COSTANZA TRAPPOLINI
20/02/2019
Negli ultimi anni la Repubblica italiana è stata convenuta in numerosi arbitrati internazionali promossi da imprese che hanno investito risorse nel settore delle energie rinnovabili facendo affidamento sulle tariffe incentivanti di durata ventennale riconosciute dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE). Le vertenze traggono origine dalle modifiche peggiorative che, a partire dal 2011, il Governo italiano ha apportato ai meccanismi incentivanti previsti dai Conti energia e riconosciuti ai singoli operatori tramite contratti stipulati con il GSE. La ragione della reformatio in peiusdeve rintracciarsi nel dilagare della crisi economica che ha imposto al Legislatore un cambio di strategia per evitare che il peso dei meccanismi incentivanti gravasse sui conti pubblici. Rileva, inoltre, il repentino sviluppo del settore che ha attenuato l’esigenza di una politica incentivante.
I numerosi contenziosi instaurati innanzi all’Investor–State Disputes Settlementhanno posto all’esame dei tribunali arbitrali il difficile bilanciamento tra la libertà regolatoria degli Stati e l’esigenza di adempiere le obbligazioni sancite dagli accordi internazionali di protezione degli investimenti. Le controversie Investitore-Stato vengono a porsi come emblema di uno scontro tra il principio di sovranità fondante l’ordinamento e la garanzia dei diritti acquisiti dagli investitori. La questione è stata finora risolta dai collegi arbitrali attraverso lo scrutinio del Fair and Equitable Treatment (d’ora innanzi FET),sancito dall’art. 10 dell’EnergyCharter Treaty (ECT), che impone ai collegi arbitrali di verificare se le misure adottate dal Governo sono ‹‹unfair and inequitable›› in quanto lesive dell’obbligo dello Stato di garantire agli investitori stranieri ‹‹stable, equitable and transparent conditions››. Da ciò deriva che gli investitori protetti dall’art. 10 ECT hanno diritto ad aspettarsi un trattamento giusto ed equo attraverso la creazione di condizioni stabili.
Il FET ha suscitato numerose perplessità in ordine al grado di stabilità legislativa che lo Stato ospite deve garantire agli investitori stranieri. Numerose pronunce hanno riconosciuto il potere degli Stati di emendare il quadro di riferimento in senso sfavorevole agli investitori. Ciò significa che il rapporto tra legittimo affidamento e stabilità legislativa non deve essere inteso come immutabilità e che, pertanto, nessun investitore può ragionevolmente aspettarsi che le condizioni esistenti al momento dell’investimento rimangano inalterate. Tuttavia, la libertà regolatoria riconosciuta dalla giurisprudenza arbitrale deve essere esercitata entro i limiti posti dagli accordi internazionali di protezione degli investimenti.
Si impone, dunque, una valutazione della condotta degli Stati tramite la lente dei principi di proporzionalità e ragionevolezza che consentono un bilanciamento tra gli interessi privati degli investitori e gli obiettivi perseguiti dal Govern0. In virtù di tali principi, i diritti e le libertà degli investitori possono subire una limitazione solo nella misura in cui risulti ragionevole e indispensabile per proteggere gli interessi pubblici.
La centralità dell’interesse pubblico quale condizione necessaria e sufficiente per limitare in misura ragionevole e proporzionata i diritti degli investitori è riconosciuta dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU sulla tutela del diritto di proprietà, in cui rientrano i diritti di credito. La Corte di Strasburgo impone il rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, ma riconosce agli Stati un margine di deroga per consentire loro il perseguimento di rilevanti interessi statali. A tal proposito, occorre richiamare la dottrina del margine di apprezzamento elaborata dalla Corte EDU che riconosce ampia discrezionalità alle autorità nazionali, in virtù della loro prossimità alle istanze economico-sociali, nell’individuazione dell’interesse pubblico e delle misure idonee a perseguirlo. L’indirizzo ermeneutico espresso dai Giudici di Strasburgo è stato richiamato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 7 dicembre 2017, n. 16, in cui la Consulta ha dichiarato la legittimità del decreto legge 24 giugno 2014, n. 91 (cd. Decreto Spalma-incentivi), oggetto di censure in numerosi arbitrati internazionali.
Nonostante l’indirizzo uniforme espresso dalla giurisprudenza costituzionale e internazionale in subiecta materia, i collegi arbitrali hanno sovente censurato la condotta del Governo italiano non riscontrando nelle imperiose richieste di rispetto dei parametri di bilancio avanzate dall’UE una valida e ragionevole giustificazione politica. Si ravvisa, dunque, un vero e proprio conflitto tra l’indirizzo interpretativo seguito dai collegi arbitrali e l’orientamento espresso da altri giudici internazionali. L’origine del conflitto deve ricercarsi nella formulazione eccessivamente vaga del FET che, imponendo agli Stati l’obbligo di creare condizioni stabili per gli investitori, non fornisce ulteriori indicazioni circa gli standardsche devono guidare gli arbitri nel difficile bilanciamento tra la libertà regolatoria degli Stati e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati sulla protezione degli investimenti.
Gli standardsdi protezione degli investimenti, infatti, appaiono ben lontani dal grado di approfondimento raggiunto dalla giurisprudenza costituzionale e internazionale. Ciò determina un’assoluta discrezionalità degli arbitri nella valutazione della condotta degli Stati con pregiudizio alla coerenza e prevedibilità delle loro decisioni. Pur essendo auspicabile un intervento diretto sulle convenzioni che imprima agli standardsmaggior chiarezza e precisione, tale riformulazione appare oggi difficilmente attuabile. Il conflitto creatosi nel diritto internazionale potrebbe essere agevolmente superato se i collegi arbitrali si uniformassero all’indirizzo ermeneutico della Corte EDU facendo propria la dottrina del margine di apprezzamento che si rende necessaria ogni qualvolta siano pendenti questioni che vedono contrapporsi interessi pubblici e privati.