesi.

Tuttavia, la necessità per il Governo italiano di raccogliere risorse e rispettare gli impegni con l’Unione Europea ha accelerato il processo di privatizzazione.

In conclusione, la cessione del 25 per cento di MPS rappresenta un importante passo verso la privatizzazione, con implicazioni finanziarie e giuridiche rilevanti.

Il Governo italiano, nel perseguire il piano di privatizzazione, deve infatti affrontare sfide e bilanciare gli obblighi derivanti dall’Unione Europea con la necessità di garantire la stabilità e la valorizzazione della banca.

Il successo dell’operazione di privatizzazione dipenderà in gran parte dalla competenza degli advisors, ovvero i consulenti finanziari e legali che svolgeranno un ruolo chiave nell’aiutare il Governo a gestire l’intero processo, definendo le modalità con cui collocare le partecipazioni sul mercato finanziario.

Nel comunicato stampa del 20 novembre 2023, il MEF ha specificato che la cessione del pacchetto azionario è avvenuta attraverso un Accelerated Book Building – ABB, un’operazione riservata ad investitori istituzionali italiani ed esteri: è stato coinvolto un consorzio di banche, composto da BofA Securities, Jefferies e UBS Investment Bank, che hanno agito nel ruolo di joint global coordinators e joint bookrunners: l’apertura del processo a investitori nazionali ed esteri ha contribuito a ottenere il miglior prezzo possibile per MPS.

In particolare, l’esperienza e la competenza degli advisors saranno decisive affinchè la privatizzazione sia condotta in modo trasparente, efficace ed equo: il contesto delle societa quotate richiede, infatti, il rispetto dei principi fondamentali di trasparenza e correttezza delle operazioni finanziarie, soprattutto nell’ipotesi in cui siano coinvolti attori e risorse pubblici.

La privatizzazione di MPS offre un nuovo flusso di entrate che può essere utilizzato per coprire le spese governative.

Questa diversificazione riduce il rischio di instabilità finanziaria e fornisce al Governo una maggiore flessibilità nell’affrontare le sfide economiche.

Pur essendo funzionale all’acquisizione di risorse, comunque, il piano di privatizzazione non prevede l’abbandono del controllo delle società strategiche italiane. Il piano di cessioni delineato dal Governo con la NADEF e con la legge di bilancio 2024, infatti, rappresenta, più che un programma di privatizzazioni in senso stretto, un più ampio progetto di razionalizzazione del patrimonio delle società partecipate, al fine di renderne più efficienti le partecipazioni, alla luce delle condizioni ed esigenze attuali del mercato.

7. L’AUTORESPONSABILITA’ DEGLI OPERATORI ECONOMICI: NON È SEMPRE COLPA DELLE AMMINISTRAZIONI di Cristiana Traetta

Il Consiglio di Stato con sentenza n. 1924/2024 dello scorso febbraio conferma la decisione del Tar Puglia n. 478/2023 in merito al rigetto del ricorso avverso il provvedimento di esclusione della società appellante, fornendo un’importante interpretazione della condotta di quest’ultima in termini di correttezza e diligenza richiesti all’operatore economico alla luce degli articoli 1 e 2 D. Lgs. 36/2023.

La città metropolitana di Bari pubblica una Richiesta di Offerta sul Mercato elettronico della Pubblica Amministrazione per l’affidamento del servizio biennale di deposito, custodia e gestione dei propri documenti. I due unici offerenti, seppur in modalità diverse, rappresentano all’Amministrazione di aver commesso un errore di compilazione dovuto alla schermata della piattaforma, nella quale era necessario riempire il campo con dicitura “valore offerto” per avanzare con la procedura. A fronte di tale accertamento, l’Amministrazione decide di chiedere chiarimenti a entrambi circa il significato sostanziale da attribuire ai valori inseriti, senza invalidare la procedura ed utilizzando i più semplici strumenti predisposti all’uopo; infine proroga il termine per la presentazione delle offerte come dalla ricorrente sollecitato. La questione è di non poco conto venendo in rilievo una delle regole auree a tutela della concorrenza, cioè il divieto di commistione fra offerta tecnica ed offerta economica. La tutela della segretezza dell’offerta economica infatti è tutela della par condicio fra i concorrenti.

L’appellante chiede la riforma della sentenza per il mancato annullamento della procedura e della sua esclusione, impugnando l’ammissione alle fasi successive dell’altra società partecipante. In particolare sostiene che l’errore sia dipeso dal non corretto funzionamento della piattaforma e contesta l’illegittimo comportamento dell’Amministrazione: essa ha ammesso l’altro concorrente imbattuto nel medesimo equivoco anche se in sede di richiesta di chiarimenti egli ha riconosciuto che “per consentire la generazione del file di sistema, aveva inserito il valore numerico “80” dichiarandolo espressamente “privo di significato, ma solo strumentale al superamento del vincolo tecnico imposto dal sistema”. Essa sarebbe stata indotta in errore dalla stessa stazione appaltante, confidando nella corretta impostazione dell’offerta tecnica e le imputa quindi di aver ingiustamente traslato le conseguenze sui concorrenti. Afferma inoltre di non aver ritenuto di interagire con la s.a. perché nel caso di specie, non ha avuto dubbi in ordine all’obbligo di indicare il valore economico della propria offerta, dal momento che la rubrica del campo in questione non poteva che riferirsi al citato valore economico dalla stessa proposto. In sostanza non si attribuisce alcuna colpa nell’aver comunque proceduto all’invio dell’offerta, nonostante l’unica misura che abbia adottato sia stata quella dell’invio di una PEC, peraltro oltre l’originario termine di scadenza.

Il Collegio ritiene che tali argomentazioni non siano condivisibili e risolve il caso anzitutto basandosi sull’ordinarietà e semplicità delle operazioni in questione per un operatore economico avveduto come quello in causa, rifiutando il gravame fondato sull’errore a lui non imputabile. Infatti è noto come su tali tipi di piattaforme venga fornito un servizio di messaggistica che serve proprio ad interloquire direttamente con la s.a. e quindi ad evitare di cadere in errore nella compilazione della domanda con la conseguente perdita di chance. D’altronde l’utilità del servizio sulle piattaforme è quella che la s.a. vagli la richiesta in tempo utile e che a sorvegliarla sia lo stesso responsabile della procedura, miglior soggetto atto a fornire o a ricevere chiarimenti. Il giudice ritiene che l’amministrazione abbia adempiuto al suo dovere di lealtà e buona fede diversamente dalla società ricorrente che, consapevole di violare il Disciplinare di gara e il generale principio di segretezza dell’offerta economica ha tenuto un contegno non apprezzabile, soprattutto se confrontato con quello dell’altro offerente. Viene infatti posto l’accento sulla diligenza di quest’ultimo nell’ utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalla piattaforma telematica.

Il giudice afferma che la società deve dolersi della propria mancanza di cautele minime e ricorda che nell’ambito delle gare pubbliche, è necessario adempiere con scrupolo e diligenza a quanto previsto dal bando e dalle norme tecniche. La disciplina di gara è posta a garanzia di tutti i partecipanti e il suo erroneo utilizzo rimane a rischio del partecipante nell’ambito della propria autoresponsabilità non potendo questi violare consciamente la procedura e pretendere di addurre a giustificazione cause che non coinvolgono in alcun modo la stazione appaltante.

Infine il Consiglio ritiene non superfluo affermare che l’operato della s.a. sia perfettamente in linea con il principio del risultato previsto dall’articolo 1 del D. lgs. 36/2023, nonostante la procedura sia stata indetta sotto la vigenza del precedente codice. Tale principio si colloca in testa alla nuova disciplina ed è considerato quale valore dominante del pubblico interesse da perseguire attraverso il contratto ed esclude che l’azione amministrativa sia vanificata ove non si possano ravvisare effettive ragioni che ostino al raggiungimento dell’obiettivo finale. L’art. 1 è poi strettamente collegato al principio della fiducia di cui all’art. 2 in quanto amplia i poteri valutativi e la discrezionalità della p.a., in chiave di funzionalizzazione verso il miglior risultato possibile ed elimina il sospetto che ha sempre caratterizzato l’atteggiamento verso l’operato della Pubblica Amministrazione. La gara è funzionale a portare a compimento l’intervento pubblico nel modo più rispondente agli interessi della collettività nel pieno rispetto delle regole che governano il ciclo di vita dell’intervento medesimo. Regole che l’appellante, all’evidenza, non ha rispettato.

Emerge da tale ragionamento quella che è la nuova modalità di valutazione della correttezza della condotta dell’Amministrazione da parte del giudice, non più vincolata da presunzioni di illegittimità, ma potendo contestarsi solo ove si dimostri che il risultato è stato conseguito in violazione della legge.

Da ultimo sembra molto interessante il discorso del Collegio circa l’esigenza che gli operatori economici si assumano le proprie responsabilità nell’ambito di quello che è un mercato che potrebbe essere caratterizzato dalla quasi paritaria posizione delle parti, non potendosi pretendere dalle Amministrazioni condotte che vadano a compensare le mancanze degli interessati alla partecipazione alla gara. La scelta discrezionale della s.a. di non annullare la procedura a fronte di un equivoco sanabile attraverso modalità rapide e trasparenti non può essere messa in discussione dall’operatore economico che non accetti di esser escluso dalla procedura per sua stessa negligenza. Dal gennaio 2024 l’intero apparato dei contratti pubblici si regge sulla digitalizzazione e sull’utilizzo di piattaforme telematiche le quali, come è dato riscontrare, possono imporre oneri di diligenza aggiuntivi essendo fallibili, ma sicuramente non possono diventare strumenti pretestuosi per mettere in discussione l’esito delle gare.

8. TRA NORME E NECESSITÀ: ANALISI CRITICA DEL PROTOCOLLO ITALIA – ALBANIA SULLA GESTIONE MIGRATORIA di Lucilla Tempesta

  1. Introduzione

Il 6 novembre del 2023 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ed il Primo Ministro Edi Rama hanno firmato il Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria. L’accordo nasce dalla necessità di rafforzare la collaborazione bilaterale fra i due paesi in ambito migratorio e dalla prospettiva di adesione della Repubblica di Albania all’Unione Europea.

Lo scopo dell’accordo (art 2), composto da 14 articoli e due allegati, è la ricollocazione dei richiedenti asilo salvati in mare da navi italiane in due centri sul territorio albanese (art. 4) che potranno ospitare fino a 3000 persone. La durata dell’accordo sarà di cinque anni ed il rinnovo automatico, a meno che un paese deciderà di recedere (art. 13). I minori, le donne incinta ed altri soggetti vulnerabili saranno esclusi da questi centri e ricondotti in Italia. La giurisdizione rimarrà italiana anche in territorio albanese (art. 5-8). L’ingresso e la permanenza in territorio albanese saranno concessi “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art. 4, co.3). Per la durata del protocollo a titolo gratuito sono concesse due aree demaniali (art. 3) identificate nell’allegato 1. Il primo centro si troverà vicino al porto di Shengjin: il disimbarco e il procedimento di identificazione saranno svolti lì, dove ci sarà inoltre un centro di accoglienza per i richiedenti asilo (hotspot). A Gjadër sarà costruito il secondo centro per il rimpatrio (CPR) di coloro che non posseggono i requisiti per ottenere lo status di rifugiato o l’asilo. Le spese per le procedure e la costruzione delle strutture sono interamente a carico della Parte Italiana che si occupa inoltre di assicurare che vi siano strutture sanitarie per garantire il servizio sanitario necessario. Le autorità albanesi collaborano con quelle italiane a tutela delle cure mediche indispensabili e indifferibili ai migranti trattenuti. L’articolo 6 è a tutela della sicurezza chiarendo il funzionamento della collaborazione fra le due parti: la Parte italiana assicura il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno delle Aree designate mentre la Parte Albanese se ne occupa nello spazio esterno e durante i trasferimenti. Un’unità responsabile del buon andamento, coordinamento e supervisione delle questioni di sicurezza è istituita per ambe le Parti. Le autorità italiane si occupano di impedire l’uscita non autorizzata dei migranti dal territorio Albanese durante ed al termine delle procedure amministrative.

Il periodo di trattenimento nei centri opererà in accordo con la normativa italiana (art. 9) ovvero dovranno essere trattenuti gli stranieri “solo per il tempo strettamente necessario” che non potrà essere superiore ai 18 mesi nel caso di esecuzione dell’espulsione (art. 14 TUI). Le categorie a cui si applica il protocollo sono i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicura durante la procedura di esame della domanda internazionale a cui si applica la procedura accelerata (ovvero soggetti non vulnerabili), a coloro che abbiano già presentato la domanda ottenendo un diniego ed infine alle persone in attesa di essere rimpatriate in assenza dei requisiti per il soggiorno in Italia.

Qualora si tratti di persone salvate in mare l’articolo 14 TUI co. 1  prevede che siano condotte “presso il centro di permanenza per i rimpatri più vicino”: il protocollo, per come inizialmente disposto, derogherebbe a questa norma.

  • Implicazioni giuridiche ed operative del protocollo

Il protocollo rappresenta un singolare tentativo di gestione extraterritoriale dei migranti poichè la gestione nei centri in territorio albanese e le procedure saranno espletati secondo la normativa interna italiana ed europea.

Sono evidenti i problemi giuridici ed applicativi: i due campi extraterritoriali dovranno acquisire uno status giuridico per cui l’autorità rimane quella italiana.

A tal proposito è necessario ricordare che all’art. 10 Cost. co. 3 si afferma “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.”, dunque non è previsto lo stesso diritto in un paese terzo che non sia territorio nazionale.

Un problema operativo riguarda invece la polizia italiana che dovrebbe occuparsi delle procedure di identificazione, eventualmente di rimpatrio e di asilo dovendo agire in territorio straniero.

La guardia costiera e la guardia di finanza sarebbero le due autorità legittimate a soccorrere in mare i migranti e trasferirli fino in Albania, o dalle coste della Sicilia o, dovendo fare un viaggio ancor più lungo, da Lampedusa. La capienza insufficiente delle imbarcazioni comporterebbe continuii viaggi eccessivamente prolungati. Tale circostanza potrebbe tradursi in un ulteriore aggravamento del sovraffollamento nei centri di accoglienza, con particolare riferimento a località come Lampedusa.

Inoltre, per le operazioni in Albania è richiesta la presenza di funzionari italiani che dovranno compiere più volte il viaggio dall’Italia per espletare tutte le procedure.

L’accordo assicura che le persone più fragili saranno sbarcate in Italia e non in Albania mettendo in atto degli sbarchi selettivi, in violazione dell’art. 3 della Costituzione ammettendo una ipotesi di discriminazione basata su una condizione personale che comporta una vulnerabilità o meno.

La questione del trattenimento delle persone trasportate in Albania che presentano richiesta di asilo solleva gravi questioni giuridiche. L’accesso alla procedura e allo screening non è possibile sulle navi, dove è invece obbligatorio fornire informazioni alle persone riguardo alla possibilità di richiedere la protezione internazionale. La Corte Europea dei diritti umani nel 2013 (causa Hirsi Jamaa per i respingimenti collettivi attuati nel 2009 verso la Libia), si era espressa spiegando che “alcuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane prima del loro trasporto sulla terraferma e dovrebbe avvenirecon personale adeguato e con tutte le garanzie”. Le operazioni di registrazione e formalizzazione della domanda devono avvenire di fronte alle autorità di frontiera (polizia di frontiera o questura) e, nel caso si ritenga opportuno applicarla in Albania, le domande verranno registrate in tale paese.

Il diritto dell’Unione non ammette automatismi in nessun caso: è sempre necessaria una valutazione delle misure meno afflittive, escludendo quindi il trattenimento. In contrasto, in Albania sarebbe possibile solo il trattenimento, rappresentando un secondo profilo di non conformità evidente. Non può esserci un automatismo riguardo alle persone che possono o devono rimanere nel territorio albanese o devono ritornare in Italia, neanche nel caso di provenienza da paese di origine ritenuto sicuro. L’immediatezza in questa fase non è praticabile, poichè situazioni di violenza, persecuzioni o di persone appartenenti a categorie vulnerabili non sono sempre identificabili in modo immediato. Si pensi, ad esempio, ai minori per i quali è necessaria una verifica dell’età. Inoltre, non è  possibile disporre un trattenimento e successivamente cercare le prove a sostegno.

  • Sviluppi normativi in Albania e in Italia: La Ratifica del Protocollo

Il 13 dicembre del 2023, l’Albania aveva sospeso la procedura in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. La decisione faceva seguito a due ricorsi presentati contro l’accordo da membri di centro destra all’opposizione di Edi Rama. Il ricorso si fondava sul presupposto di una violazione delle leggi internazionali e della costituzione albanese. In particolare il protocollo, riguardando i diritti e le libertà delle persone ed incidendo sul territorio dello Stato, doveva essere concluso con autorizzazione del Presidente della Repubblica, assicurandone la trasparenza e democraticità. I dubbi sollevati si comprendono in relazione al confronto con il progetto del governo inglese in Rwanda dove, a fronte di accordo economico siglato a Kigali, i richiedenti asilo arrivati in territorio britannico attraverso il canale della Manica sarebbero stati trasferiti in Ruanda, prima ancora di esaminare il loro caso. Il 15 novembre 2023 la Corte Suprema ha dichiarato all’unanimità che il Ruanda non può essere considerato come un paese sicuro. Le persone da lì potrebbero essere respinte nel loro paese d’origine dove potrebbero subire violenze e persecuzioni, violando il principio di non refoulement. 

La Corte Costituzionale albanese si è espressa il 29 gennaio 2024 affermando che l’accordo con l’Italia è conforme alla Costituzione e dunque potrà essere ratificato in Parlamento. Secondo il comunicato stampa dell’organo albanese, l’accordo non mina l’integrità territoriale dell’Albania, nè lede le libertà degli individui nonostante le critiche di alcune organizzazioni non governative locali e dell’opposizione interna riguardo all’apertura delle strutture.

Il 15 febbraio il Senato della Repubblica, con 93 voti favorevoli e 63 contrari, ha approvato il d.d.l di ratifica ed esecuzione del Protocollo Italia-Albania. Non sarà possibile rendere operativi i centri in Albania entro la primavera del 2024 come era stato previsto, date le vicende politiche e legislative sia nel territorio italiano che in quello albanese. Le criticità avanzate in entrambi i territori riguardavano questioni di incostituzionalità. In Italia la critica muoveva dalla mancata osservanza dell’art. 80 Cost. il quale afferma che “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi.” Il protocollo, dato il suo contenuto, prescrive l’applicazione del suddetto art. 80. In Albania, come precedentemente mezionato, la previa e necessaria autorizzazione del Presidente della Repubblica aveva comportato l’audizione della Corte Costituzionale. L’esito in Italia è arrivato con la presentazione della legge di ratifica alla Camera dei Deputati da parte del Governo che il 24 gennaio aveva approvato la legge.

  • Conclusione

Il Protocollo Italia-Albania, sebbene miri a regolare la collaborazione bilaterale in materia migratoria, solleva una serie di questioni giuridiche, operative e politiche. L’analisi delle implicazioni legali e pratiche di tale accordo evidenzia la complessità della gestione extraterritoriale dei migranti e la necessità di rispettare i principi fondamentali del diritto internazionale e dei diritti umani.

9. IL DELICATO RAPPORTO TRA ENERGIE RINNOVABILI E PAESAGGIO AL VAGLIO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO di Giulia Moscaroli

Con la sentenza del 3 gennaio 2024, n. 73 il TAR Campania-Salerno si è pronunciato sulla delicata questione relativa all’installazione di pannelli fotovoltaici in aree sottoposte a vincoli paesaggistici.

La vicenda prende le mosse dal rifiuto dell’autorizzazione paesaggistica per l’installazione di otto pannelli fotovoltaici sull’area pertinenziale a un edificio unifamiliare ricadente in zona assoggettata a vincolo paesaggistico. In particolare, il Comune di Pisciotta aveva rigettato l’istanza di autorizzazione paesaggistica a seguito del parere negativo espresso dalla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, la quale aveva ritenuto che dall’installazione dei pannelli fotovoltaici, in quanto percepibili da diversi punti di vista, sarebbe derivata una compromissione dei tratti caratteristici della località protetta. La Soprintendenza, infatti, aveva ritenuto la progettata installazione stridente rispetto al paesaggio, di tipo agricolo, nel quale doveva essere collocata, determinando un deterioramento dell’estetica del luogo.

La ricorrente impugna il provvedimento di rigetto e il prodromico parere negativo espresso dalla Soprintendenza, in particolare argomentando che quest’ultima avrebbe fondato il proprio convincimento negativo sulla base di un rilievo apodittico di incompatibilità dei pannelli fotovoltaici rispetto al contesto territoriale di riferimento, senza verificare in concreto la portata impattante sul paesaggio e senza aver bilanciato la relativa incidenza paesaggistica con il favor ordinamentale per le fonti energetiche rinnovabili.

Il Giudice adito rammenta, preliminarmente, che la disciplina delle fonti energetiche rinnovabili ricava i propri principi generali dalle direttive comunitarie, le quali manifestano un evidente favor per l’installazione di tali risorse, perseguendo l’obiettivo di un’adeguata diffusione dei relativi impianti produttivi.

Ciononostante, la questione della compatibilità tra l’installazione di pannelli fotovoltaici e il rispetto dei vincoli paesaggistici costituisce tradizionalmente argomento di dibattito, poiché coinvolge contestualmente l’incentivazione dell’utilizzo di energia da fonti rinnovabili e la tutela del paesaggio. Quest’ultima, come noto, trova la propria tutela all’art. 9 della Costituzione.

Con specifico riferimento alla disciplina paesaggistica degli interventi di installazione di impianti fotovoltaici, l’art. 7-bis, co. 5, d.lgs. n. 28/2011 prevede che l’installazione di impianti fotovoltaici sugli edifici è subordinata al rilascio di un’autorizzazione ove gli impianti debbano essere installati in aree sottoposte e vincoli paesaggistici.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, la mera visibilità di pannelli fotovoltaici da punti di osservazioni pubblici non configura ex se un’ipotesi di incompatibilità paesaggistica, poiché la presenza degli impianti fotovoltaici sulla sommità degli edifici non è più percepita come elemento di disturbo visivo. Si tratta, piuttosto, di un’evoluzione dello stile costruttivo accettata dall’ordinamento e dalla collettività, ove non modifichi l’assetto esteriore complessivo dell’area circostante sottoposta a vincolo paesaggistico.

Nel rilascio dell’autorizzazione, l’amministrazione competente è tenuta a effettuare un bilanciamento tra i due interessi, equiordinati e concorrenti, di tutela del paesaggio e di promozione delle fonti energetiche rinnovabili, finalizzate alla riduzione dei fenomeni di inquinamento. Spetta, pertanto, alla discrezionalità amministrativa la scelta sulla prevalenza di uno specifico interesse nel caso concreto. Tale ponderazione deve risultare dalla motivazione del provvedimento che, ove rigetti l’istanza del richiedente, deve rendere esplicite le ragioni sottostanti la decisione di segno negativo, non potendosi considerare sufficiente il richiamo a una generica minor fruibilità del paesaggio dal punto di vista estetico.

La giurisprudenza amministrativa, sul punto, afferma pacificamente che ogni nuova opera determina un’incidenza sul paesaggio, per cui il giudizio di compatibilità paesaggistica non può limitarsi a rilevare una mera incidenza estetica sul profilo paesaggistico precedente. La comparazione tra i due interessi antagonisti coinvolti deve essere più severa, imponendo una valutazione più analitica e complessa della fattispecie.

Nella vicenda sottoposta all’attenzione del TAR, la Soprintendenza di Salerno e Avellino non ha fatto buon governo dei principi ordinamentali in materia, limitandosi ad affermare, in maniera apodittica, che l’installazione di pannelli fotovoltaici determina un’alterazione dell’equilibrio paesaggistico del contesto territoriale di riferimento, compromettendo genericamente le visuali panoramiche. La Soprintendenza ha, tuttavia, omesso il fondamentale bilanciamento tra tutela del paesaggio e l’esigenza di promozione delle fonti di energia rinnovabile.

Sulla base delle ragioni esposte, il Giudice amministrativo, ravvisata la fondatezza delle censure, accoglie il ricorso e annulla i provvedimenti impugnati.

Il TAR Salerno, con la decisione in commento, torna a pronunciarsi sulla sempre più pregnante necessità di contemperare le esigenze di tutela del patrimonio culturale con quelle di interesse alla transizione ecologica, in modo tale da non ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo, previsto a livello europeo, di diffusione delle energie prodotte da fonti rinnovabili. Tale sentenza costituisce, senza dubbio, un passo importante verso un approccio più flessibile e sostenibile nella gestione del paesaggio in contesti di rinnovamento energetico. Il TAR sottolinea, infatti, l’importanza di un approccio equilibrato e analitico nella valutazione degli interessi coinvolti nel bilanciamento tra tutela paesaggistica e promozione delle energie rinnovabili. La soluzione accolta appare condivisibile, in quanto idonea a individuare un punto di sintesi tra transizione energetica, che ha come scopo finale la tutela dell’ambiente, e rispetto del patrimonio paesaggistico e culturale, che potrebbe rappresentare un ostacolo all’utilizzo del suolo per finalità energetiche. Il concetto di paesaggio, infatti, è un valore in divenire. Non deve confondersi la tutela del paesaggio dall’idea di difesa del paesaggio naturale, inteso come habitat naturale e, quindi, come insieme di elementi naturali. Al contrario, è preferibile perseguire l’obiettivo di garantire la qualità del paesaggio, e quindi l’equilibrio tra elementi naturali ed elementi antropici.

10. ANNO NUOVO, PROROGHE VECCHIE: QUID JURIS PER LE CONCESSIONI BALNEARI? di Andrea Nardone

Con sentenza 27 dicembre 2023, n. 11200, il Consiglio di Stato si è pronunciato in appello nel giudizio proposto da due ricorrenti per l’annullamento di un’ordinanza del Comune di Amalfi, a mezzo della quale era stata ingiunta la demolizione di uno stabilimento balneare e il ripristino dello stato dei luoghi.

La vicenda trae le mosse dall’adozione della predetta ordinanza di ingiunzione, che si inseriva in una più ampia serie di procedimenti con i quali era contestata sotto molteplici profili l’attività di stabilimento balneare gestita dai ricorrenti. Oltre alla regolarità urbanistica e paesaggistica delle opere realizzate, difatti, il Comune di Amalfi aveva avviato pure il procedimento per la revoca della licenza di pubblico esercizio per la somministrazione di alimenti e bevande, della licenza per la somministrazione di vendita di superalcolici e dell’autorizzazione sanitaria; era stato inoltre avviato il procedimento per la decadenza della concessione demaniale marittima. 

Il ricorso per l’annullamento dell’ordinanza di ingiunzione era stato respinto con sentenza 21 agosto 2017, n. 1307 del T.A.R. Campania – Salerno; avverso tale sentenza i ricorrenti proponevano appello. Nel giudizio innanzi al Consiglio di Stato gli appellanti, per quel che qui più interessa, oltre a criticare la bontà della sentenza che aveva riconosciuto la legittimità dell’ordinanza, depositavano il provvedimento comunale del 18 settembre 2020, che estendeva la durata della concessione demaniale marittima fino al 31 dicembre 2023. Secondo la prospettazione degli appellanti, la proroga della concessione avrebbe dovuto comportare la cessazione della materia del contendere, essendo di per sé idonea a soddisfare integralmente le pretese fatte valere in giudizio. Di contro, l’Amministrazione eccepiva “soltanto” la parziale improcedibilità del ricorso in appello, a causa dell’intervenuta proroga della concessione.

I giudici di Palazzo Spada, nella sentenza in commento, ritengono di dover decidere su questo punto in via preliminare rispetto all’esame del merito delle censure. La sentenza, dunque, passa a ricostruire da un punto di vista teorico quali presupposti possano essere alla base della cessazione della materia del contendere e quali alla base dell’improcedibilità del ricorso. Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, deve essere pronunciata la cessazione della materia del contendere allorquando un provvedimento sopravvenuto realizzi pienamente l’interesse sostanziale sotteso alla proposizione dell’azione giudiziaria. Per converso, dovrà dichiararsi l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse qualora un atto amministrativo successivo attui un assetto di interessi inoppugnabile, ostativo alla realizzazione dell’interesse (sostanziale) del ricorrente. In entrambi i casi, o perché l’interesse si sia già realizzato, o perché ne sia divenuta impossibile la realizzazione, la prosecuzione del giudizio risulta comunque inutile.

Tuttavia, nel caso concreto sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, l’avvenuta proroga della concessione demaniale marittima non tange l’oggetto del giudizio, dal momento che il profilo attinente alla durata della concessione e quello relativo alla conformità edilizia-urbanistica sono del tutto distinti. La proroga della concessione demaniale non è dunque atto idoneo a far venir meno una sanzione urbanistica; semmai, invece – e puramente in astratto – potrebbe riconoscersi un’interferenza della proroga con il tema della possibile decadenza della concessione. Il relativo provvedimento conclusivo, però, non è ancora stato attuato, essendo soltanto stato comunicato l’avvio del relativo procedimento.

In ogni caso, il Consiglio di Stato evidenzia come la proroga della concessione disposta dal Comune non possa produrre l’effetto prospettato di eliminare il provvedimento sanzionatorio, in quanto da considerarsi, tra l’altro, tamquam non esset, in applicazione dei principi enunciati dalla sentenza 9 novembre 2021, n. 17, dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Le norme legislative nazionali dispositive di proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative, come noto, sono state infatti dichiarate in contrasto con il diritto euro-unitario: il principio è applicabile anche per la previsione di proroga ex lege contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14 (legge di conversione del c.d. Milleproroghe).

Solo una volta risolta la suddetta questione preliminare, allora, i giudici di Palazzo Spada passano ad esaminare il merito del ricorso, giungendo in estrema sintesi a confermare l’ordinanza repressiva, in quanto le opere dello stabilimento balneare erano state effettivamente realizzate in difformità o in assenza dei titoli abilitativi.

A prescindere da tale conclusione, tuttavia, la sentenza si rivela estremamente interessante proprio in quanto, ancorché in via puramente incidentale, contiene delle significative precisazioni sul destino delle concessioni balneari. Il Supremo Consesso Amministrativo ha infatti avuto l’occasione per tornare a pronunciarsi sul tema delle proroghe delle concessioni balneari, all’avvento dell’attesa data del 1° gennaio 2024: questo termine avrebbe dovuto segnare idealmente un vero e proprio spartiacque. Le sentenze gemelle del Consiglio di Stato nn. 17-18 del 2021 avevano infatti differito a tale momento gli effetti della disapplicazione della normativa anticomunitaria, per dare al legislatore il tempo di operare una revisione organica della materia. Come noto, invece, tale tempo non è stato utilizzato fruttuosamente; anzi, il Governo ne chiede ora di ulteriore, invocando l’applicazione delle proroghe tecniche, fino a tutto il 2024 in via generale e fino al 2025 in caso di ragioni oggettive, introdotte nel Milleproroghe. Dall’esame della pronuncia del Consiglio di Stato traspare dunque nettamente quale sarà l’orientamento della giurisprudenza per il futuro: le proroghe dovranno essere disapplicate, senza eccezioni. La sentenza offre pertanto un prezioso contributo chiarificatore, in un settore nel quale permane un’estrema incertezza e in cui la ricostruzione del diritto applicabile rimane un’operazione assai complessa.

11. L’ASSEGNAZIONE DEL DIRITTO DI PRELAZIONE NELLA FINANZA DI PROGETTO: A CHE PUNTO SIAMO? di Antonio Iuliano

Il diritto di prelazione riconosciuto al soggetto promotore di un’iniziativa di Finanza di progetto è indubbiamente uno dei temi che, sin dall’ingresso dell’istituto nel nostro ordinamento, più ha fatto discutere. Si è dibattuto, e si dibatte, in particolare, circa la compatibilità dell’istituto con i principi, di derivazione eurounitaria, di libera concorrenza e di par condicio fra concorrenti.

Prima di focalizzarsi sui più recenti approdi giurisprudenziali, è opportuno soffermarsi sui principali profili di criticità della disciplina attualmente in vigore. Anzitutto, l’attribuzione al soggetto promotore del diritto di prelazione scoraggia la partecipazione alla fase di gara di altri operatori economici, consapevoli delle poche chance di “effettivo” successo, in particolar modo ove si considerino i costi da sostenere al fine di presentare un’offerta; e non vale a superare tale rilievo la previsione codicistica (Art. 193, comma 8 del D. lgs. 36/2023) di un rimborso -nei limiti del 2,5% del valore totale dell’investimento- delle spese sostenute dall’aggiudicatario originario.

Nondimeno, il Consiglio di Stato, all’interno della propria relazione allo schema di Codice -richiamando la posizione della Commissione europea- aveva rilevato come il diritto di prelazione scoraggi la partecipazione alle gare da parte degli operatori economici di altri paesi europei a causa della poca familiarità con l’istituto.

Tra gli altri profili di criticità rilevati vi è, inoltre, il rischio di incentivare comportamenti opportunistici, quale quello di operatori economici che partecipino alla gara -consapevoli che il promotore eserciterà il diritto di prelazione- al solo fine di presentare offerte eccessivamente al ribasso e, di conseguenza, ridurre al minimo i profitti del promotore. Ciò rischia, evidentemente, di incidere negativamente sulla qualità della costruzione e gestione delle opere, su cui si riverserebbero gli effetti negativi dell’eccessiva riduzione dei prezzi. In definitiva, così, a pagarne i costi sarebbe la collettività.

Il diritto di prelazione, come noto, è legato alla struttura bifasica della Finanza di progetto: la prima di dichiarazione del pubblico interesse del progetto e, di conseguenza, di attribuzione del diritto di prelazione al promotore; la seconda di messa a gara del progetto precedentemente individuato. L’importante vantaggio riconosciuto al promotore fa si che, in presenza di più proposte riguardanti la medesima opera, possa accadere che la vera competizione tra operatori economici si abbia durante la prima fase. Ciò, ad esempio, è possibile che accada con una certa frequenza ove l’ente concedente, ai sensi dell’art. 193, comma 11 del nuovo Codice, solleciti i privati a farsi promotori di iniziative di Finanza di progetto volte a realizzare progetti inclusi negli strumenti di programmazione triennale di cui all’art. 175, comma 1.

In tale scenario, offrono utili spunti alcune recenti pronunce della giurisprudenza amministrativa ed eurounitaria; il riferimento corre, in particolare, alla sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 1443/2024 dello scorso 13 febbraio pronunciata sulla scorta di quanto statuito dall’ordinanza del 12 dicembre 2023 dell’ottava sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, adita in via pregiudiziale.

Nel caso di specie, in relazione al servizio da realizzare, erano pervenute al Comune di Trieste più proposte di Finanza di progetto a iniziativa privata. Tra queste proposte vi era quella della società ricorrente che lamentava, per ciò che qui interessa, la violazione del termine di conclusione del procedimento (90 giorni, così come previsto dall’art. 183, co. 5 del d. lgs. 50/2016 e confermato anche nel nuovo codice), decorso il quale, ad avviso del ricorrente, si sarebbe fuoriusciti dallo schema procedimentale semplificato, con conseguente necessità di indire una gara (con ciò che ne consegue in termini procedurali e criteri di scelta del soggetto vincitore). Il Consiglio di Stato, in relazione alla controversia in questione, aveva già rilevato con la sentenza non definitiva 5184/2023 del 26 maggio 2023 come il decorso del termine rilevi esclusivamente ai fini di un’eventuale azione avverso il silenzio della P.A e aveva chiarito che la fase di scelta del promotore, non essendo un modulo di confronto concorrenziale, è connotata da amplissima discrezionalità.

Il ricorrente aveva, peraltro, sollecitato la rimessione alla Corte di giustizia  di una questione di pregiudizialità – poi sollevata con Ordinanza n. 5615/2023 – avente ad oggetto la compatibilità del diritto di prelazione con i principi e la disciplina eurounitaria. Più precisamente si chiedeva: «Se l’articolo 183, comma 15, del decreto legislativo n. 50/2016 (il quesito fa riferimento alla vecchia disciplina codicistica ma, essendo la disciplina sostanzialmente invariata, rileva anche in relazione al nuovo Codice dei contratti pubblici, ndr) è contrario al diritto UE e in particolare ai principi di pubblicità, imparzialità e non discriminazione contenuti sia nel Trattato che nei principi UE, propri di tutte le procedure comparative, laddove interpretato così da consentire trattamenti discriminatori in una procedura di attribuzione del diritto di prelazione, senza predefinizione dei criteri e comunque senza comunicazione dei medesimi a tutti i concorrenti ma solo ad alcuni di essi, quanto meno al decorso dei tre mesi di urgenza previsti da tale articolo».

La Corte di giustizia, come accennato, si è pronunciata con Ordinanza del 12 dicembre 2023, con cui ha dichiarato manifestamente irricevibile la questione pregiudiziale in quanto l’ordinanza di rinvio era carente dei requisiti minimi necessari, ossia l’illustrazione del contesto di fatto e di diritto della controversia oggetto del procedimento principale e l’indicazione delle ragioni della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui si chiede l’interpretazione, nonché del collegamento tra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia.

Più precisamente, l’ordinanza della CGUE ha rilevato come l’ordinanza di rinvio non fornisse elementi sufficienti a valutare se l’aggiudicazione della concessione oggetto del procedimento principale rientrasse nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione o della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno. In particolare, non indicava il valore stimato della concessione rendendo impossibile valutare se superasse la soglia prevista per l’applicabilità della direttiva 2014/23.

La Corte ha aggiunto, poi, che se è vero che ai fini dell’assegnazione di concessioni di servizi le autorità pubbliche sono tenute a rispettare le norme di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE, relative al diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi – e che pongono, in materia, i principi di parità di trattamento e non discriminazione, nonché l’obbligo di trasparenza – le informazioni fornite dal giudice del rinvio non consentivano di stabilire se, non rientrando nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/23 o della direttiva 2006/123, la concessione di cui trattasi nel procedimento principale potesse essere disciplinata da dette norme. Ai fini di tale esame, ad avviso della CGUE spetterebbe al giudice del rinvio accertare l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo (accertamento assente nell’ordinanza di rinvio).

Al contrario, a fronte di tali mancanze, il giudice a quo -sottolinea la Corte- rileva espressamente che, a suo avviso, la scelta effettuata dall’amministrazione nell’ambito della prima fase di una procedura di finanza di progetto non è «un modulo di confronto concorrenziale sottoposto al principio delle procedure di evidenza pubblica».

Sulla scorta di quanto rilevato, dunque, la Corte di giustizia non si è pronunciata sulla questione; trattasi, probabilmente, dell’ennesima occasione mancata. Ciononostante, le indicazioni della Corte possono senz’altro essere considerate utili ai fini di un’eventuale futura riproposizione della questione.

Intanto bisognerà continuare a fare riferimento all’ormai consolidata posizione del Consiglio di Stato, ribadita dalla sopra richiamata sentenza 1443/2024, che fornisce un quadro generale della materia nei termini di seguito riportati. La fase preliminare di individuazione del promotore, ancorché procedimentalizzata, è connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, in quanto intesa non già alla scelta della migliore tra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche, l’accoglimento della proposta formulata dall’aspirante promotore. A detta fase, dunque, non si attaglia la predeterminazione di criteri di valutazione, che presuppone quantomeno l’esatta definizione dell’oggetto del procedimento e, dunque, della proposta. Anche in detta fase, tuttavia, proprio perché connotata da amplissima discrezionalità, e ciononostante procedimentalizzata, si impone l’applicazione dei principi generali dell’attività amministrativa, in primis di pubblicità e trasparenza, nonché di non discriminazione e parità di trattamento, in quanto funzionale alla migliore cura dell’interesse pubblico, laddove consente di ampliare il novero delle proposte tra le quali scegliere il project financing da accogliere. Da tutto quanto premesso discende che la fase preliminare pur non dovendo essere assoggettata al rispetto di tutti i principi dell’evidenza pubblica – pena la inutile e gravosa duplicazione della procedura di gara vera e propria, che potrà o meno seguire alla scelta del promotore – deve comunque essere improntata al rispetto dei principi generali dell’attività amministrativa, in primis di pubblicità e di trasparenza, nonché di non discriminazione e di parità di trattamento tra tutti gli operatori economici interessati. Le esposte considerazioni inducono la Sezione a ritenere che la disciplina interna non violi i principi eurounitari in quanto l’ampia discrezionalità di cui gode la PA in questa particolare fase comporta che la valutazione circa la maggiore rispondenza all’interesse pubblico di una proposta progettuale rispetto ad un’altra, ossia la comparazione tra due proposte progettuali alternative, debba essere condotta in termini necessariamente globali e sintetici. Dal che discende che la preferenza di un progetto rispetto ad un altro va accordata valutando il medesimo nel suo complesso senza necessariamente soffermarsi, in modo parcellizzato, sui suoi singoli aspetti (come nel caso di specie pretendeva, invece, l’appellante).

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