di FABIO PALERMINI
23/09/2017
Il Decreto Legislativo 5 agosto 2015, n. 128, contenente le disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della Legge 11 marzo 2014, n. 23[1], ha finalmente introdotto nel nostro ordinamento, a far data dal 1° gennaio 2016, l’istituto del c.d. “abuso del diritto” in campo tributario.
In particolare, nella Legge 27 luglio 2000, n. 212, il c.d. “Statuto del Contribuente”, è stato introdotto il nuovo articolo 10bis, rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”.
Di fatto, questo “nuovo” istituto va a sostituire quello della c.d. “elusione fiscale”, contenuto nell’ormai abrogato art. 37bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Infatti, l’applicazione della previgente normativa si era palesemente rivelata insufficiente ad individuare in maniera certa, precisa ed incontrovertibile, le fattispecie di condotta abusiva fiscalmente illecite. Il tutto acuito dai forti contrasti giurisprudenziali che hanno contribuito a generare un clima di incertezza e di instabilità.
Per effetto delle nuove disposizioni normative, vengono unificati i concetti di “abuso del diritto” e di “elusione fiscale”, e pertanto i due termini possono essere considerati equipollenti ed utilizzati indifferentemente.
La nuova disciplina, al co. 1, individua i tre presupposti per la sussistenza dell’abuso: l’assenza di sostanza economica dell’operazione; la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; la circostanza che l’indebito vantaggio fiscale è l’effetto essenziale dell’operazione.
Orbene, la presenza contemporanea di tali presupposti configura l’illiceità dell’operazione effettuata. Tuttavia, i negozi giuridici posti in essere per effetto della condotta abusiva non sono nulli, ma solo inefficaci ai fini tributari.
Tralasciando l’analisi di dettaglio della normativa in esame, in questa sede si vuole mettere in evidenza l’importanza del rispetto delle norme procedurali stabilite dal legislatore, affinché possa correttamente configurarsi il potere accertativo da parte del Fisco. Procedure tutte dirette ad un’attiva partecipazione del contribuente alla formazione del procedimento amministrativo di accertamento.
A salvaguardia del diritto di difesa del cittadino-contribuente, i commi da 6 a 9 dettano le regole procedimentali dirette a garantire un efficace, effettivo e proficuo confronto tra contribuente ed Amministrazione Finanziaria.
Di fatto, il legislatore, recependo le istanze garantiste formulate dalla dottrina e dalla giurisprudenza europea, ha delineato un iter procedimentale ben più stringente rispetto agli altri procedimenti amministrativi di accertamento tributario. Il co. 6 stabilisce che il procedimento ivi delineato costituisce l’unica modalità attraverso cui l’abuso del diritto può essere rilevato ed accertato.
In primis, viene stabilito che l’abuso del diritto deve essere accertato con un “apposito atto”, e che questo deve essere preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di 60 giorni, indicando i motivi per i quali si ritiene configurabile una fattispecie di abuso.
Inoltre, l’atto impositivo deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti eventualmente forniti dal contribuente.
L’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, mentre grava sul contribuente l’onere di provare l’esistenza delle valide ragioni extrafiscali poste alla base delle operazioni effettuate.
Alla luce di ciò, l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale di cui al comma 6, la cui omissione sancisce la nullità, e quindi la necessaria partecipazione del contribuente al procedimento amministrativo, ha evidentemente una duplice funzione. Da un lato consente all’Agenzia delle Entrate, deputata all’accertamento di tali fattispecie di abuso, di esercitare la propria discrezionalità valutativa con la più piena conoscenza dei fatti economici da valutare, dovendo di fatto costruire la sua strategia di accertamento basandosi sui fatti e rispondendo, punto per punto, alle argomentazioni addotte dal contribuente. Dall’altro lato, permette a quest’ultimo di far valere le proprie ragioni già in sede procedimentale, anticipando le proprie difese ad una fase antecedente al contenzioso giudiziario.
A ciò si può aggiungere anche una terza funzione, che è da accogliere sicuramente con favore, vale a dire il fatto che il contraddittorio preventivo rappresenterebbe anche uno strumento di prevenzione avverso l’emanazione di un potenziale avviso di accertamento annullabile per infondatezza nel merito, oltre che strumento deflattivo del contenzioso.
Con tale normativa innovativa, pertanto, il legislatore ha tentato di arginare le problematiche precedentemente emerse con l’istituto dell’elusione fiscale, ed ha sancito il principio del contraddittorio rafforzato in tema di abuso del diritto.
In merito alla partecipazione del contribuente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 24823 del 2015, hanno affermato che il generale principio del contraddittorio endoprocedimentale è valido nel solo caso di controversie in materia di tributi armonizzati (v. Imposta sul Valore Aggiunto, n.d.r.), mentre fuori da questi casi, l’invalidità dell’atto impositivo per assenza del contraddittorio preventivo, sussisterebbe solo qualora sia la legge stessa a prevederlo come necessario. E’ proprio questo il caso dell’abuso del diritto di cui all’art. 10bis dello Statuto del Contribuente.
Diversamente, in tema di tributi c.d. “armonizzati”, trovando diretta applicazione il diritto europeo, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale comporta l’invalidità dell’atto, sempreché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto.
Tale impostazione ha trovato conferma nelle recentissime Ordinanze nn. 15837 del 23 giugno 2017 e 21071 dell’11 settembre 2017 della VI Sezione Cassazione Civile.
Tuttavia, tale impostazione va vista con occhio critico, dal momento che sembra ipotizzare, come da più parti denunciato, l’esistenza di due percorsi autonomi e distinti, l’uno per i tributi armonizzati e l’altro per quelli non armonizzati, creando anche una sorta di discriminazione e un’antinomia nel sistema tributario.
Di qui la richiesta, da più parti, alquanto auspicabile, di un intervento legislativo al riguardo, che riporti, di fatto, organicità e sistematicità in materia.
[1] Delega al Governo recante “disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”.