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LE SSUU SUPERANO IL DIVARIO TRA PREPOSIZIONE PUBBLICA E PRIVATA

Giuditta Russo

22/02/2021

Nell’analisi del tema che attiene alla responsabilità della PA per fatti illeciti dei propri dipendenti, di notevole importanza appare la posizione assunta dalle S.U.,  nella sent.n.13246/2019, in un giudizio avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno cagionato alla parte di un giudizio di divisione, a seguito della condotta di un funzionario (poi condannato per peculato), che illecitamente aveva sottratto le somme depositate presso un ufficio giudiziario e alle quali la parte attrice avrebbe avuto diritto.

Il provvedimento di prime cure emesso dal Tribunale di Catania, che condannava il Ministero convenuto al risarcimento, ritenuti sussistenti i presupposti dell’estensione della responsabilità all’Amministrazione, a norma dell’art. 28 Cost (sent.n.4400/2011), era poi stato riformato in secondo grado dalla Corte d’Appello (n.1353/2015), con l’assoluzione dell’appellante (Ministero) da ogni pretesa risarcitoria, per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente personale ed egoistico, estraneo all’Amministrazione e addirittura contrario ai fini che essa perseguiva, come tale idoneo ad escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente.

La parte soccombente proponeva quindi ricorso per Cassazione basato, peraltro, su un unico motivo. Ad essere contestata era la violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e dell’art. 2049 cc: ci si doleva dell’esclusione della responsabilità del Ministero, negando che, ai fini dell’applicazione dell’art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità fra il comportamento del funzionario e l’evento dannoso, dovesse necessariamente ricorrere anche l’ulteriore presupposto della «riferibilità all’amministrazione di quel comportamento» e si contestava, in ultimo, il fatto che ricadesse esclusivamente sul danneggiato la scelta della PA di affidare la direzione di un ufficio a soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali necessari. Si chiedeva, quindi, che l’amministrazione rispondesse del «danno occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli» e si negava invece operatività al principio secondo cui la responsabilità dell’Amministrazione, nelle ipotesi previste dall’art. 28 Cost., dovesse ritenersi esclusa ogniqualvolta l’agente, profittando delle sue precipue funzioni, avesse dolosamente commesso il fatto per ritrarre egli stesso utilità, non trovando questo giustificazione né nel dettato costituzionale, né in norme di legge e integrando, di contro, un disparitario trattamento a favore dell’Amministrazione. Dal canto suo, il Ministero sosteneva l’esclusione di ogni responsabilità dello Stato nel caso in esame, propugnando, oltre alla possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale per peculato a carico del funzionario infedele (attesa la natura plurioffensiva del delitto in questione), il carattere assolutamente imprevedibile ed eterogeneo della condotta dell’agente rispetto ai compiti istituzionali cui era preposto, così da escludere un collegamento con essi.

Con ord. n. 28079/2018 la Terza Sezione ha rimesso la questione alle S.U., evidenziando la non univocità degli indirizzi giurisprudenziali sul tema. Nell’ordinanza si sottolinea, da un lato, l’esistenza di un orientamento proprio della prevalente giurisprudenza di legittimità civile e di quella penale più risalente (Cass.n.24744/2006; Cass.n.9260/97; Cass.n.10896/96; Cass.n.12786/95; Cass.n.12960/91), secondo cui la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) ex art. 28 Cost. per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, l’attività vada imputata direttamente all’ente. Dall’altro lato, la Suprema Corte prende atto dell’esistenza di un secondo orientamento, proprio invece della giurisprudenza penale più recente (Cass.,Sez.pen.n.13799/2015) e di quella civile minoritaria, riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici, in base al quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico in applicazione dei criteri privatistici che disciplinano la responsabilità indiretta del preponente ai sensi dell’art. 2049 cc, sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno. Si configura quindi una responsabilità civile della PA anche nel caso di  condotta dei dipendenti pubblici diretta a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso,  che trova la propria occasione necessaria nell’adempimento di funzioni pubbliche, sempre che detta condotta costituisca uno sviluppo prevedibile dello scorretto esercizio di tali funzioni.

Prima di passare alla soluzione cui hanno aderito le S.U., occorre brevemente soffermarsi sugli artt. 28 Cost. e 2049 cc.

È noto l’ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all’indomani dell’entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell’art. 28 Cost.: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quella dell’agente, è invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due responsabilità. La responsabilità dello Stato è ricostruita come diretta in forza del principio dell’immedesimazione organica, dovendo escludersi che l’attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali dal dipendente pubblico possa imputarsi allo Stato o all’ente pubblico. Secondo la prevalente dottrina pubblicistica, peraltro, la vera portata innovativa dell’art 28 Cost. al momento della sua introduzione fu proprio la previsione, accanto alla responsabilità diretta della PA, di una responsabilità concorrente, sempre diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l’Ente di appartenenza, solo nei casi previsti da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l’una o l’altra o entrambe.

Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti come responsabilità senza colpa. Il concetto di padrone o committente è stato nel tempo ampliato in forza di un’interpretazione evolutiva ed esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si avvalgono dell’opera di terzi a loro legati in forza di vincoli di varia natura. Si è, al riguardo, superata l’originaria configurazione della responsabilità almeno per colpa in eligendo o in vigilando e giunti alla consapevolezza che si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui. Si tratta di un’applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l’avvalimento da parte di un soggetto dell’attività di terzi per il perseguimento dei propri fini comporta l’attribuzione al primo dell’attività compiuta dai terzi nei limiti dei poteri conferiti, comprensiva sia degli effetti favorevoli che di quelli pregiudizievoli, riallocando così i costi delle condotte dannose in capo a colui che si avvale dell’operato altrui.

Dato il contrasto giurisprudenziale in materia e analizzato il quadro normativo rilevante, le S.U., aderendo all’orientamento minoritario più recente della giurisprudenza di legittimità civile e penale, rilevano che nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici e quindi vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici. Per queste ragioni, la Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza gravata e rinviando il giudizio alla Corte d’Appello. 

Deve ammettersi quindi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui, i quali non si escludono reciprocamente, venendo invece in considerazione singolarmente a seconda del tipo di attività della PA di volta in volta posta in essere: infatti, se l’attività è resa nell’esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, l’illecito sarà riferito direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, ex art. 2043 cc; se, invece, l’attività è posta in essere dai dipendenti pubblici, approfittando della titolarità o dell’esercizio di quelle funzioni, per il perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali le stesse funzioni erano state conferite, la responsabilità dell’Ente sarà indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati nei rapporti di diritto privato e desunti dall’art. 2049 cc. Ai fini del riconoscimento in capo alla PA della responsabilità ex art. 2049 cc., è necessario che la condotta del dipendente non costituisca una imprevedibile estrinsecazione della funzione affidata al preposto, sulla base di un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione, non riferito alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come probabili secondo il criterio del «più probabile che non» in un dato contesto storico. Ogni diversificazione di trattamento, per di più in senso favorevole alla PA, non solo non potrebbe giustificarsi sulla base di generiche esigenze di finanza pubblica, non potendo queste ultime compromettere del tutto la tutela dei diritti, ma contrasterebbe apertamente con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, co.1, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., riconosciuto anche a livello sovranazionale dall’art. 6 CEDU e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, perseguibile, invece, con il riconoscimento della responsabilità concorrente del preponente. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da soggetti dai quali è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente (anche in virtù del superato orientamento che richiedeva per la configurabilità della responsabilità ex 2049 cc. almeno la sua culpa in eligendo o in vigilando) e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario (salvo esplicita diversa previsione normativa che, ad es. per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa). Deve quindi superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistica (o diretta) e privatistica (o indiretta): l’art. 28 Cost. non preclude l’applicazione della normativa del codice civile, essendo piuttosto finalizzata all’esclusione dell’immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico, e la contemporanea affermazione della responsabilità della PA. Ne consegue che la responsabilità concorrente della PA e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest’ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella debba seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune. Non osta, peraltro, a che la PA sia dichiarata responsabile nei confronti di terzi il fatto che la stessa possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele (rilevando ciò solamente nei rapporti interni con quello). La conseguenza è l’integrale applicazione della disciplina della responsabilità oggettiva, che implica a sua volta la vigenza delle regole in tema di accertamento del nesso causale e l’applicazione dell’art. 1227 cc in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato. L’Amministrazione, pertanto, andrà esente dalle conseguenze dannose delle condotte illecite, anche omissive, dei propri preposti solo se non prevedibili da questa come estrinsecazione non anomala dei poteri conferiti, in base ad un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante. Nella specie, risulta incontestato che le funzioni attribuite al cancelliere in servizio presso un ufficio giudiziario (quale il Tribunale di Catania), comprendessero anche quelle di custodia o di cooperazione nella custodia delle somme depositate presso il medesimo, ricavate nelle fasi di un giudizio civile – nella specie, di divisione – e funzionalizzate al perseguimento dello scopo istituzionale della loro consegna agli aventi diritto, a garanzia dell’imparzialità della Giustizia e del corretto andamento della PA ed è altrettanto evidente che la violazione, in concreto avutasi da parte dello stesso del divieto di distrarre quelle somme dal loro fine istituzionale era una conseguenza riconducibile ad una sequenza causale oggettivamente non improbabile e che quindi avrebbe dovuto prevenirsi da parte di qualunque preponente: il cancelliere infedele in tanto ha potuto appropriarsi di quelle somme, in quanto era titolare di quei poteri, sia pure appunto piegandoli a fini eminentemente personali od egoistici ed oltretutto delittuosi. Del danno conseguente a tale complessiva condotta criminosa, obiettivamente prevenibile da chi conferisca ad altri il potere di custodire somme o di eseguire ordini o mandati di pagamento a valere sui relativi documenti rappresentativi, non può quindi che essere responsabile in solido l’ente pubblico da cui il funzionario dipende.

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