Lab-IP

LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 6/2023

18/09/2023

Indice:

1. AFFIDAMENTI DIRETTI A SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE: IL CASO HERA S.P.A. di Elena Valenti

2. DIRITTO DI PRELAZIONE NELLA FINANZA DI PROGETTO E TUTELA DELLA CONCORRENZA: UN DIBATTITO MAI SOPITO di Antonio Iuliano

3. APPALTI VERDI: IL NUOVO PIANO D’AZIONE PER LA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE di Giulia Moscaroli

4. SCARSE MA NON TROPPO: RIFLESSIONI SULLA PRESUNTA ABBONDANZA DELLE SPIAGGE ITALIANE di Andrea Nardone

1. AFFIDAMENTI DIRETTI A SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA QUOTATE: IL CASO HERA S.P.A. di Elena Valenti

Il Consiglio di Stato, con sentenza del 19 luglio 2023, n. 7079/2023, ha disposto l’annullamento del contratto di affidamento diretto per la gestione del servizio pubblico di illuminazione stipulato tra il comune di Modena e la società derivante dalla fusione tra Meta S.p.A. e Hera S.p.A.

Il caso ha origine dai progetti Modena Pensa Led e Modena Full Led, comprendenti il risanamento e l’innovazione del servizio pubblico. Con delibera consiliare n. 252 del 19 dicembre 1996 il comune di Modena aveva approvato la costituzione di Meta S.p.A., società a partecipazione pubblica, il cui oggetto sociale comprendeva la gestione di reti di illuminazione pubblica. In particolare, Meta S.p.A. risultava affidataria in house del servizio di illuminazione pubblica fino al 2027, con possibilità di rinnovo. Successivamente, nel 2003, Meta S.p.A. è stata quotata nel mercato regolamentato ed è stata poi oggetto di fusione per incorporazione con Hera S.p.A, società privata multiutility anche essa quotata in borsa, partecipata dal Comune. La fusione era avvenuta direttamente e senza gara pubblica. A seguito della fusione, anche il servizio di illuminazione pubblica era oggetto di affidamento diretto a Hera S.p.A. Quest’ultima aveva poi ceduto a una sua controllata, Hera luce S.r.l., il ramo d’azienda costituito da tutti gli affidamenti, incluso quello relativo al servizio di illuminazione del Comune di Modena.

Una società milanese, City Green S.r.l., ha dunque presentato ricorso al giudice amministrativo, sostenendo l’illegittimità dell’affidamento diretto a Hera S.p.A. Con sentenza del 18 gennaio 2023, n. 18, il Tar Emilia-Romagna, sezione II, ha accolto il ricorso, disponendo la cessazione del contratto. Nei confronti della sentenza del Tar hanno proposto appello al Consiglio di Stato sia il Comune di Modena, sia la società Hera S.p.A.

Il Consiglio di Stato, innanzitutto, ha osservato che la materia degli affidamenti diretti a società a partecipazione pubblica quotate è disciplinata dall’art. 34, comma 22, del d.l. n. 179/2012 (successivamente convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221). La disposizione si compone di due periodi. Il primo ammette la prosecuzione fino a scadenza naturale degli affidamenti diretti avvenuti fino al 31 dicembre 2004 a società a partecipazione pubblica già quotate in mercati regolamentati e a quelle da esse controllate alla medesima data. Il secondo periodo dispone che gli affidamenti diretti a società poste, successivamente al 31 dicembre 2004, sotto il controllo di società quotate a seguito di operazioni societarie effettuate in assenza di procedure conformi ai principi europei applicabili allo specifico affidamento, cessano improrogabilmente il 31 dicembre 2018 e senza necessità di apposita delibera da parte dell’ente.

In particolare, l’affidamento è stato considerato illegittimo dai giudici per violazione dell’art. 34, comma 22 del d.l. n. 179/2012, nonché dei principi di libera concorrenza e imparzialità, delle norme contenute nel d. lgs. n. 50 del 2016 e delle norme europee in materia di libera circolazione dei servizi e libertà di stabilimento. I giudici di palazzo Spada hanno stabilito che in seguito alla fusione di Meta in Hera vi sia stato sostanzialmente un nuovo affidamento, che avrebbe dovuto comportare l’indizione di una gara ad evidenza pubblica.

Secondo gli appellanti, alla fattispecie in esame si applicherebbe il primo periodo della disposizione, che ammette la prosecuzione fino a scadenza naturale del contratto, sul presupposto che l’atto di diritto privato, cioè la fusione, non avesse alcun rilievo ai fini dell’affidamento. Tra i motivi di gravame, infatti, vi era la considerazione che Meta S.p.A. fosse stata quotata in borsa antecedentemente al 2004, e dunque il contratto avrebbe dovuto considerarsi valido fino alla conclusione prevista. Inoltre, l’indizione di una gara pubblica avrebbe leso l’affidamento dei risparmiatori che avevano a suo tempo investito in Meta S.p.A. sul presupposto che quest’ultima fosse titolare dell’affidamento fino al 2027.

I giudici di palazzo Spada, al contrario, hanno specificato che la norma deve essere letta nella sua interezza e il principio evidenziato dagli appellanti trova un limite applicativo proprio nelle ipotesi previste all’ultimo periodo della disposizione, in presenza delle quali la prima parte della disposizione diviene soccombente. Ne deriva che il contratto tra il comune di Modena ed Hera S.p.A. è da qualificarsi come un illegittimo affidamento diretto. 

Secondo il Consiglio di Stato, al fine di stabilire se si possa applicare l’art. 34 comma 22, che dispone la rideterminazione massima degli affidamenti diretti, non è rilevante in alcun modo che la quotazione sia avvenuta prima del 2004, in quanto l’operazione societaria ha comportato la creazione di un soggetto terzo.

Sembra utile considerare anche che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 12 maggio 2022, n. C/719/2020, si è espressa in materia, stabilendo il principio per cui nelle ipotesi di appalto pubblico senza indizione di gara, qualora avvenga un’acquisizione di un operatore economico da parte di un terzo, tale evento comporta una modifica delle condizioni fondamentali dell’appalto che necessita di indire una nuova gara.

La sentenza in esame ha consentito al Consiglio di Stato di rispondere al quesito insito nei motivi di gravame circa il conferimento dei rami d’azienda relativi alla gestione di servizi pubblici, che secondo i ricorrenti non avrebbe comportato alcuna cessione della titolarità degli affidamenti, in quanto la società che gestisce il servizio pubblico rimarrebbe sempre la medesima.

Il Consiglio di Stato si è espresso ribadendo che il rapporto tra la controllata e la controllante non comporta il venire meno della caratteristica di alterità giuridica tra gli operatori, comportando il subentro nella gestione del servizio di un soggetto terzo. Tale subentro comporta l’obbligo per la stazione appaltante di indire una nuova gara al fine di rispettare i principi sovranazionali e nazionali in tema di libera concorrenza, non discriminazione e parità di trattamento.

In conclusione, è possibile mettere in evidenza che gli atti di diritto privato previsti dall’ordinamento, quali fusioni, cessioni di rami d’azienda o incorporazioni, non possono in alcun modo diventare uno strumento per eludere i principi cardine che regolano lo svolgimento delle gare d’appalto e delle procedure di affidamento diretto.

Le norme a tutela delle società a partecipazione pubblica quotate devono inoltre essere lette nella loro interezza, senza possibilità di considerare le parti di cui si compone la disposizione in modo autonomo, al fine di consentirne una applicazione al caso di specie. La legittimità degli atti di diritto privato di cui si serve l’affidatario di un servizio pubblico non è messa in discussione dalla giurisprudenza in alcun modo, ma comporta una nuova valutazione di compatibilità con le norme a tutela degli operatori economici.

2. DIRITTO DI PRELAZIONE NELLA FINANZA DI PROGETTO E TUTELA DELLA CONCORRENZA: UN DIBATTITO MAI SOPITO di Antonio Iuliano

Il diritto di prelazione, nell’ambito della Finanza di progetto, consiste nel vantaggio attribuito al soggetto promotore di divenire aggiudicatario – nel caso in cui già non lo sia all’esito della gara – adeguando la propria offerta a quella risultata vincitrice. L’istituto, sin dalla sua prima introduzione, risalente alla Legge Merloni quater (L. 166/2002), ha suscitato dubbi circa la compatibilità con il diritto di formazione eurounitaria, con particolare riferimento alla tutela della concorrenza. Da ultimo, nei mesi scorsi si è pronunciato il Consiglio di Stato rimettendo la questione alla Corte di giustizia.

Come accennato, l’istituto è stato oggetto di discussione sin dal suo ingresso all’interno del nostro ordinamento, tanto da portare la prima giurisprudenza del Consiglio di Stato ad affermare, alla luce del peculiare vantaggio competitivo riconosciuto al promotore, la natura concorsuale della selezione delle proposte di pubblico interesse e la necessità di comparare le varie proposte presentate sulla scorta di criteri di giudizio positivi, uniformi, trasparenti e previamente determinati (v. Cons. St., Sez. V, 5 ottobre 2005, n. 5316).

L’apertura, ad opera della Commissione europea, di una procedura d’infrazione a carico dell’Italia, sulla scorta dei medesimi rilievi mossi dal Consiglio di Stato, ha portato nel 2007, dopo vari tentativi di correzione dell’istituto, all’abolizione dello stesso per il timore di una condanna da parte della Corte di giustizia, cui nel frattempo la questione era arrivata.

I giudici di Lussemburgo, tuttavia, con sentenza 21 febbraio 2008, C-412/04, alla luce di un argomento di carattere meramente processuale, hanno dichiarato irricevibili le censure proposte dalla Commissione; ciò ha portato alla reintroduzione dell’istituto ad opera del Terzo correttivo al Codice (d. lgs. 152/2008).

Il Codice dei contratti pubblici del 2016 (d. lgs. 50/2016) all’art. 183, co. 15 aveva confermato l’istituto della prelazione, lo stesso vale per il nuovo Codice (d. lgs. 36/2023), che prevede una disciplina sostanzialmente invariata.

Prima di analizzare le disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici (d. lgs. 36/2023), ai fini della comprensione dell’istituto è opportuno inquadrarlo all’interno della procedura di project financing.

Tale procedura ha una struttura bifasica, constando di una prima fase di individuazione del progetto di pubblico interesse e di scelta del promotore e di una seconda, successiva, fase di messa a gara del progetto precedentemente individuato. 

La procedura di gara (seconda fase), -avente finalità pro-concorrenziale- rischia di scoraggiare a monte l’iniziativa dei privati, esposti al rischio di svolgere un lavoro ad esclusivo vantaggio di altri (gli aggiudicatari), in particolare di potenziali concorrenti. L’attribuzione del diritto di prelazione è volto a ovviare a tale situazione

Il d. lgs. 36/2023, dopo aver previsto, all’art. 193, co. 4, che nel bando di gara debba essere disposto che il promotore possa esercitare il diritto di prelazione, al comma 8 definisce le modalità di esercizio di tale diritto.

Il promotore non aggiudicatario può esercitarlo, entro 15 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, impegnandosi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario.

Se non esercita la prelazione ha diritto al pagamento, a carico dell’aggiudicatario, delle spese per la predisposizione della proposta, comprensive dei diritti sulle opere di ingegno, nei limiti -tuttavia- del 2,5% del valore dell’investimento, come risultante dal progetto di fattibilità posto a base di gara.

Se invece il promotore esercita la prelazione, l’aggiudicatario originario ha diritto al pagamento, a carico del promotore, dell’importo delle spese documentate e sostenute per la predisposizione dell’offerta (sempre nei limiti del 2,5%).

Tali ultime previsioni sono evidentemente volte, da un alto, a limitare(compensare?) gli effetti anticoncorrenziali dell’istituto, dall’altro a incentivare la presentazione di proposte, tutelando il promotore in caso di mancata aggiudicazione.

E’ interessante sottolineare come il Consiglio di Stato, nel predisporre lo schema del nuovo Codice, avesse previsto, in alternativa al sistema della prelazione, quello dell’attribuzione di un punteggio premiale al soggetto promotore nel caso in cui ciò fosse previsto dallo strumento triennale di programmazione. Tale previsione è però scomparsa nel testo definitivo poi entrato in vigore.

Il Consiglio di Stato nella relazione allo schema non aveva mancato di sottolineare alcune criticità dell’istituto della prelazione, tra cui la scarsa partecipazione di concorrenti alla gara di attuazione a causa delle limitate possibilità di successo.

E’ in questo quadro che si inseriscono la sentenza (non definitiva) 5184/2023 del 26 maggio e l’ordinanza 5615/2023 del 7 giugno della V sezione del Consiglio di Stato. La controversia in questione origina dall’impugnazione di una delibera del Consiglio comunale di Trieste con cui è stata dichiarata la fattibilità tecnico economica, nonché l’interesse pubblico, di una proposta di project financing concernente la gestione del servizio di illuminazione pubblica, nonché una serie di servizi accessori. Oltre alla proposta oggetto della delibera, il comune di Trieste ne aveva ricevute altre, tra cui quella della società appellante, risultata seconda graduata nella procedura di scelta del promotore.

Tra le varie censure, respinte già in primo grado dal TAR Trieste, per quanto qui d’interesse, la società appellante recriminava la violazione del termine di conclusione del procedimento (90 giorni, così come previsto dall’art. 183, co. 5 del d. lgs. 50/2016 e confermato anche nel nuovo codice), decorso il quale, ad avviso del ricorrente, si sarebbe fuoriusciti dallo schema procedimentale semplificato, con conseguente necessità di indire una gara.

Il Consiglio di Stato, con la succitata sentenza (5184/2023), ha chiarito che il decorso del termine rileva esclusivamente ai fini di un’eventuale azione avverso il silenzio, in quanto posto a tutela del proponente, e che lo spirare dello stesso non è in alcun modo idoneo a mutare i caratteri della procedura.

La sentenza prosegue rilevando che la fase preliminare di individuazione del promotore, ancorché procedimentalizzata, è connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, in quanto diretta non alla scelta della migliore tra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico all’accoglimento della proposta di finanza di progetto.

Dunque, non si tratta di un modulo di confronto concorrenziale, in quanto tale sottoposto a procedure di evidenza pubblica; ciò tanto più ove si consideri che l’amministrazione, anche una volta dichiarato il pubblico interesse e individuato il promotore, non è tenuta a dare corso alla procedura di gara per l’affidamento della concessione (senza peraltro incorrere in responsabilità precontrattuale). Ne discende che alla fase di scelta del proponente non si addice la predeterminazione di criteri di valutazione, presupponente quanto meno la esatta definizione dell’oggetto del procedimento e dunque della proposta.

Resterebbe comunque fermo il necessario rispetto del principio di ragionevolezza. In questo caso, peraltro, il Comune di Trieste aveva enucleato all’interno della documentazione relativa alla procedura i criteri di valutazione seguiti nella scelta, potendosi facilmente escludere anche l’esercizio irragionevole della discrezionalità.

L’appellante, in subordine all’accoglimento del ricorso, aveva sollecitato la rimessione alla Corte di Giustizia della questione pregiudiziale circa la compatibilità dell’istituto con i principi e le norme eurounitarie poste a tutela della concorrenza. Il collegio, pur non ravvisando alcuna incompatibilità con il diritto eurounitario, alla luce della pertinenza e della rilevanza, nonché dell’assenza delle altre eccezioni che lo esenterebbero -essendo dunque obbligato- con l’ordinanza 5615/2023 ha  sottoposto  alla CGUE la seguente questione pregiudiziale: “Se l’art. 184 (rectius 183, ndr), comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 è contrario al diritto UE e in particolare ai principi di pubblicità, imparzialità e non discriminazione contenuti sia nel Trattato che nei principi UE, propri di tutte le procedure comparative, laddove interpretato così da consentire trattamenti discriminatori in una procedura di attribuzione del diritto di prelazione, senza predefinizione dei criteri e comunque senza comunicazione dei medesimi a tutti i concorrenti ma solo ad alcuni di essi, quanto meno al decorso dei tre mesi di urgenza previsti da tale articolo”.

In attesa della pronuncia dei giudici di Lussemburgo, la vicenda in questione ci permette di trarre delle prime conclusioni.

Anzitutto il dibattito circa la compatibilità dell’istituto con la tutela della concorrenza è ancora vivo e acceso.

In secondo luogo, nonostante le non troppo velate critiche (sopra riportate) mosse all’interno della relazione allo schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, risulta molto interessante il netto cambio di paradigma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, facilmente rilevabile raffrontando la sentenza da ultimo citata con quella richiamata in apertura.

Tra le due, considerabili agli antipodi, quasi 20 anni di dibattiti e pronunce.

3. APPALTI VERDI: IL NUOVO PIANO D’AZIONE PER LA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE di Giulia Moscaroli

A seguito delle modifiche normative intervenute in materia di appalti pubblici verdi con l’approvazione del nuovo Codice dei Contratti Pubblici (d. lgs. 31 marzo 2023, n. 36), è stato predisposto un nuovo Piano d’Azione Nazionale per la sostenibilità dei consumi nel settore della pubblica amministrazione (c.d. PAN GPP).

Il Piano è stato adottato con Decreto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica del 3 agosto 2023. A partire dal 21 agosto 2023, data di entrata in vigore del provvedimento, è stato sostituito il precedente Piano d’Azione, il quale era stato adottato con Decreto 11 aprile 2008 del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e successivamente revisionato in data 11 aprile 2013.

Lo scopo del nuovo Piano è promuovere gli appalti pubblici verdi (c.d. Green Public Procurement – GPP), i quali costituiscono l’anello di congiunzione tra produzione e consumo e sono lo strumento strategico per attuare l’Obiettivo n. 12 dell’Agenda 2030 dell’ONU (produzione e consumo sostenibile).

Il provvedimento delinea una cornice di riferimento aggiornata della politica nazionale in materia di appalti pubblici verdi, inquadrandola nell’ambito dei più recenti atti di indirizzo dell’Unione Europea e interventi legislativi nazionali, tra i quali anche l’adozione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Quest’ultimo, infatti, costituisce un’opportunità significativa per implementare l’utilizzo degli appalti verdi, i quali possono contestualmente rispondere sia alla necessità di soddisfare i bisogni socio-economici, sia all’esigenza di dar vita a nuovi cicli virtuosi, in grado di contribuire alla transizione digitale e verde della società.

Occorre all’uopo definire quando un appalto possa essere definito «verde». Si tratta di una locuzione che non descrive un particolare tipo di appalto, ma ricomprende una serie di strumenti eterogenei finalizzati a propiziare la convergenza tra l’interesse principale oggetto dell’appalto e l’interesse alla tutela dell’ambiente. Tali strumenti, secondo la dottrina, possono essere identificati sulla base di due requisiti: il primo, di natura oggettiva, riguarda l’inerenza a una o più fasi di una procedura di evidenza pubblica, mentre il secondo, di natura teleologica, consiste nella finalizzazione a perseguire obiettivi di tutela dell’ambiente. Nonostante la difficoltà di fornire una definizione unitaria, il nuovo Piano opportunamente ricorda che l’istituto degli appalti verdi va ricondotto all’art. 57, co. 2, del Codice dei Contratti Pubblici, per effetto del quale sono riconfermate obbligatorie, nella documentazione progettuale e di gara, le specifiche tecniche e le clausole contrattuali dei Criteri Ambientali Minimi (CAM). L’appalto, inoltre, è verde quando l’aggiudicazione è prevista con l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’art. 108, co. 4 e 5, sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo o sulla base dell’elemento relativo al costo, laddove si tengano in considerazione i criteri premianti relativi ai criteri ambientali.

Gli appalti pubblici verdi sono stati definiti anche dalla Commissione Europea come lo strumento di politica ambientale in base al quale «le amministrazioni pubbliche integrano i criteri ambientali in tutte le fasi del processo di acquisto, incoraggiando la diffusione di tecnologie ambientali e lo sviluppo di prodotti validi sotto il profilo ambientale, attraverso la ricerca e la scelta dei risultati e delle soluzioni che hanno il minore impatto possibile sull’ambiente lungo l’intero ciclo di vita».

Il nuovo Piano d’Azione mira a garantire una governance della strategia nazionale in materia di contratti pubblici in grado di coinvolgere soggetti, istituzionali e non, ed esperti, al fine di rendere comuni le competenze di attuazione dei CAM. Punta, inoltre, a rendere più efficiente e partecipato il processo di definizione dei CAM e a erogare una formazione diffusa ed efficace alle stazioni appaltanti e alle imprese, individuando percorsi formativi adeguati.

Per quanto riguarda gli obiettivi ambientali che devono essere rispettati nella definizione dei CAM, il Piano intende promuovere la mitigazione dei cambiamenti climatici, la transizione verso un modello di economia circolare e la riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo.

Al contempo, nella predisposizione dei CAM, è necessario prestare attenzione anche ad altri aspetti ambientali che, pur non essendo direttamente connessi agli obiettivi ambientali principali summenzionati, sono indispensabili per salvaguardare l’ambiente e la salute umana, tra i quali l’inquinamento acustico e luminoso.

L’applicazione dei criteri ambientali e sociali è fondamentale per guidare la pubblica amministrazione nella selezione di prodotti e servizi di migliore qualità, anche sotto il profilo di eco-design, non in funzione del loro minor prezzo, ma del giusto prezzo rispetto alle caratteristiche qualitative.

Il Piano evidenzia l’importanza del ruolo del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA) in merito all’attività di supporto tecnico fornita agli enti territoriali per la redazione di studi finalizzati a valutare i benefici ambientali derivanti dall’applicazione dei CAM e di altri eventuali criteri ambientali introdotti dalle stazioni appaltanti.

Il Piano chiarisce, infatti, la possibilità per le stazioni appaltanti di richiedere livelli prestazionali più elevati di quelli indicati nei decreti CAM e di inserire clausole ambientali anche in categorie di appalto non ancora oggetto di CAM.

Per quanto concerne le categorie di appalto oggetto di CAM, il Piano stabilisce che i Criteri sono definiti per diverse categorie di prodotti, servizi o lavori selezionate sulla base di quelle che sono oggetto di criteri di GPP europei e di altre etichettature ambientali e tenendo conto del volume di spesa pubblica, delle potenzialità di miglioramento ambientale, delle innovazioni ambientali settoriali e della possibilità che il settore di riferimento possa oggettivamente conseguire dei miglioramenti ambientali. La programmazione dei CAM sarà, infine, annuale.

Tra le altre novità, si segnala la ridefinizione del Comitato di gestione, al quale si intende attribuire un più robusto ruolo di supporto alle azioni di governance.

Tra le buone pratiche proposte alle stazioni appaltanti si riportano poi soluzioni, anche organizzative, che consentano di evitare sprechi di risorse naturali e finanziarie nella gestione dell’ente, utili anche a razionalizzare gli acquisti di beni o servizi.

Da ultimo, in un’ottica di ampliamento della partecipazione e del coinvolgimento degli attori territoriali, si propone di coinvolgere le associazioni di categoria e le Camere di Commercio in un Piano territoriale per l’attuazione del CPP predisposto dall’Ente regionale.

Si può in generale affermare che l’Italia, nel campo degli appalti pubblici verdi, vanti un quadro tecnico-giuridico piuttosto all’avanguardia per favorire la transizione ecologica. Nonostante l’importanza dell’istituto degli appalti verdi per il conseguimento di un’effettiva transizione ecologica e nonostante la compiutezza del quadro giuridico di riferimento, dai dati contenuti nel VI Rapporto dell’Osservatorio Appalti Verdi di Legambiente (presentato il 18 maggio 2023) è emersa una vera e propria battuta d’arresto nell’applicazione pratica dei Criteri Ambientali Minimi per quasi tutte le categorie merceologiche e in quasi tutte le pubbliche amministrazioni. Non è dunque ancora un «senso politico comune» che i Criteri Ambientali Minimi e il Green Public Procurement rappresentino lo strumento per creare un mercato per i prodotti e i servizi a basso impatto ambientale. Appare dunque necessario impegnarsi per diffondere l’utilizzo di tali istituti, intervenendo soprattutto nelle aree in cui l’applicazione degli stessi risulta difficile per mancanza di strumenti e di informazione. Gli appalti pubblici verdi costituiscono, difatti, lo strumento irrinunciabile per dare impulso al sistema economico del nostro Paese, tenendo al contempo in considerazione gli aspetti sociali, nonché quelli relativi all’ambiente e alla salute, in un’ottica di promozione dell’economia circolare.

4. SCARSE MA NON TROPPO: RIFLESSIONI SULLA PRESUNTA ABBONDANZA DELLE SPIAGGE ITALIANE di Andrea Nardone

Lo scorso 8 settembre si è riunito per la quarta volta dalla sua istituzione il Tavolo tecnico consultivo in materia di concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, con la finalità di fare il punto sullo stato di avanzamento dei suoi lavori. Tale Tavolo, composto dai rappresentanti dei ministeri competenti ratione materiae ad operare la riforma delle concessioni balneari di cui alla legge 5 agosto 2022, n. 118, nonché da esponenti delle regioni e delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative del settore, ai sensi dell’art. 10-quater, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2022, n. 198 (c.d. Milleproroghe), conv. con modificazioni dalla legge 24 febbraio 2023, n. 14, ha il compito di acquisire ed elaborare i dati relativi a tutti i rapporti concessori in essere delle aree demaniali marittime, lacuali e fluviali. Lo scopo è quello di definire i criteri tecnici per la «determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto sia del dato complessivo nazionale che di quello disaggregato a livello regionale, e della rilevanza economica transfrontaliera».

Determinare la sussistenza del requisito della «scarsità» delle spiagge italiane, in effetti, consentirebbe di stabilire una volta per tutte se, ai relativi affidamenti, debba trovare applicazione l’art. 12 della direttiva Bolkestein, il quale prevede la necessità del previo svolgimento di una procedura di gara imparziale e trasparente per il rilascio delle autorizzazioni. La questione della scarsità delle spiagge italiane, invero, è l’unica effettivamente lasciata aperta dalla sentenza Promoimpresa-Melis della Corte di Giustizia del 2016: i giudici di Lussemburgo, in quell’occasione, avevano rimesso il relativo accertamento al giudice nazionale.

Dunque, preliminarmente, conviene chiarire quand’è che una risorsa possa definirsi «scarsa». Alfine occorre evidenziare come, secondo le scienze economiche, una risorsa è scarsa quando essa non è disponibile per tutti gli usi con riferimento ai quali è richiesta. Tuttavia, secondo quest’accezione, ogni risorsa finirebbe automaticamente per essere considerata scarsa, per il sol fatto di non essere illimitata, con l’effetto di trasformare quello della «scarsità» in uno «pseudo-criterio», inidoneo a selezionare le autorizzazioni da rilasciare per il tramite di una gara ai sensi dell’art. 12 della direttiva Bolkestein.

Per neutralizzare l’applicazione di tale disposizione, così, le istituzioni italiane e la politica, nelle interlocuzioni con l’Unione Europea, hanno adoperato il leitmotiv dell’abbondanza del patrimonio costiero italiano. Quest’ultimo si protrae per oltre 7412 km nel mar Mediterraneo, presentando in gran parte coste basse e sabbiose; tale considerazione è senz’altro vera, ma è stata oltremodo valorizzata, tradendo un’errata impostazione del problema.

Innanzitutto, in termini assoluti, di quei 7412 km di coste solo un’esigua parte è effettivamente suscettibile di essere affidata in concessione. Devono infatti preventivamente essere escluse le aree che, per conformazione naturale o per ragioni di inquinamento, non risultano concedibili. Inoltre, a mente dell’art. 1, comma 254 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Legge finanziaria 2007), alle Regioni è conferito il compito, nella redazione dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo, di «individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili», potendo riservare una quota di demanio marittimo a spiaggia libera.

In ogni caso, è l’approccio al problema a risultare fallace. Infatti, il criterio della scarsità del bene naturale «spiaggia» non deve essere indagato con esclusivo riferimento ai suoi aspetti quantitativi, ma anche con riguardo ai suoi profili qualitativi. In altre parole, come hanno chiarito le sentenze 9 novembre 2021, n. 17 e n. 18 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la scarsità deve essere intesa in senso relativo, avendo riguardo all’unicità e alla differente vocazione turistica sottesa ad ogni concessione. Significativa, in tal senso, è pure l’indicazione proveniente dalla succitata pronuncia Promoimpresa-Melis della Corte di Giustizia, secondo cui la determinazione della scarsità delle risorse non deve avvenire già su base nazionale, ma su base comunale. In questo modo, la «scarsità» delle risorse viene predicata rispetto ad aree dalle caratteristiche qualitative omogenee.

Alla luce di tali considerazioni, la prospettiva di escludere l’applicabilità della direttiva Bolkestein all’esito di un’operazione di mappatura non appare né decisiva né lungimirante. Piuttosto, rinviare l’adozione della riforma delle concessioni balneari all’adempimento di un’opera di ricognizione dei beni demaniali sembra essere l’ennesimo tassello di una strategia dilatoria perpetuata dal nostro legislatore da ormai quasi quindici anni. In effetti, all’istituzione del nuovo Tavolo tecnico consultivo l’art. 10-quater del d.l. n. 198/2022 ss.mm.ii. ha fatto seguire la previsione di una nuova proroga, fino al 2025, delle concessioni in essere, sorretta proprio dalla giustificazione del nuovo adempimento, quasi a suffragio della serietà degli intenti del Governo.

Nondimeno, quanto sopra non revoca in dubbio l’utilità, ad altri fini, di un’operazione di mappatura dei beni del demanio. Una ricognizione del demanio pubblico, infatti, può avere il pregio di consentire una migliore conoscenza del patrimonio costiero italiano, rappresentando un adempimento pregiudiziale alla tutela ambientale dei suoi beni e consentendone una più approfondita valorizzazione economica.

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