INDICE
- 1. Discrezionalità e atipicità degli atti nell’esercizio dei poteri speciali: i casi Fibercop e Open Fiber di Matteo Farnese.
- 2. La terza via tracciata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in tema di risarcibilità del danno da mero ritardo di Giuditta Russo.
- 3. La relazione al Parlamento sull’esercizio dei poteri speciali: lo Stato doganiere alza la guardia di Tommaso di Prospero.
- 4. L’inconferibilita’ delle cariche di presidente di consorzio e societa’ in house. quando il mal funzionamento della pubblica amministrazione è estirpato alla radice di Eugenio Parisi.
- 5. “Una questione di diritto interno”. I rapporti tra Corte di Cassazione e Consiglio di Stato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Hogan a seguito dell’ordinanza 19598/2020 delle Sezioni Unite di Francesca Saveria Pellegrino.
- 6. La disciplina degli appalti pubblici nel quadro del PNRR: DL 77/2021 e ricorso al “metodo derogatorio” di Carlo Garau
1. Discrezionalità e atipicità degli atti nell’esercizio dei poteri speciali: i casi Fibercop e Open Fiber
A cura di Matteo Farnese
Tra gli aspetti più interessanti della disciplina relativa ai poteri speciali di cui al decreto-legge n. 21 del 2012 figurano senz’altro i margini di discrezionalità rimessi al Governo nella valutazione delle fattispecie esaminate e la gamma degli strumenti che lo stesso può esercitare. Per apprezzarne meglio la portata e le implicazioni, appaiono di particolare interesse due recenti casi, che si segnalano per il fatto di intervenire nello stesso settore, rispetto a fattispecie piuttosto simili, con soluzioni molto diverse, anche non normativamente previste: il caso FiberCop del 2020 e quello OpenFiber del 2021.
Nel caso FiberCop, il procedimento concerne la costituzione della società stessa da parte di Telecom Italia S.p.a., che scorpora il ramo d’azienda relativo alla rete secondaria in fibra e rame, aprendo il capitale al fondo americano KKR & Co., al quale cede al 37.5%. Nonostante il controllo venga esercitato da Telecom Italia (58%), alcuni importanti diritti sono stati previsti in capo all’investitore americano, nonché talune materie c.d. riservate, con specifiche maggioranze decisionali. L’amministrazione procedente è il MEF. Il Governo, con D.p.c.m. del 16 novembre 2020, decide di esercitare i poteri speciali imponendo specifiche prescrizioni al fine di limitare i poteri dell’azionista di minoranza in eventuali decisioni relative a progetti strategici di interesse pubblico nelle telecomunicazioni, oltre che a garanzia della sicurezza e del funzionamento della rete.
Nel caso OpenFiber, il procedimento in esame riguarda la vendita delle azioni possedute da Enel S.p.a. al gruppo australiano Macquarie, al quale cederà una partecipazione del 40%, mentre il 10% verrà acquistato da CDP Equity S.p.a., che arriverebbe così al 60%. All’investitore estero sarà riservato, inoltre, il potere di veto in ordine ad alcune decisioni strategiche tra cui, per esempio, l’approvazione del Piano Industriale aziendale. L’amministrazione procedente è il MEF. In questo caso il Governo, con il D.p.c.m. del 29 settembre 2021, decide di non esercitare i poteri speciali in quanto non ha ritenuto l’operazione rischiosa per la protezione degli interessi strategici nazionali, limitandosi a raccomandare la società a condividere con il MEF il nuovo Business Plan al fine di verificare il rispetto degli investimenti previsti nell’attuale Piano.
L’utilizzo della raccomandazione risulta particolarmente controverso. Mentre, nel primo caso, la garanzia del rispetto delle prescrizioni attuate dall’organo esecutivo è data dalle sanzioni previste in caso di violazione, la raccomandazione si configura come un atto atipico, non previsto dalla normativa di settore. Alcuni interrogativi si pongono in merito all’utilizzo di tale strumento: è un semplice invito o il Governo vuole tenere aperta la possibilità di intervenire? È coerente con la ratio e la disciplina del Golden Power o è un utilizzo improprio dello stesso per perseguire specifici obiettivi politici? Ragionamento analogo può essere svolto nei confronti delle prescrizioni imposte nel primo caso, non strettamente necessarie a perseguire le finalità proprie della disciplina di evitare un grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti.
Per analizzare con più completezza le operazioni il focus deve allargarsi fino a comprendere anche considerazioni in merito alla politica nazionale. Infatti, nonostante le operazioni siano state svolte ad un solo anno di distanza, il cambiamento nella composizione del Governo ha influito non poco sulla diversità delle soluzioni adottate. Ad agosto 2020 CDP Equity S.p.a. e Telecom Italia S.p.a. hanno sottoscritto un memorandum che indicava un possibile percorso per addivenire alla fusione tra OpenFiber e FiberCop, dando luogo a una rete unica. L’operazione di fusione richiederebbe maggioranze qualificate tali da rendere necessario, in entrambe le società, il consenso dell’investitore extra-UE. Il Governo Conte, fortemente sostenitore del progetto Rete Unica, impose delle prescrizioni per attenuare il potere di veto e impedire all’investitore estero di ostacolare le decisioni strategiche di interesse nazionale. Diversamente il Governo Draghi, tutt’altro che convinto della bontà del progetto, ha operato attraverso delle semplici raccomandazioni.
In conclusione, per quanto concerne i margini di discrezionalità, sembra che il Governo utilizzi i concetti giuridici indeterminati presenti nella disciplina per perseguire finalità di politica economica piuttosto che evitare un grave pregiudizio alla sicurezza della rete. Per quanto riguarda la gamma di strumenti esercitabili, questa sembra più ampia di quanto previsto nella normativa, ricomprendendo anche lo strumento della raccomandazione, che pur essendo formalmente non vincolante, lascia aperte le porte ad un intervento successivo dell’esecutivo in caso di violazione.
2. La terza via tracciata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in tema di risarcibilità del danno da mero ritardo
A cura di Giuditta Russo
Il caso in esame riguarda la richiesta di risarcimento del danno da ritardo procedimentale asseritamente subito da un privato.
Con la sentenza n. 243/2021, il CGARS, adito sulla questione, mette in luce l’esistenza di due orientamenti opposti in materia.
Secondo un primo orientamento, risalente alla tesi propugnata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7/2005, «il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, implica una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse e, di conseguenza, non è di per sé risarcibile il danno da mero ritardo».
Secondo l’opposta interpretazione, sostenuta in via minoritaria dalla giurisprudenza, il danno da ritardo mero sarebbe sempre e comunque risarcibile. A detta del Collegio, la tesi appena indicata sarebbe peraltro in progressivo declino, non già in ragione di un generale ripensamento in ordine alla dannosità del ritardo procedimentale (che invece costituirebbe una certezza ormai acquisita), ma in virtù di una più attenta analisi del quadro normativo. L’art. 2-bis, l. n. 241/1990, e l’art. 30 c.p.a. impongono infatti di verificare anche la sussistenza del dolo o della colpa dell’Amministrazione. Inoltre, l’affermazione teorica secondo cui il mero ritardo produce un pregiudizio (in quanto il tempo costituisce di per sé un valore) non esaurisce né risolve – ed anzi pone, con sempre maggior insistenza – il problema della quantificazione del danno che, in assenza di automatismi liquidatori legali, deve pur essere ancorata a dati obiettivi e percepibili (quali certamente sono la colpa e/o il dolo del soggetto accusato di aver provocato il danno, oltreché la valutazione della condotta del soggetto asseritamente leso).
Fra i due orientamenti giurisprudenziali estremi, il Collegio dà quindi atto di un terzo orientamento che va progressivamente emergendo e a cui ritiene di doversi conformare, secondo cui l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno da ritardo della p.a. non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo favorevole.
Deve invece fornirsi la prova, ex art. 2697 c.c., della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e quindi, in particolare, della presenza dei presupposti di carattere sia oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) che soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). Il mero superamento del termine fissato ex lege o per via regolamentare per la conclusione del procedimento costituisce pertanto indice oggettivo, ma non integra piena prova del danno. Il che esclude sia la soluzione dell’attribuzione automatica di un risarcimento, sia la soluzione diametralmente opposta, consistente nella necessità di fornire la prova (che talvolta potrebbe assumere i connotati di una sorta di probatio diabolica) della spettanza del bene della vita originariamente richiesto.
Fondamentale sul punto è l’assunto, recepito a pieno titolo dalla giurisprudenza maggioritaria, per cui la responsabilità da mero ritardo procedimentale della p.a. debba essere ricondotta nell’alveo della responsabilità extra-contrattuale. Tale affermazione sarebbe – a detta del Collegio – supportata da precisi riferimenti testuali emergenti dalle disposizioni vigenti in materia, quale l’art. 2-bis, l. n. 241/1990, che espressamente richiede la dimostrazione, da parte del soggetto che faccia valere la pretesa risarcitoria, della ingiustizia del danno subito «in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento» e l’art. 30, co. 4, c.p.a., che si riferisce anch’esso al danno che il ricorrente comprovi di aver subito a causa dell’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, riconducibile alla condotta dolosa o colposa dell’Amministrazione.
Ad avviso del Collegio, non vi è dubbio che sia proprio la lettura dei testi normativi sopra indicati a condurre alla composizione dialettica fra le due tesi interpretative riportate. Appare evidente, infatti, che con le disposizioni richiamate il legislatore abbia inteso sottolineare che il danno ipotizzato dalla normativa in esame va costruito – escluso qualsiasi meccanismo di imputazione automatica di responsabilità – come evento, cioè come conseguenza eziologicamente connessa alla condotta amministrativa; il che significa che il mero fatto giuridico del decorso del tempo non può essere ritenuto intrinsecamente (id est: in sé e per sé) dannoso, dovendo essere di volta in volta provato da colui che si ritiene danneggiato che la violazione delle norme sulla conclusione del procedimento abbia cagionato qualche percepibile danno.
Ciò significa, a ben guardare, non già – come sostengono i fautori della tesi più restrittiva – che possa essere risarcito esclusivamente il pregiudizio che si concreti nel (o che derivi dal) mancato conseguimento del cd. bene della vita al quale aspira il privato. Il privato può ben ottenere una sentenza che condanni l’Amministrazione al risarcimento per ritardo procedimentale, anche allegando e provando la sussistenza di un qualche danno che, seppur non coincidente con il mancato conseguimento del bene della vita richiesto, sia comunque obiettivamente percepibile ed eziologicamente connesso al ritardo, in termini – ad esempio – di perdita di chance o di compromissione di un interesse o diritto diversi da quello per il cui conseguimento si è avanzata l’istanza.
Proprio in tal senso è da considerarsi illuminante la normativa dettata dal legislatore al co. 1-bis dell’art. 2-bis, l. n. 241/1990, che, non a caso, utilizza correttamente la nozione di indennizzo, anziché quella di risarcimento, allorquando intende riferirsi al ristoro da accordare automaticamente al cittadino a fronte del mero ritardo.
L’orientamento cui il Collegio ritiene di aderire, secondo cui il risarcimento è conseguibile purché si provi rigorosamente la connessione eziologica fra il mero ritardo ed un qualche danno, si risolve, dunque, non già in una riesumazione della primigenia ricostruzione dogmatica secondo cui il danno da ritardo si identificherebbe in toto con la lesione dell’interesse pretensivo, con la conseguenza che la concessione del risarcimento presupporrebbe – sempre e comunque – l’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto, ma nella individuazione di un nuovo punto di equilibrio che risponda adeguatamente all’aspirazione ad un procedimento celere e che scongiuri, al tempo stesso, la costruzione di una anomala fattispecie di responsabilità obiettiva da mera condotta omissiva a contenuto più sanzionatorio che risarcitorio, incompatibile, per ciò stesso, con il paradigma aquiliano.
3. La relazione al Parlamento sull’esercizio dei poteri speciali: lo Stato doganiere alza la guardia
A cura di Tommaso di Prospero
L’esercizio dei poteri speciali per il controllo degli investimenti diretti esteri (c.d. golden power), disciplinato dal Decreto legge 15 marzo 2012, n. 21 ha visto notevoli estensioni e trasformazioni nello scorso anno 2020. I motivi di questo cambiamento nel quadro normativo sono da tracciarsi specialmente in due eventi che hanno avuto la maggiore risonanza. In primis, l’esercizio dei poteri speciali è stato pesantemente influenzato dall’impatto dirompente della pandemia da Sars-Cov-2 (“Covid-19”), che ha colpito in maniera particolare il nostro Paese. Ciò aveva portato all’estensione del perimetro golden power con il Decreto legge 8 aprile 2020, n. 23, (d’ora innanzi “D.l. Liquidità”), poi sostituito con i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 179 del 18 dicembre 2020 e n. 180 del 23 dicembre 2020. In tal senso, vista la situazione pandemica, già la comunicazione della Commissione del 26 marzo 2020 aveva invitato gli Stati membri ad «avvalersi appieno, sin da ora, dei meccanismi di controllo degli Investimenti Esteri Diretti per tenere conto di tutti i rischi per le infrastrutture sanitarie critiche, per l’approvvigionamento di fattori produttivi critici e per altri settori critici, come previsto nel quadro giuridico dell’UE». Ciò che ha influenzato le operazioni di screening degli investimenti diretti esteri è stato anche l’approvazione del Regolamento UE n. 452 del 2019 (il “Regolamento”), entrato pienamente in vigore in Italia dall’11 ottobre 2020, e che ha introdotto un quadro per la cooperazione e il controllo europeo in materia, spingendo (con notevole forza acceleratoria data dalla situazione di emergenza sanitaria) gli Stati membri a estendere il perimetro dei settori considerati «strategici» (lo stesso D.l. Liquidità operava un generico rimando all’art. 4 del Regolamento, poi ridefinito dai D.P.C.M. 179 e 180 del 2020).
L’impatto di questi cambiamenti normativi e fattuali viene rilevato anche in apertura della Relazione al Parlamento in materia di esercizio dei poteri speciali del 2020, presentata alle Camere il dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e comunicata alla Presidenza il 20 giugno 2021 (la “Relazione”). Tale Relazione si occupa, con cadenza ormai annuale, di riportare il quadro completo sull’esercizio dei poteri speciali (capitolo 3), nonché sulle modifiche normative che hanno inciso la materia (capitolo 1 e 2).
In riferimento all’attività svolta, numerose sono le considerazioni che possono essere fatte in questa sede. Come riporta la Relazione, le notifiche sulle operazioni sono in fortissima crescita dall’anno precedente: nel 2020 si contano 342 notifiche, comparate alle 83 riferibili al 2019, e alle 46 del 2017. Il trend di crescita del 2020 ha conosciuto un brusco aumento soprattutto a partire dal mese di aprile e maggio, in concomitanza con l’entrata in vigore del D.l. liquidità, che come anticipato poc’anzi aveva operato un rinvio all’art. 4 del Regolamento nell’estensione dei settori interessati dall’obbligo di notifica, rendendo transitoriamente applicabile la disciplina golden power alle operazioni anche da parte di investitori che risiedono nell’Unione europea. Tra i settori d’intervento più interessati, solo nel 2020, sono state 37 le notifiche riferibili alla difesa e la sicurezza nazionale (di cui all’art. 1 Decreto legge 15 marzo 2012, n. 21) e 19 quelle riferibili alla tecnologia 5g (art. 1-bis), mentre la grossa maggioranza, 286, sono riferibili al settore dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni e gli altri settori ricompresi nel Regolamento (art. 2). A nostro parere, questo rimando era già lesivo del principio di proporzionalità e soprattutto di trasparenza, essendo le disposizioni dell’art. 4 del Regolamento non configurabili senza precisazioni nel nostro assetto giuridico, tanto che il Governo ne ha individuato i limiti più precisamente in un secondo momento con i D.P.C.M. 179 e 180 del 2020, con un’estensione anche del settore finanziario a quello assicurativo e creditizio. Tale violazione dei principi dell’azione amministrativa potrebbe essere in qualche modo temperata dalla situazione di evidente emergenza pandemica, ma avrebbe forse richiesto un’attenzione più meticolosa ab initio, potendo tale estensione causare una eccessiva ingerenza dello Stato nel controllo degli investimenti esteri.
La Relazione si occupa poi di analizzare gli esiti di tali segnalazioni. Delle 342 notifiche: 2 sono state interessate dall’esercizio del potere di veto; 40 sono state oggetto di decreti del Presidente del Consiglio con l’imposizione di specifiche condizioni e prescrizioni; per 92 è stata predisposta la delibera di non esercizio dei poteri speciali (di cui 11 con raccomandazioni); altre 43 notifiche sono state concluse con la procedura semplificata ex art. 1, comma 1-bis del Decreto legge n. 21 del 2012, essendo operazioni infragruppo senza rilevata minaccia di grave pregiudizio per gli interessi nazionali. Per altre 154 notifiche non è stato esercitato nessun potere speciale essendo non rientranti nella disciplina. Delle due operazioni sottoposte a veto, si può rilevare come, dall’introduzione della disciplina nel 2012, l’esercizio di tale potere sia avvenuto solamente in tre occasioni, dunque rendendo il 2020 l’anno maggiormente interessato anche sotto tale profilo.
Successivamente la Relazione, per la prima volta dall’entrata in vigore del Regolamento, si dedica alla cooperazione europea sotto il profilo degli investimenti esteri diretti. Secondo il Regolamento, che lascia liberi gli Stati membri sui singoli provvedimenti di screening da adottare nelle proprie prerogative nazionali, istituisce dei meccanismi di cooperazione europea (artt. 6 e 7) e di controllo dei singoli provvedimenti (art. 3), nel bilanciamento della dicotomia tra la protezione dei diritti degli investitori garantita dall’art. 63 TFUE e la sempre più sentita esigenza di salvaguardare gli asset strategici. La cooperazione prevede l’obbligo di notifica alla Commissione e gli altri Stati membri degli investimenti che siano già oggetto di controllo nazionale, nonché la possibilità di ricevere raccomandazioni e pareri dalla stessa Commissione, anche su sollecitazione di altri Stati membri interessati dall’investimento. Tali pareri, se emanati dalla Commissione, dovranno essere presi in debita considerazione per la decisione finale e, qualora lo Stato membro se ne discosti, dovrà essere fornita adeguata motivazione, pena una possibile procedura d’infrazione. Dal punto di vista organizzativo, la Relazione rileva come sia stata istituito il c.d. «punto di contatto» presso il Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, competente per la coordinazione delle operazioni con le disposizioni del Regolamento. Dalla data della Relazione, l’Italia è uno dei cinque Stati membri ad aver attivato il meccanismo di cooperazione, notificando 20 operazioni, di cui 7 interessate dalle manifestazioni ai sensi dell’art. 6, para. 6 del Regolamento, con richiesta di informazioni supplementari da parte della Commissione in 6 di questi casi. Inoltre, l’Italia ha ricevuto la notizia di 34 operazioni di investimento, alcune delle quali (la Relazione non specifica in quale misura) già notificate dal Governo italiano.
In ultima analisi, occorrono alcune chiose conclusive in merito ai numeri che ci troviamo davanti, che potrebbero essere considerati lettera morta senza un ragionamento sistematico anche alla luce della normativa e di una lettura critica. Non si può non evidenziare come il numero di notifiche sia cresciuto a dismisura a seguito dell’introduzione del D.l. liquidità e dei decreti attuativi successivi. Ciononostante, poco meno di metà delle notifiche non ha avuto seguito, essendo irrilevanti per il quadro normativo secondo la valutazione degli organi competenti. Sembra evidente che gli investitori abbiano preferito segnalare le operazioni anche potenzialmente irrilevanti per evitare di incorrere in sanzioni o allungarne i tempi. Questo non può che derivare da un quadro normativo vago e incerto, dove l’esigenza di tutelare le infrastrutture e gli asset strategici in maniera maggioritaria rispetto agli anni scorsi risulta prevalente, mentre la tutela degli investitori e dell’apertura dei mercati è inevitabilmente recessivo. La disciplina dei poteri speciali non fa che rafforzare il suo grado di controllo con un ampliamento del perimetro che, alla luce dei dati risultanti dalla Relazione, potrebbe considerarsi lesivo del principio eurounitario di proporzionalità. Lo Stato non può che raffrontarsi con un mercato globalizzato e sempre più competitivo, dove la necessità di attrarre investimenti esteri diretti è imprescindibile, e richiede un intervento graduato nel quadro regolatorio alle strette necessità di sicurezza e di interesse nazionale, in un difficile ma fondamentale bilanciamento tra quest’ultime e il legittimo affidamento degli investitori.
In una prima analisi invece, il Regolamento sembra non aver avuto un impatto incisivo sul sistema di notifiche a livello europeo, anche considerato il numero estremamente esiguo di Stati membri che hanno partecipato all’attività di cooperazione. Vista la lunghezza delle procedure amministrative di attuazione che tale meccanismo potrebbe avere sugli altri Stati membri, ci si chiede se ciò sia dovuto solo a una fase ancora iniziale delle stesse. Il percorso di integrazione europea in materia di investimenti diretti esteri, partito dall’attribuzione della competenza esclusiva dell’Unione del Trattato di Lisbona del 2007, richiederà sicuramente nel tempo un accentramento dei poteri di scrutinio più pervasivo, che potrebbe favorire l’uniformità delle scelte di screening e il rispetto dei principi dell’Unione in materia di concorrenza e libera circolazione dei capitali, con riguardo a un interesse pubblico non più meramente nazionale, ma eurounitario.
4. L’inconferibilita’ delle cariche di presidente di consorzio e societa’ in house. quando il mal funzionamento della pubblica amministrazione è estirpato alla radice.
A cura di Eugenio Parisi
Con delibera n. 491 del 16 giugno 2021, l’Autorità nazionale anticorruzione ha disposto sulla presunta violazione del Dlgs 39/2013 e in particolare sull’articolo 7, ovvero sulle incoferibilità e incompatibilità di incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni ed enti privati in controllo pubblico.
L’inconferibilità è un mezzo indiretto di lotta alla corruzione e si esplica nella preclusione, permanente o temporanea, nel conferire incarichi a coloro che abbiano riportato condanne penali per reati contro la pubblica amministrazione, a soggetti che abbiano svolto funzioni o ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o ancora, svolto attività professionali a favore di questi ultimi e in fine, a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico.
Questo meccanismo vuole garantire l’integrità e l’imparzialità delle cariche dirigenziali degli enti amministrativi. Quindi preservarne il carattere di buon andamento della Pubblica amministrazione. In altri termini permette sostanzialmente di ridurre i pericoli connessi a situazioni favorevoli ad un “accordo corruttivo”.
Lo studio degli elementi dell’istituto permette di estrapolarne degli aspetti peculiari, in particolare la sua elasticità.
Da una parte è vero che l’inconferibilità è una barriera che impedisce l’entrata di tutti quei soggetti altrimenti problematici per il buon funzionamento della P.a. ma dall’altra, l’ordinamento cerca di garantire la qualità della dirigenza. Anche attraverso persone con un’esperienza politica alle spalle.
Qui interviene l’ANAC. L’articolo 16 del Dlgs 39/2013 stabilisce ai commi 1 e 2 che l’Autorità nazionale anticorruzione vigila sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici e degli enti di diritto privato in controllo pubblico, delle disposizioni della normativa sopracitata. Inoltre, assume anche poteri di ispezione e di accertamento degli incarichi.
Per di più, l’Autorità, su segnalazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, in particolare del Dipartimento della funzione pubblica, oppure d’ufficio, può sospendere la procedura di conferimento dell’incarico con un provvedimento autoritativo, contenente osservazioni sull’atto di conferimento dell’incarico. A ciò si aggiunge anche la possibilità di segnalare il caso alla Corte dei conti per l’accertamento di eventuali responsabilità amministrative.
La delibera del giugno 2021, porta l’Autorità a una analisi attenta e certosina degli elementi della fattispecie. In particolare, quelli di inconferibilità di soggetti che abbiano già ricoperto funzioni di indirizzo politico.
I fatti analizzati dall’Autorità sono due: il primo è l’attribuzione a un ex Assessore comunale la carica di Presidente del Consiglio d’Amministrazione del Consorzio controllato dal Comune stesso e dalla locale Università. La carica in Comune era terminata il 19 giugno del 2019, mentre l’incarico nel CdA veniva assegnato il 28 luglio 2020.
Una volta insediatosi, il presidente del CdA decide di non mantenere i poteri che, per legge e statuto, gli sono attribuiti delegando a tal scopo uno dei consiglieri del CdA. Spogliandosi delle sue facoltà, tra cui le prerogative connesse alla qualifica di datore di di lavoro, ovvero i poteri di firma e gestione di spesa, ad avviso dell’ANAC gli elementi di inconferibilità decadono automaticamente.
L’Autorità sottolinea però, che le deleghe non eliminano definitivamente la pendenza degli elementi di inconferibilità. Questi sono sostanzialmente “congelati”, e ciò significa che nel momento in cui le deleghe dovessero essere ritirate e i poteri tornati in capo al presidente del CdA, vi sarebbe l’intervento dell’ANAC, a causa della riemersione dell’inconferibilità.
Il secondo caso analizzato dall’Autorità è l’attribuzione ad un ex Consigliere regionale, della presidenza di ente di diritto privato a controllo pubblico.
La società in questione non è controllata dalla Regione di provenienza dell’ex Consigliere, tanto che, ad avviso dell’ANAC, non ci sarebbe inconferibilità.
L’Autorità nel prendere la sua decisione ha fatto un’opera di scomposizione delle norme di riferimento, ovvero del Dlgs 39/2013 e dell’articolo 2359 c.c. Se a una prima occhiata i casi evidenziati potevano sembrare delle inconferibilità in piena regola, l’Autorità evidenzia dei profili particolari, proprio in connessione ai profili di flessibilità dell’inconferibilità.
L’articolo 7 del Dlgs 39/2013, disciplina che a coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l’incarico, non possono essere conferiti: (…) d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con una popolazione superiore a 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione.
Ad una prima analisi, dunque, sembrerebbe la piena applicabilità al caso di specie. Lo statuto del Consorzio, però, con riferimento ai poteri del presidente del CdA, rimanda al Dlgs 81/2008, in particolare all’articolo 16, rispetto alle deleghe di funzioni. La norma stabilisce in particolare, che al delegato devono essere attribuiti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate, inoltre il trasferimento deve attribuire anche l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni attribuite.
La previsione normativa ha quindi permesso lo svuotamento dei poteri del presidente, con conseguente decadenza degli elementi di incoferibilità, e conseguente qualificazione meramente simbolica del presidente del CdA.
L’ANAC però sottolinea come, similmente al caso precedente, nel momento in cui le deleghe venissero ritirate, il presidente riacquisirebbe tutte le sue prerogative. Questo farebbe ipso facto riemergere i presupposti di incoferibilità e il necessario intervento dell’Autorità.
Il secondo caso deliberato dall’Autorità riprende sempre quanto previsto dall’art. 7 Dlgs 39/2013. Se non fosse che la Regione dove l’ex Consigliere aveva prestato mandato politico non ha né potere di nomina dei membri del CdA, né tanto meno prerogative di gestione dell’ente di diritto privato a gestione pubblica.
Dato l’imperfetto allineamento tra l’ente di provenienza dell’ex Consigliere e quello di destinazione, ad avviso dell’ANAC non possono sorgere elementi di inconferibilità.
Con la delibera in parola, dunque, l’Autorità ha analizzato nel detteaglio le peculiarità degli elementi costitutivi dell’inconferibilità, ribadendo la rilevanza dell’istituto delle inconferibilità e incompatibilità proprio nel tutelare concretamente l’imparzialità dell’amministrazione.
5. “Una questione di diritto interno”. I rapporti tra Corte di Cassazione e Consiglio di Stato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Hogan a seguito dell’ordinanza 19598/2020 delle Sezioni Unite
A cura di di Francesca Saveria Pellegrino.
La Corte di Cassazione nel settembre 2020, in dichiarato contrasto con la pronuncia n.6 del 2018 della Corte Costituzionale, mediante rinvio pregiudiziale alla CGUE, ha riportato al centro dell’attenzione la questione dei limiti e dell’ampiezza del sindacato delle Sezioni Unite su sentenze del Consiglio di Stato. Nello specifico, la Cassazione nei quesiti formulati al giudice europeo, chiede se non sia in contrasto con il diritto unionale in tema di effettività della tutela l’interpretazione restrittiva fornita dalla Consulta dell’ultimo comma dell’art.111 Costituzione italiana, con riferimento ai “motivi inerenti la giurisdizione” che non ammetterebbe il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato quando queste violino il diritto europeo, in particolare quello derivante da pronunce della corte di giustizia e nemmeno quando il giudice amministrativo di appello abbia omesso un doveroso rinvio pregiudiziale al giudice europeo. L’eco suscitata, non solo per il contenuto ma anche per i termini utilizzati dall’ordinanza (n. 19598 del 2020) ha riaperto un noto dibattitto e creato terreno fertile per riproporre negli innumerevoli commenti all’ordinanza, la vecchia questione mai del tutto risolta del nostro ordinamento che oggi potrebbe così riproporsi come quella che nel suo commento R. Bin ha definito la possibile “terza guerra tra le Corti”.
Ed invero, se da un lato il dettato costituzionale appare chiaro quando afferma che il ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice amministrativo è possibile solo per i motivi inerenti la giurisdizione, dall’altro orientamenti precedenti avevano teso ad adottare un’interpretazione amplia di tali limiti, a ciò aggiungendosi le questioni poste dalle numerose materie di giurisdizione esclusiva e l’esigenza di nomofilachia in materia di diritti soggettivi.
Con l’ordinanza in esame la Suprema Corte ha richiesto l’intervento della CGUE elevando così la questione su un piano internazionale e non limitandola più al tradizionale conflitto con il Consiglio di Stato, ma coinvolgendo anche il ruolo della Corte Costituzionale (da qui la definizione di Bin); e però a sedare le ambizioni di quanti, critici con l’arresto della Corte Costituzionale, auspicano una pronuncia della Corte di Giustizia che per tutelare il diritto comunitario si potrebbe allineare a quanto richiesto ora dall’ordinanza della Cassazione, sono intervenute il 9 settembre le conclusioni dell’Avvocato Generale Hogan.
Prima di tutto, muovendo dalla questione su cui si è innescata la vicenda, l’avvocato generale non ha mancato di sottolineare come il Consiglio di Stato stia facendo molta resistenza nel recepire i principi enunciati da una giurisprudenza ormai consolidata (sentenze Fastweb, Puligenica e Lombardi) della Corte di Giustizia in merito al rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale e come nel procedimento principale ne abbia sicuramente fatto un’applicazione sbagliata. Tuttavia, anticipando l’esito finale del ragionamento dell’avvocato generale, avrebbe dovuto essere lo stesso Consiglio di Stato e non la Cassazione pronunciandosi su ricorso per questione di giurisdizione, a dover eventualmente con rinvio pregiudiziale sollevare ove motivatamente prospettabile dubbio sulla applicabilità al caso di specie dei principi indicati dalla Corte europea in tema di necessaria pronuncia sia sul ricorso principale che su quello incidentale senza che la questione possa ricondursi tra quelle di giurisdizione come sembrerebbe invece ritenere la Cassazione nella sua ordinanza.
Peraltro l’assunto principale, da cui discende l’intero ragionamento dell’Avvocato Generale, è che, in virtù del principio di autonomia procedurale enunciato dall’art. 47 della Carta, l’organizzazione degli organi giurisdizionali dei singoli stati membri non è rilevante per il diritto europeo.
In ogni caso, l’art.111 co. 8 Cost. non risulta contrario al diritto europeo in quanto la possibilità di ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi di giurisdizione appare, anche all’avvocato generale, proporzionata e giustificata, anche al fine di evitare ricorsi pretestuosi.
La critica che l’Avvocato Generale muove alla ordinanza e che, ad avviso di chi scrive, sembra essere la più convincente è quella per cui la Cassazione in realtà nel suo ragionamento attraverso una forzatura del diritto europeo tenta di creare un terzo grado di giudizio. Come puntualmente fa notare l’Avvocato Generale, la violazione del diritto europeo non giustifica la creazione di un nuovo grado di giudizio, infatti, ed è qui il vizio logico, anche la Cassazione potrebbe errare nell’applicare il diritto comunitario senza che per questo sussista un ulteriore grado di giudizio, che altrimenti dovrebbero essere infiniti.
Nel concludere il suo ragionamento sulla prima questione sollevata, l’avvocato generale, anche se respinge l’interpretazione della Cassazione per cui nei motivi di giurisdizione dovrebbero rientrare anche le violazioni del diritto europeo ed esplicitamente afferma che l’interpretazione fornita dalla sentenza 6 del 2018 della Corte Costituzionale “secondo la quale un ricorso in cassazione per motivi di «difetto di potere giurisdizionale» non può essere utilizzato per impugnare sentenze di secondo grado che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea”, non è in contrasto con il diritto europeo, non manca però di indicare quali sono gli strumenti per rimediare a queste eventuali violazioni quali ad esempio il ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 TFUE o un’azione del tipo Francovich; anche se lo stesso avvocato facendo un’analogia con la celebre storia del detective Sherlock Holmes “Il mastino di Baskerville” fa notare come la scarsa giurisprudenza in materia sia indice di una difficoltà ad azionare nella pratica questi strumenti.
L’avvocato generale poi nell’analizzare il secondo quesito si sofferma sulla interpretazione del diritto europeo tanto da parte dei giudici nazionali quanto della CGUE. Ed infatti, con la seconda questione la Corte di Cassazione chiede se non sia contraria al diritto europeo l’interpretazione che non permette di esperire il ricorso per cassazione, facendolo rientrare nei motivi inerenti alla giurisdizione, quando il Consiglio di Stato abbia omesso immotivatamente, di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, in assenza delle condizioni che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo. L’Avvocato Generale in merito rileva che la corretta applicazione del diritto europeo non può essere, neanche interpretativamente, fatta rientrare nelle questioni di giurisdizione poiché l’effettività della giurisdizione non è una questione di giurisdizione e men che meno il mancato rinvio pregiudiziale, anche quando sarebbe obbligatorio, può essere considerato motivo di giurisdizione legittimante ricorso in Cassazione poiché spetta al giudice competente per quella controversia applicare il diritto europeo e solo a lui spetta rimettere la questione qualora si trovi in dubbio, con onere in tal senso rafforzato quando è giudice di ultimo grado.
Sicuramente, aggiunge l’Avvocato Generale, la CGUE è titolare dell’ultima parola per l’interpretazione definitiva del diritto europeo, ma non è titolare esclusiva dell’interpretazione che è una prerogativa di tutti i giudici nazionali. Dalle conclusioni dell’avvocato generale viene quindi in rilievo una concezione pluralista dell’interpretazione del diritto comunitario dove la Corte detiene la competenza esclusiva solo per l’interpretazione definitiva operando come organo di chiusura di un sistema caratterizzato dalla collaborazione con i giudici nazionali per la corretta interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione.
In conclusione, dalle parole dell’avvocato generale si evince quasi un fastidio per la remissione della vicenda in sede internazionale e il tentativo di europeizzazione di una questione che attenendo al processo e riguardando l’interpretazione di un articolo della Costituzione, vigendo il principio di autonomia procedurale, è una questione esclusivamente interna di cui la Corte e il diritto europeo non devono occuparsi.
Sul punto non può non notarsi come la questione appaia denunciare una quale ritrosia di parte del nostro sistema ad accettare gerarchie e competenze giurisdizionali definite e assegnate dalla Costituzione anche per garantire insieme pienezza di tutela, ma anche stabilità delle decisioni giurisdizionali.
Non resta che attendere la decisione della Corte di giustizia anche se le conclusioni dell’Avvocato Generale sembrano indicare in modo per la gran parte convincente la ben probabile risposta.
6. La disciplina degli appalti pubblici nel quadro del PNRR: DL 77/2021 e ricorso al “metodo derogatorio”
A cura di Carlo Garau
Il D.L. 77/2021, convertito con L.108/2021, interviene nuovamente sulla disciplina degli appalti pubblici. Con questo intervento l’esecutivo mira alla definizione del quadro normativo nazionale allo scopo di semplificare e agevolare la realizzazione degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Gli interventi in materia riprendono senza soluzione di continuità una tendenza del legislatore riscontrabile nei vari interventi che si sono susseguiti e che hanno inciso sul codice degli appalti pubblici del 2016 (D.Lgs. 50/2016), per finalità sia di risposta a emergenze contingenti, come nel caso del D.L. 109/2018 (Decreto Genova) o, anche se con portata decisamente più ampia, nel D.L. 56/2020 (Decreto Semplificazioni), sia di rilancio degli investimenti pubblici, come nel caso del D.L. 32/2019 (Sblocca Cantieri).
Una panoramica sull’evoluzione normativa e sugli effetti che il decreto ha determinato nell’azione pubblica mostra come l’emergenza sanitaria e la necessità di aumentare la capacità di spesa della pubblica amministrazione abbiano contribuito notevolmente a consolidare questa tendenza.
Il D.L. 77/2021, infatti, si inserisce nel quadro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il quale (cap. 2) prospetta due tipi di interventi in materia di appalti pubblici in un’ottica di semplificazione: il primo fondato su “misure urgenti”, volto a rafforzare le semplificazioni già adottate con il d.l. 76/2020 e a prorogarne l’efficacia sino al 2023; il secondo , destinato a recepire le tre direttive del 2014 e a ordinare le norme del codice degli appalti pubblici in una disciplina più snella, che riduca le regole che vanno oltre quelle richieste dalla disciplina europea, anche sulla base di una comparazione con gli altri Stati, in particolare con la Germania e con il Regno Unito, per la rilevanza delle rispettive discipline sul piano della semplificazione. A quest’ultima riforma “organica” si provvederà entro il 2021 con lo strumento della delega legislativa.
Il D.L. 77/2021 introduce un regime speciale semplificato per procedure relative a investimenti pubblici finanziati con le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e del Piano nazionale per gli investimenti complementari (PNC); stabilisce proroghe dei termini e delle modifiche di alcune disposizioni del D.L. 76/2020 e del D.L. 32/2019; modifica alcune norme relative alla disciplina del subappalto.
In relazione alle procedure riguardanti gli investimenti pubblici finanziati con le risorse del PNRR e del PNC, l’art. 48 del decreto prevede la possibilità di ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del Bando (artt. 63 e 125 Cod. appalti) quando, per ragioni di estrema urgenza, l’applicazione dei termini, anche abbreviati, può compromettere la realizzazione degli obiettivi o il rispetto dei tempi di attuazione del PNRR. Questa norma permette di assicurare il rispetto dei tempi serrati di attuazione del Piano e, in questo modo, evitare la perdita dei fondi a esso sottesi. Per i medesimi contratti si contempla la possibilità di affidare la progettazione e l’esecuzione dei lavori anche sulla base del progetto di fattibilità tecnica ed economica di cui all’art. 23, co. 3 del Codice. Nel caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui al comma 1 dell’art. 48, il nuovo Decreto Semplificazioni richiama poi l’applicazione dell’art. 125 del c.p.a., con la conseguenza che in sede di pronuncia del provvedimento cautelare, il giudice amministrativo dovrà tenere conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera. L’art. 50 del decreto, riguardante la fase di esecuzione dei contratti pubblici attuativi del PNRR e PNC, nonché dei programmi cofinanziati coi fondi strutturali, estende i poteri sostitutivi previsti dal D.L. 76/2020 in caso di inerzia nella stipulazione del contratto, nella consegna dei lavori o nella costituzione del collegio consultivo tecnico, entro un termine che è inferiore alla metà rispetto a quello originariamente previsto.
Il decreto si occupa anche di prorogare i termini di applicazione delle norme derogatorie-semplificatorie previste dal D.L. 76/ 2020. Il termine fissato al 31.12.2020 viene prorogato al 30 giugno 2023. In relazione agli appalti sotto soglia, per le forniture e servizi viene innalzato a 139.000 euro il limite per l’affidamento diretto, anche senza consultazione di più operatori economici inoltre, per i lavori oltre i 150.000 euro e fino a un milione e per forniture e servizi, da 139 mila uro fino alle soglie comunitarie, si prevede, la procedura negoziata con cinque operatori, mentre per i lavori di importo pari o superiore ad un milione e fino a soglia comunitaria l’invito viene limitato ad almeno dieci operatori (in luogo dei quindici originariamente previsto).
Per gli appalti sopra soglia alla proroga fino al 30 giugno 2023 vengono ancorate le deroghe di cui all’art. 8 comma 1 del D.L. Semplificazioni, in relazione a: (i) consegna dei lavori in via d’urgenza, sempre consentita; (ii) sopralluogo obbligatorio, solo ove strettamente indispensabile; (iii) applicazione generalizzata delle riduzioni dei termini procedimentali per ragioni di urgenza e (iv) possibilità di prevedere affidamenti anche nel caso in cui questi non siano stati preventivamente inseriti in programmazione, a condizione che si provveda ad aggiornare i documenti programmatori.
Invece, per le proroghe dei termini e per ulteriori modifiche del d.l. 32/19 (Sblocca cantieri), l’art. 52, in estrema sintesi, estende al 30 giugno 2023 il regime sperimentale di sospensione di varie norme del codice dei contratti pubblici e stabilisce che fino al 30 giugno 2023 si applichi anche ai settori ordinari la norma prevista dall’art. 133, co. 8, del D. Lgs. n. 50/2016, per i settori speciali, la c.d. “Inversione procedimentale”. Inoltre, fino al 31 dicembre 2023 si sospendono (i) l’applicazione del comma 6 dell’articolo 105 e del terzo periodo del comma 2 dell’articolo 174 (relativi alla c.d. “terna dei subappaltatori”), nonché (ii) le verifiche in sede di gara, di cui all’articolo 80 del medesimo codice, in capo al subappaltatore.
In relazione al subappalto, il DL 77/2021 interviene sull’annosa questione non affrontata dal precedente Governo in sede di DL 76/2020, nonostante al centro dell’attenzione comunitaria sia nell’ambito di procedura di infrazione 2273/2018, sia in relazione alle Sentenze CGUE S6 settembre 2019 e 27 novembre 2019. La modifica più rilevante riguarda il limite massimo alla facoltà di subappalto. È previsto che dall’entrata in vigore del decreto fino al 31 ottobre 2021 il subappalto non potrà superare la quota massima del 50% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi e forniture. Al contempo, intervenendo sul testo dell’art. 105 del D.lgs. n. 50/2016, si prevede, a partire dall’entrata in vigore del suddetto decreto il divieto, a pena di nullità, di integrale cessione del contratto di appalto e l’affidamento a terzi dell’integrale esecuzione delle prestazioni o lavorazioni, nonché la prevalente esecuzione delle lavorazioni relative al complesso delle categorie prevalenti e dei contratti ad alta intensità di manodopera. Inoltre, si prevede che il subappaltatore debba garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nei contratti di appalto, ivi inclusa, l’applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro. Dal 1°novembre 2021, invece, tramite una modifica anche in questo caso all’art. 105 del Codice, si prevede che verrà meno il limite generalizzato al subappalto, con l’obbligo per le Stazioni Appaltanti di indicare nei documenti di gara le prestazioni che non possono essere subappaltate e che, pertanto, devono obbligatoriamente essere eseguite dall’aggiudicatario, tenuto conto delle caratteristiche dell’appalto e dell’esigenza di rafforzare il controllo delle attività di cantiere e dei luoghi di lavoro e garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e di sicurezza dei lavoratori, tranne nel caso in cui il subappaltatore sia iscritto nelle white list, ovvero, nell’anagrafe antimafia.
Le misure semplificatorie sopra richiamate, testimoniano come il decreto si inserisca perfettamente nella logica di “fuga dal regime ordinario”, inaugurata già nel 2018 in occasione del “Decreto Genova”. Ciò ha portato al consolidamento di un “modello derogatorio”, come testimonia l’aumento degli affidamenti diretti (aumentati del 242% nel secondo semestre del 2020 per i lavori fino a 150 mila euro) e l’ uso della procedura negoziata senza bando di gara, la quale pur essendo configurata come strumento eccezionale nell’ambito del codice appalti, è stata utilizzata nel medesimo arco temporale in più di tre gare su quattro nella fascia tra 150 mila euro e un milione di euro e in oltre il 50% dei casi per la fascia superiore. Il decreto da ultimo in vigore, convertito con L.108/2021, consolida questo modello, come testimoniano le misure che innalzano l’importo degli affidamenti diretti sottosoglia, che prevedono procedure negoziate rapide per le opere finanziate con risorse del PNRR, nonché l’ampliamento della possibilità di ricorso al subappalto. Ciò pone, nell’ottica di una organica riscrittura del codice degli appalti il delicato problema del bilanciamento tra esigenze di efficacia ed efficienza dell’azione pubblica ed esigenze di trasparenza e prevenzione di fenomeni infiltrativi, soprattutto alla luce della straordinaria immissione di risorse pubbliche connessa all’attuazione del Piano di ripresa e resilienza.